Carlo e Licia

Carlo e Licia

Archivio

Cerca nel blog

domenica 27 ottobre 2019

E.A. Poe & J. Verne.

Esattamente settanta anni fa, ricordo ancora i colori e i calori del tardo pomeriggio dovuto all'ora legale – che avevo sentito nominare ma di cui non avevo capito il meccanismo – mio padre, di ritorno da uno dei suoi numerosi viaggi, mi regalò un libretto tascabile con vistosa copertina disegnata con colori vivaci. Era uno di quei libri che avevo visto esposti nelle edicole semoventi della stazione, ed era intitolato Lo scarabeo d'oro e altri racconti di E.A. Poe (1809-1849) di cui ignoravo l'esistenza e di cui da quella introduzione poco più tardi lessi assiduamente l'opera omnia. Il fatto del regalo non era insolito, anche se non frequente, però normalmente si trattava di Salgàri o di qualche derivato dei Tre moschettieri. Oltretutto nel 1949, essendo lo Studio Italiano di Storia dell'Arte di C.L. Ragghianti in Palazzo Strozzi, le mie letture (salvo i fumetti) erano fornite dal coinquilino Gabinetto Vieusseux-Biblioteca circolante, nel quale il direttore Alessandro Bonsanti ogni tanto mi consigliava personalmente un libro, testato, (penso) su suo figlio mio coetaneo.
Lessi subito il racconto di Poe ma con qualche difficoltà, che superai tre anni dopo in una lettura entusiasmante.
Questo lontano ricordo mi è stato suscitato dal ritrovamento del prezioso e poco noto saggio di Jules Verne (del quale ho riletto l'Isola misteriosa almeno una decina di volte) che rendiconta i lettori della rivista “Musée des Familles” (aprile 1864) dell'opera dello scrittore statunitense, morto prematuramente e già assai noto e considerato anche (e forse 




soprattutto) in Francia. Il testo di Verne è illustrato con meravigliose incisioni, xilografie cioè opere grafiche diffuse e pregiate uccise di lì a poco dalla banalità della riproduzione fotografica, realistica ma quasi sempre non suggestiva.


Siccome in tempi diversi, che non ricordo, appurai che sia l'infanzia di mia madre Licia che quella del babbo Carlo erano state allietate dalla lettura delle opere dello scrittore di Baltimora, ritengo adesso appropriato riprodurre il testo di Verne accompagnandolo, a mo' di presentazione, con due pagine di Charles Baudelaire. Allego anche alcune poesie di Poe tradotte in italiano (la mamma le aveva, ovviamente, lette ma ignoro in quale lingua, propenderei per l'inglese).
Intendo anche riferire una curiosa coincidenza riguardante proprio lo Scarabeo d'oro. Ieri pomeriggio ho iniziato a leggere il libro Per ridere aggiungere l'acqua. Piccolo saggio sull'umorismo e il linguaggio di Marco Malvaldi, un impegno letterario difforme da quello suo abituale, trascinante, costruito con originalità e una freschezza che ancora dopo molti volumi 
riesce ad evitare la ripetitività. Per Rosetta e per me Malvaldi è ormai una simpatica presenza, una compagnia distensiva, comunque una lettura che lo fa andare a braccetto con Jerome K. Jerome e Woodhouse. Data poi la sua rigorosa formazione di chimico nella stessa Università di Carlo L. Ragghianti – curioso studioso di atipicità e dei linguaggi non convenzionali – penso sia un peccato che il divario generazionale non li abbia fatti incontrare.
Comunque a p. 28 Malvaldi ricorda che “in ciascuna lingua ogni singola lettera compare con una determinata frequenza, e tale conoscenza ha ispirato ben più di un romanziere”; quindi cita proprio Edgar Allan Poe, Jules Verne, Conan Doyle e il recente Georges Perec.
Avendo, infine, rinvenuto in Archivio un ritaglio a stampa che riporta giudizi di Poe su Machiavelli, Manzoni, D'Azeglio, Alfieri, lo riproduco a dimostrazione di quanto possono essere fuorvianti nel giudizio qualitativo le traduzioni dei testi letterari. In questo caso è evidente che a Poe sfugge del tutto l'importanza innovatrice linguistica di Manzoni, il cui italiano incide sulla contemporaneità e poi la rivoluzionerà praticamente come fece Dante a suo tempo. Massimo D'Azeglio, genero di Manzoni, al confronto ha un linguaggio faticoso, “arcaico”, e – letto in italiano – in un confronto viene letteralmente sbaragliato dalla limpidezza della prosa del padre di sua moglie. Così per certi versi l'Alfieri risulta di lettura faticosa, talora contorta.
F.R. (19 luglio 2019)

