Carlo e Licia

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domenica 26 novembre 2017

Giotto 2017,5. Carlo L. Ragghianti: "Percorso di Giotto".

Questo studio sull'attività di Giotto dai primordi ad Assisi e all'anno 1300, demarcazione simbolica della sua prodigiosa attività, fu scritto in prima stesura nel 1967 e in seguito pubblicato su “Critica d'Arte” nel fascicolo monografico intitolato Percorso di Giotto (n. 101-102, Marzo-Aprile 1969). Prosegue così la nostra rievocazione dei ragguardevoli studi dei coniugi Ragghianti sull'artista di Vespignano di Vicchio, collegati alle celebrazioni del supposto settecentocinquantesimo dalla nascita. I precedenti interventi sono stati postati il 26, il 27 luglio (monografie di Licia Collobi), il 28 luglio e il 15 ottobre (Giotto Architetto) di quest'anno. Quindi, come avverte l'autore a p.79, questa per certi versi radicale sua ricostruzione fu pubblicata in Arte in Italia. Dal secolo XII al secolo XIII (Casini editore, Roma 1969, coll. 978-1036).



Nella lettera – riportata qui sopra – del 24 maggio 1969 a Millard Meiss (1904-1975), considerevole studioso di Giotto e dell'arte italiana dal XIV al XV secolo e professore nelle più prestigiose università statunitensi (Columbia, Harward, Princeton), Ragghianti – che lo conosceva abbastanza bene anche di persona – annuncia le sue conclusioni sottolineando che il collega sarà interessato “dalla mia ricostruzione e dall'indagine sui contenuti dell'artista finora poco accertati”; accenna poi anche “alle osservazioni analitiche, per altro inducibili”, cioè contrarie a deducibili, quindi che dal particolare muovono al generale, dai 




fatti ai principi. Mi permetto di sottolineare questo aspetto della ricerca di Carlo L. Ragghianti perché mi pare che essi non siano stati abbastanza considerati e sceverati dalla successiva e copiosa letteratura in materia. Anzi, per dirla fuori dai denti, le osservazioni “inducibili” sono state esplorate e assimilate più spesso di quel che non risulti dagli scritti; soltanto non sono state riconosciute pubblicamente al loro autore da parte di quegli addetti ai lavori perché presentate come proprie. 

F.R.

venerdì 24 novembre 2017

{glossario} Urbanistica

"Non è facile, come si sa, compiere un'indagine urbanistica: essa è infatti in stretta correlazione con una notevole quantità di fattori che tutti sono implicati dallo sviluppo di una città o di un centro urbano od abitato considerato nella sua realtà edilizia; ed è inoltre necessario considerare tutta l'attività non solo costruttiva ed edilizia, ma anche di modificazione della natura e del paesaggio, svolta dall'uomo per rendere possibile la sua vita e migliorarla mediante la tecnica e il suo sviluppo, sia nell'insediamento umano che nella campagna. Un aspetto integrale dell'indagine urbanistica è l'analisi delle forme edilizie ed architettoniche, e quindi non solo degli edifici funzionali, ma dei monumenti, in quanto essi sono stati concepiti e sono sorti in relazione alle esigenze della civiltà storica. L'indagine propriamente urbanistica sarabbe assai più facilitata nella sua specialità, se esistessero studi, ricerche, risultati storiografici in altri settori della vita storica. Se non difettano le trattazioni di storia politica e diplomatica, assai meno sviluppate sono in genere le ricerche sulla vita religiosa e civile, e così sulla vita economica, specialemente dei secoli più lontani; mancano per esempio, quasi del tutto, le rilevazioni statistiche, sia economiche che demografiche, sicché lo studioso che affronta un problema di ricostruzione urbanistica di una città o di un centro abitato viene a trovarsi nella necessità di non limitare il suo lavoro all'analisi dei fatti edilizi ed architettonici e comunque a quelli caratteristici dell'insediamento umano, ma di venire in possesso di dati e documentazioni storiche di varia natura, per l'accertamento dei quali non si può fare a meno di ricorrere direttamente ad archivi, qualche volta poco esplorati e poco ordinati..."                                   C.L.R.

Questo intervento definitorio circa la peculiarità della disciplina "Urbanistica" è tratto da una comunicazione pedagogica dell'11 novembre 1958 inviata alla Signorina Di Gaddo (di cui non ci risultano altre informazioni) da Carlo L. Ragghianti secondo il proprio consueto metodo di insegnamento consistente nel seguire passo passo lo svolgimento della tesi assegnata. Questa impostazione dialettica e rigorosa escludeva tesi raffazzonate e funzionali alla conclusione dell'iter scolastico del laureando e produceva generalmente ottimi studi, quasi tutti successivamente pubblicati in volume.Gli interventi più rilevanti di Ragghianti in questa materia (alcuni di rara reperibilità nelle 
biblioteche, come quelli immediatamente successivi alla guerra) sono stati ristampati con pertinenti ed esaurienti Note introduttive e Note al testo nella antologia Carlo L. Ragghianti. Il valore del patrimonio culturale/Scritti dal 1935 al 1987, curata esemplarmente da Monica Naldi e Emanuele Pellegrini (Felici Editore, Pisa 2010). Pertanto in un Post di prossima pubblicazione riprenderemo l'argomento "Urbanistica" riproponendo alcuni testi di Ragghianti con una sua bibliografia su questa fondamentale disciplina, che deve (se bene applicata) preservare e valorizzare il nostro "meraviglioso" Paese, già – e da troppi decenni – deturpato. 
F.R.