giovedì 24 ottobre 2019

Alois Riegl: Arte tardoromana, 2.

Architettura.



Post precedenti

1. 24 settembre 2019 - Indice generale; Elenco illustrazioni (p. XI); Notizia Critica (p. XVII); L'opera storica di Alois Riegl (p. XXXI).








lunedì 21 ottobre 2019

Biografia di Emanuele Pellegrini su Carlo L. Ragghianti. Prima notizia.

Grazie all'invio da parte del sollecito Ufficio Stampa della Fondazione Ragghianti di Lucca, abbiamo ricevuto la recensione di Roberto Balzani, spontaneamente lusinghiera, alla biografia che Emanuele Pellegrini ha pubblicato l'anno scorso su nostro padre, storico dell'arte e uomo politico.
Naturalmente la riproduco qui insieme alla copertina e alla quarta di coperta del libro di Pellegrini, di taglio “agile” ma concretamente improntato ad un rigoroso criterio storiografico.

Con Emanuele Pellegrini, certamente il più preparato ed informato studioso della complessa figura storica di Carlo L. Ragghianti, debbo subito confessare che mi sento in grave difetto, in colpa per il ritardo con cui riferisco dell'esistenza di questa importante pubblicazione. Ciò dipende da un mio fatto caratteriale la cui conseguenza è che non ho ancora trovato il bandolo per scrivere tutto il bene che penso del libro nei termini canonici di una recensione. 
Ripeto, mi cospargo il capo di cenere (anche se sui miei capelli bianchi si vedrà poco) su questo indugio che un mio soprannome indica chiaramente: Diesel, cioè lento a carburare, lento a mettere a fuoco e risolvere una incombenza, doverosa nella fattispecie. Infatti se non riesco a farlo di getto, dovrò poi attendere l'ispirazione per un tempo stocastico, indeterminabile preventivamente. (Questo è il motivo, ad es., per cui non ho potuto fare il giornalista, ma limitarmi a rimanere pubblicista. E' anche la ragione principale del fatto che in questo blog “saltapicchio” come un grillo da un argomento all'altro). Spero comunque di riuscire ad intervenire tempestivamente.
Voglio, infine, ricordare che la selezione del carteggio Ragghianti nel libro, eccellente e centrata – come rilevò anche il recensore del “Sole 24ore” – è opera di Elisa Bassetto, che ha collaborato alla sistemazione dell'Archivio della Fondazione Ragghianti.

F.R. (12 ottobre 2019)

venerdì 18 ottobre 2019

Ma Alois Riegl era ben noto.




Questo articolo, pubblicato su “La Nazione” di Firenze il 6 luglio 1985, fu concepito da Carlo L. Ragghianti mentre stava concludendo La Critica della forma. Ragione e storia di una scienza nuova (Baglioni&Berner, Firenze 1986), opera capitale nella quale era dedicato ad Alois Riegl ampio spazio con considerazioni e indagini innovative.
Su questo specifico argomento, assieme a puntualizzazioni circa la valenza lessicale e metodologica del termine forma abbiamo dedicato vari post in questo blog, e precisamente: Forma e funzione (23 aprile 2018); Forma e figura (31 marzo 2018); Ancora forma e figura (2 agosto 2018); Tutto è forma (9 ottobre 2018). Mentre a proposito del libro La critica della forma su “seleArte”, IV serie (interamente riproposta in questo blog con indici attivabili nella pagina successiva alla fotografia di copertina del blog), ricordiamo l'intervista a S. Ordasi (n. 2, pp. 5-9) e l'utilizzo dell'indice per Argomento.
Le indagini sulla “critica della forma” saranno ancora approfondite con post relativi soprattutto alle ripercussioni del libro tramite recensioni e chiarimenti desunti dalla corrispondenza di Carlo L. Ragghianti.


Nel presente articolo, è poi evidenziata la situazione culturale di Pisa (intesa come Scuola Normale Superiore e Università) nei primi anni Trenta, in una congiuntura eccezionale dalla quale non si può estraniare la figura di Giovanni Gentile. Si analizza anche la storiografia artistica e culturale internazionale fortemente debitrice nei confronti dell'opera di Alois Riegl; opera che continua ad essere diffusa negli U.S.A. Ed è proprio da laggiù che Franz Boas, grande studioso delle arti primitive indoamericane, adotta la metodologia di Riegl. 
Di Boas il 15 ottobre 2019 in un post abbiamo riproposto la riduzione della prima parte di Primitive Art, mentre nel mese successivo sarà postato il resto della sua originale ricerca.
Con queste auspici parole di C.L.R. “Comunque l'estensione della conoscenza del Riegl è un fatto positivo a conferma della nostra anticipazione” concludo questo breve excursus su un fenomeno culturale che coinvolge da un lato la comprensione dell'arte primitiva, dall'altro la metodologia derivante dal ragionare secondo “la critica della forma”.
F.R. (15 agosto 2019)

martedì 15 ottobre 2019

Franz Boas (1): l'elemento formale nell'arte primitiva.

Carlo L. Ragghianti nel testo che riproduciamo come Introduzione a questo post, cioè la prima parte del capitolo Due precedenti: Boas e Riegl (da: L'uomo cosciente, 1981, pp. 228-231), rileva che “ esamino in questo autore di preferenza perché lo considero uno degli studiosi che hanno meglio e più largamente chiarito i problemi dell'umanità primèva”. Infatti oltre a “definire l'impulso e l'esercizio del linguaggio verbale” R. in Boas apprezza l'esposizione di alcuni concetti, che “smonta” dialetticamente, dell'etnologia, soprattutto “l'opinione che l'arte detta decorativa cioè astratta abbia valore di simbolismo per i primitivi”. Così anche “in tema d'arte decorativa il Boas è più problematico degli analisti che ne hanno trattato”. Eccetera.
Dalle opere del Boas (1858-1942) C.L. Ragghianti investiga in questo contesto soprattutto Primitive Art (1927) nell'edizione Dover del 1955, di cui riproduciamo la notizia della pubblicazione comparsa in “seleArte” (n. 26, sett.-ott. 1956, p. 39) e alcune tavole aggiuntive di illustrazioni dal volume recensito.
Otto anni dopo, sempre su “seleArte” (n. 69,70,71, del 1964), C.L.R. - coadiuvato per le traduzioni e qualche 
riassunto da Licia Collobi - pubblicò di Primitive Art una “riduzione assai larga” perché “il saggio è ancora una delle analisi più penetranti e più ampie che siano state scritte sulla forma dell'arte cosiddetta primitiva; riteniamo perciò utile farlo conoscere, ora che quell'arte ha una così vasta risonanza, e non più soltanto nell'ambito strettamente specialistico.
Anche noi oggi riteniamo, giacché imperanti sono tuttora le interpretazioni sociologiche dell'etnologia, che - per gli stessi motivi allora enunciati da C.L.R. - sia culturalmente stimolante e in-novativo dare ancora una volta visibilità e codificazione dell'arte primitiva che culminerà ne L'uomo cosciente. Arte e conoscenza nella paleostoria, a tutt'oggi incompresa, quando non ignorata da larghe fascie degli studiosi.
Colgo l'occasione per annunciare che presto faremo una riproposta nel blog di questo bel libro, allegando alla “ristampa” una documentazione inerente, a cominciare dal notevole saggio La magnitudine degli uomini primi (“Predella”, n. 2, 2010, pp.369-390) di Annamaria Ducci, dal quale anticipiamo qui le tavole documentarie (pp. X-XV).
F.R. (24 maggio 2019)

sabato 12 ottobre 2019

Emil Nolde, nazista.

Della infinita serie non si può – quasi – mai stare tranquilli sugli uomini circa la loro integrità morale e circa gli accadimenti conseguenti. I dati riguardanti un essere umano una volta noti, studiati, analizzati determinano la storia quando essi hanno una certa rilevanza, altrimenti incidono sulla cronaca, la quale col passare del tempo può assurgere a storia, con la esse minuscola. Il mutamento di dati, notizie, documenti a causa di nuove acquisizioni o scoperte rende necessario il più delle volte riconsiderare ciò che si considerava storicizzato. Comunque fa tanta tristezza – e rabbia e amarezza – riscontrare scheletri nell'armadio di tante persone insospettate, ritenute addirittura guide od esempi da seguire. Adesso, dopo tanti casi, ma qui ha senso ricordare soltanto per la Germania. Günter Grass (1927-2015) e da noi la recente vicenda di Eu(parlo di tutto) Scalfari, si apre il sipario sull'ultimo – a mia conoscenza – cioè su Emil Hansen noto come Nolde (1867-1956).
Per quanto possa essere triste e procurare disgusto, è necessario ricordare che bisogna distinguere tra l'uomo artista e il medesimo individuo nelle sue altre manifestazioni. Spesso questa ripartizione è incoerente. Succede all'atto pratico, per fare un esempio illustre, che nell'uomo Caravaggio (1571-1610) convivano un essere sciagurato e violento fino all'omicidio e un artista così dotato ed originale da farlo considerare – giustamente – uno dei più illustri di tutti i tempi. Contemporaneamente egli va giudicato con riprovazione per la vita scellerata con i suoi atti criminali indubbi. Il genio non ha diritto ad assoluzioni morali né a “sconti” particolari: non esiste – e là dove viene praticata è sopruso – la sacralità dell'artista.
Questa ultima pratica resiste, è diffusa ed è incoraggiata da regimi autoritari e da situazioni sociopolitiche totalizzanti nelle quali i nostri sono sempre buoni e gli altri sempre cattivi. Ricordo, in tempi a noi recenti, come il P.C.I. “sacralizzasse” gli artisti iscritti e fiancheggiatori, spesso al di là del ridicolo: Guttuso, per esempio, non a caso veniva gerarchicamente comparato ad un cardinale, e come tale trattato e imposto. Persino personaggi a noi cari come Tono Zancanaro, si comportavano come unti del signore nell'ambito delle organizzazioni collegate al partito e a coloro che ne traevano vantaggi: offerte frequenti di esposizioni antologiche in centri importanti, e una visibilità mediatica non tanto dovuta al merito in sé ma all'appartenenza partitica, nuova forma di massoneria.
A proposito di artisti moralmente spregevoli è recente la scoperta dell'ignominia di Emil Nolde il quale era in realtà antisemita e poi un nazista fanatico. Per sua sfortuna stava “antipatico” a Hitler il quale non si degnò nemmeno di dare riscontro ad un “piano”, concepito ed elaborato dal pittore per eliminare tutti gli ebrei dall'Europa, proposto zelantemente e direttamente da Nolde. Questi, comunque, fu attivo nella persecuzione delle persone, tanto che non si peritò di denunciare come ebreo Max Pechstein, che non lo era nonostante il suono del cognome. Anzi il Führer – pittore mancato perché accademicamente respinto – che si considerava un intenditore definì pubblicamente le tele e gli acquarelli di Nolde “schizzi di un bambino demente”, inserendolo tra gli artisti definiti dal regime “degenerati”. Però, data la militanza, non subì fino al 1941 (quando gli si vietò di esporre e vendere) nessuna angheria anche perché gli alti gerarchi come Hermann Göring compravano a caro prezzo le opere del pittore da loro molto apprezzato.
Un caso di degenerato “ad personam” dal dittatore. Questo fatto, con complicità di una qualche “Odessa” analoga alla nostra P2, consentì dopo la guerra a Nolde di accreditarsi come una vittima del nazismo. Nel 1968, addirittura fu pubblicato il romanzo Deutschstunde (tradotto in italiano nel 1973 da Einaudi) scritto da Siegfried Lenz ispirato alla figura di Nolde mitologizzato vittima del regime. In più il “furbacchione” Nolde nella sua autobiografia “dimenticò” il passato razzista e l'adesione al nazismo; mentre la Fondazione a lui intitolata, e tuttora agente, ha occultato e “ripulito” circa venticinquemila documenti compromettenti.
A partire dal 2013 alcuni storici dell'arte hanno cominciato a rendere noto il passato del pittore. Oggi, in Germania, si chiede di togliere tutte le opere di Nolde dai Musei pubblici. Quest'ultimo fatto è un errore di merito grossolano, ingiusto e sospetto – come tutte le richieste smaccatamente demagogiche – di nascondere altri “altarini e scheleri” compromettenti.
Non è stato per indulgenza, lassismo o complicità che in Italia Sironi e altri artisti (tra cui Rosai) compromessi col fascismo non sono stati emarginati nella conoscenza dell'opera loro e nella visibilità del loro lavoro. Le opere d'arte non sono state – e non meritavano di esserlo – discriminate, proprio e semplicemente perché opere d'arte.
Può dispiacere doverlo ammettere ma la creazione originale di opere d'arte – da chiunque ne sia l'artefice – se di fatto ottiene un riconoscimento unanime, secondo validi canoni estetici, è arte e come tale va distinta da altre manifestazioni umane e, inoltre, va tutelata come bene comune.
Si può odiare Wagner come persona, ad esempio, e ad ascoltarlo provare anche un qualche disagio, ma è demenziale negare alla sua musica una veridicità espressiva di portata universale e perenne. (Comunque, io preferisco pensare e dire: “Viva Verdi!”). Analogamente non si possono svilire la qualità e l'autenticità espressiva di poeti e scrittori quali sono stati Ezra Pound (1885-1972) e Louis Ferdinand Céline (1894-1961) giustamente puniti ed emarginati socialmente per il loro collaborazionismo fascista e filogermanico, né irridere un Robert Brassillac (1909-1945), però giustamente fucilato per tradimento e collaborazionismo.
Una dimostrazione di questa assertiva distinzione, effettuata a proposito di ogni essere umano, diventa clamorosa se questi è un artista, un creativo originale. Intendo quindi esemplificare il caso di Nolde con la riproduzione di un breve testo (l'unico che mi risulta dedicato a Nolde da Carlo L. Ragghianti) tratto da “seleArte” (n. 24, mag.-giu. 1956, La Biennale di Venezia, p.30) e da due recensioni redazionali scritte da Licia Collobi con probabile intervento di R. sempre su “seleArte” (n. 52, 1961, pp. 32,33; e n. 63, 1963, pp. 70,71) a cui si aggiungono alcune illustrazioni a colori di opere del pittore tedesco di origine danese. Quanto scritto in questi testi, infatti, si riferisce esclusivamente alla qualità e alla originalità dei dipinti e degli acquarelli senza farsi condizionare da elementi “sociologici” estranei all'arte. Sono anche certo che queste osservazioni sarebbero state sostanzialmente identiche se fossero stati già noti ai Ragghianti i precedenti antisemiti e poi razzisti di Nolde. Non mi sento, però, di garantire che gli autori, a conoscenza della turpitudine morale dell'artista, avrebbero pubblicato proprio quelle iniziative riguardanti le opere di Nolde e non, invece, altri argomenti artisticamente equivalenti ma aulenti a disposizione della redazione.


F.R. (14 giugno 2019)

mercoledì 9 ottobre 2019

Ragghianti su Berenson.

Nel post del 27 luglio 2019 abbiamo ricordato, nell'ambito degli Atti (12) del “Convegno Internazionale per le Arti figurative” di Firenze (24-30 giugno 1948), le “Onoranze” a Bernardo Berenson ed anche che l'iniziativa fu suggerita al sindaco Mario Fabiani proprio da Ragghianti (v. lettera di C.L.R. a B.B. del 9 aprile 1949). Adesso mi accorgo che queste “Onoranze” oggi coincidono con il sessantesimo anno dalla morte dell'illustre studioso ed esperto per necessità (così ha affermato lo stesso Berenson) di sussistenza – lauta peraltro – dato che egli non era professore universitario né abbiente di famiglia.
Quindi anche questo post viene a configurarsi come conseguenza commemorativa, circostanza alla quale non diamo importanza, salvo quella di creare un pretesto specifico per occuparsi di un personaggio o di un avvenimento.
Questo post sarà comunque un excursus centrato sui giudizi critici e storici di Ragghianti, sui rapporti tra i due illustri studiosi, inevitabilmente riduttivi nei confronti del famoso “esteta” e connoisseur di cultura essenzialmente germanica. Ciò non toglie che sul piano umano, personale, R. non avesse rispetto e riconoscenza verso l'anziano personaggio circondato in vita da grande considerazione. In fin dei conti meritata perché basata su fatti e studi concreti, non aleatori, superficiali e discutibili come quelli di chi ci ha e ci sta affliggendo con agitata prepotenza e forsennata ricerca di visibilità: personaggi convenzionali nonostante le peregrine provocazioni.
Allora riporteremo alcuni documenti prevalentemente epistolari, nei quali R. riferisce su B.B. (come lo chiamava Nicky Mariano sua storica segretaria) o considerazioni sulla sua opera. Dato che questa non è né può e vuole essere la sede di speculazioni originali e innovative, non si indaga puntualmente sull'arco degli scritti di C.L.R. quanto riferito a B.B., se non altro per non sfornare una sorta di corposo volume. Dai libri riporto soltanto i due punti in cui R. si diffonde su Berenson nel Profilo della critica d'arte (1942, pp. 55-58) e dai Complementi della seconda edizione (1974, pp. 195-197). Dagli altri libri, saggi e corrispondenze confido che chi è o sarà interessato, anche tramite gli indici e l'Archivio di Lucca potrà appurare e approfondire di persona.
Questo nostro intervento, tutto sommato, sarà un sommario, un indice approssimativo per dare un punto di 


partenza per una ricerca scientifica. Riproduciamo due lettere del 1946, una a Gianfranco Contini (che allora e fino a qualche tempo dopo fu interlocutore e sodale di R., dal quale si allontanò anche per sollecitazioni “sociali”), l'altra allo stesso Berenson. Del 1954 è la recensione su “seleArte” di Vedere e sapere; si riportano poi gli “omaggi” dettati a “La Nazione” da R., Longhi, Cecchi, Venturi, Middeldorf e Salvemini in seguito alla morte di B.B. (1959). Dell'aprile 1961 è la lettera inviata a Giuseppe Fiocco. Venti anni dopo, l'8 settembre 1981, Ragghianti pubblicò su “La Nazione” l'articolo Berenson, un the e la guerra scaturito dai ricordi suscitati dalla lettura di una biografia di B.B. Dell'anno dopo, 1982, ho trovato due lettere in cui si fa riferimento allo studioso lituano e un appunto manoscritto non concluso, che riproduco accanto la trascrizione dattiloscritta. Negli anni successivi C.L.R. scrisse Arte essere vivente (1984) dove si tratta di B.B. a proposito di Profilo (p.48), di Decorazione (p.52, v. post 24 gennaio 2018), di estetismo errante (p.71), di derivazioni da B.B. (p. 113), di scritto di K. Clark su modello (p.144). In quegli anni R. lavorò alla Critica della forma (1986), libro importante nel quale sarà analizzato il pensiero di Berenson ancora una volta nell'ambito di una analisi globale di quella che R., nel sottotitolo del volume, ha definito “ragione e storia di una scienza nuova”.
F.R. (4 giugno 2019)


domenica 6 ottobre 2019

Arte Moderna in Italia 1915-1935 - Testi dei Critici, 4. Marcello Azzolini (Guerrini, Chiarini, Vespignani).



Post Precedenti:

1. RAFFAELE MONTI ( I ) - 16 giugno 2018
2. IDA CARDELLINI (LORENZO VIANI) - 28  settembre 2018 
3. UMBRO APOLLONIO (NATHAN, BIROLLI) - 19 settembre 2019

Marcello Azzolini

In attesa di un non so quanto probabile revival di Marcello Azzolini, critico d'arte di Forlì, da Internet si ricava ben poco (e da altre fonti accessibili ancor meno), nemmeno le date attestanti la sua nascita e la morte. Storico locale sicuramente, indicato come il critico d'arte “che in quegli anni guidava (sic!) la situazione artistica forlivese”, Azzolini è stato autore di numerose monografie in prevalenza di artisti emiliani e romagnoli gravitanti sull'Accademia di BB.AA. di Bologna (ricordo soltanto Guidi e Cesetti perché inerenti al periodo 1915-1935). Di lui l'unica voce con indicazioni un po' diffuse sulla personalità e l'attività risulta la recensione di Claudia Collina (Internet e “Rivista IBC, XIII, 2005, 2) al volume Marcello Azzolini. Pagine. Arte contemporanea 1951-1975. Antologia a cura di Adriano Baccilieri, Editrice Compositori, Bologna 2004, p. 409. Il testo è piuttosto generico (nemmeno una data al di fuori di quelle del titolo) e forse lacunoso perché noto: “oltre alla statura storico critica di Longhi e Arcangeli, ha visto crescere e operare a Bologna intellettuali come...”, seguono i soliti 
noti locali, però con la vistosa assenza di Giuseppe Raimondi e Cesare Gnudi. Guarda caso si tratta degli unici due critici emiliani che hanno scritto su artisti emiliani presenti con Scheda nella Mostra “Arte Moderna in Italia 1915-1935”, e – oserei dire – personalità indubbiamente almeno di livello nazionale quanto, se non di più, di Anceschi, ecc.
Il Baccilieri circa il metodo critico e lo stile di Marcello Azzolini sottolinea le “intuizioni sottili e toccanti accenti lirici, che si alternano a spunti polemici o alla puntuale ricostruzione filologica del tema, integrandosi felicemente”. Il volume è poi corredato da una esauriente biografia (che andrebbe messa in rete), dal regesto degli scritti d'arte, da una bibliografia essenziale. Manca l'Indice dei nomi, trascuratezza colpevole da parte degli editori che molto spesso, così facendo, inficiano anche gravemente la validità dell'utilizzo di un'opera; gli Indici sono indispensabili nei libri di “consultazione” e sempre utilissimi.
F.R. (7 agosto 2019)

giovedì 3 ottobre 2019

Traversata di un trentennio, postilla.

Senza avere certamente la pretesa di accostare a Niccolò Machiavelli il cittadino e politologo Carlo L. Ragghianti, rilevo una analogia tra ciò che Alberto Asor Rosa ebbe a dire sull'autore de Il Principe e mio padre là dove ha scritto:
“...dunque è un signore che sta profondamente confitto nella realtà del suo tempo e ricerca anche le più elaborate teorizzazioni politiche da un'esperienza profondamente vissuta...è uno sconfitto...Arriva ad elaborare...sull'Italia, e poi sul governo, sulla politica, da una esperienza di sconfitta...che poi diventa una disfatta e poi una catastrofe” (da Machiavelli. La catastrofe italiana. Forum de “L'Espresso “ n. 13, p. 54 del 24 marzo 2019).
Per inciso, sono anche convinto che l'affermazione categorica di Geno Pampaloni a proposito della Traversata (che ricordo è ripubblicata 
integralmente in questo blog a partire dal 13 novembre 2017), è un'opera profetica, derivasse da un ragionamento analogo a quello che svolge su Machiavelli Asor Rosa. Ho ripescato questa postilla, stesa di getto dopo aver letto l'intervento dell'ormai anziano storico e critico letterario, già operaista, nel Forum de “L'Espresso”, perché si collega alla nota redazionale anteposta all' Intervista per la “Voce repubblicana” del 28-29 aprile 1984 a Carlo L. Ragghianti curata da Paolo Bonetti. In questo post del 3 agosto 2019, oltre all'intervista sono pubblicati una lettera di Ragghianti su Benedetto Croce e l'intervento Ragghianti e il tempo del disinganno che il filosofo di Fano tenne al Convegno su C.L.R. (Cassino, 21-22 ottobre 2001), pubblicato poi negli Atti editi nel 2004 da Franco Angeli col titolo Ragghianti critico e politico.