martedì 21 novembre 2017

Licia Collobi e l'arredamento storico - La Casa Italiana nei Secoli 1

A post già scannerizzato e impaginato negli altri testi e documenti, il fortuito ritrovamento nel nostro caos archiviale dell'articolo che Licia Collobi scrisse per la rivista “Firenze e il Mondo” ci induce iniziare con la riproduzione di questa rarità da stanare altrimenti in poche biblioteche. L'articolo – che segue immediatamente questo testo fu pubblicato a mostra iniziata e prossima alla chiusura. Esso si configura naturalmente come introduzione a questa documentazione sulla Mostra La Casa italiana nei secoli (aperta da Aprile a Novembre: otto mesi!) e al suo catalogo e, tra l'altro, in questo scritto – sempre con la consapevolezza di una meritata riuscita – si illustrano i criteri e si giustificano le carenze di un “organismo” originale e complesso, quindi non ripetibile facilmente né con adeguata rappresentatività.
Licia Collobi Ragghianti cominciò ad interessarsi criticamente e fare esperienza di arredamento e di mobilio storico soprattutto in occasione del Catalogo delle opere d'arte pubbliche in provincia di Piacenza (1938) quando dovette documentarsi per affrontare la congerie prevalentemente ecclesiastica di materiali altrimenti poco interessanti per chi non abbia una specifica vocazione e curiosità nei loro confronti. Conoscendo la puntigliosa caparbietà – gestita con tratto sereno e disteso – con cui affrontava ogni “sfida” intellettuale e professionale e coadiuvata da una straordinaria memoria (beata lei!) che gli consentiva rapidità di introitare e rammentare i dati, ella fu in grado di assorbirne una notevolissima quantità e di – e questo è puro merito – analizzarli e relazionarli tra loro con acume e pertinenza. Penso che anche gli studi per la preparazione della tesi di laurea (1935, pubblicata 1937) su Carlo di Castellamonte, primo ingegnere sabaudo, tramite le verifiche sul campo in ville e castelli, generalmente arredati, abbiamo contributo alle basi di una vera e propria specializzazione extra antiquaria. Nel 1936/7 fece anche una ricerca e studio sul Palazzo Farnese di Caprarola. Oltre a ciò la successiva reggenza (1942-43) della Pinacoteca Estense di Modena e connessi contribuì ad allargare i suoi orizzonti nelle materie collaterali alle canonihe pittura, scultura, architettura. Ho vivo il ricordo del racconto delle vicissitudini per proteggere e poi occultare – a causa del conflitto – anche la notevole collezione numismatica, di cui studiò, naturalmente, le peculiarità. Altra osservazione: tutti questi studi eterogenei costituirono certamente una base solida per la sua latitudinaria competenza nella redazione degli scritti di “SeleArte” (1953-66), poi rubrica di “Critica d'Arte” fino al 1989.
Quanto premesso spiega perché tra i vari e competenti funzionari della Soprintendenza di Firenze, nel 1947 fosse scelta proprio lei, ff. di direttore della Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti (moderna, si fa per dire, giacché a tutt'oggi di tutte le opere eseguite dal 1900 ne sono esposte pochissime, e male). Certo un po', ma non troppo e non scontato, pesò il fatto che fosse la moglie dell'ideatore e del Presidente dello Studio Italiano di Storia dell'Arte e Commissario per la liquidazione (poi non avvenuta) dell'Istituto di Studi sul Rinascimento, organizzatore della Mostra. Ricordo quel periodo piuttosto bene nonostante avessi tra i sette e gli otto anni d'età. In parte perché praticamente per alcuni mesi i nostri genitori non furono mai in casa e sovente rientravano 
dopo le 10 di sera, ragion per cui Rosetta (quattro-cinquenne) più che preoccupata in vero era perplessa; ed io invece preoccupato e talora spaventato perché spesso rimanevamo soli, col pupattolo di più o meno diciotto mesi terzogenito, dalle sette del pomeriggio, quando un'anzianotta e detestata Azelia da Lamporecchio (domestica di scarsa preparazione e competenza e d'animo pravo, nonché un po' ladra) se ne andava a raggiungere un becchino suo futuro consorte.
In parte i ricordi sono più presenti perché da sempre ho cercato di capire quel che e perché lo facevano gli adulti e di conseguenza li stavo ad ascoltare (gli insegnanti mediocri – i più – però meno, molto meno) con attenzione. Quindi sentivo la mamma relazionare il babbo, perché anche se e quando tornavano assieme tardi, quasi sempre il loro lavoro durante la giornata era differente e in lunghi tra loro distanti. Quel che più mi colpì fu come Licia Collobi riuscisse a coordinare e gestire in Palazzo Strozzi tutti, dal Comitato tecnico, agli artigiani (tappezzieri, falegnami, elettricisti ecc.) nonché il personale, compreso quello di guardianìa. Questa capacità di coordinamento e di gestione è una dimostrazione (aggiuntiva al valor militare quale partigiana combattente) del fatto – assai inconsueto, ma meritato – che a mia madre forse riconosciuto il grado di Maggiore dell'Esercito Italiano.
Di questa straordinaria mostra La Casa Italiana nei secoli, si è persa la memoria e dimenticato la notevolissima quantità degli oggetti esposti e la loro altrettanto notevole qualità, e poi anche la consapevolezza del rigore scientifico, passato al vaglio di competenti comitati regionali, che esplicitava l'importanza delle “arti decorative” dal Trecento all'Ottocento. Ciò forse anche per via della modestia della veste, ancor postbellica, del Catalogo (esteriormente così dissimile dai “mattoni”, spesso inconsistenti e fuorvianti, dell'oggi) ritengo culturalmente significativo riproporre i testi dei Ragghianti, mentre le poche (19) illustrazioni del Catalogo consentite dalle ristrettezze dell'epoca, sono riprodotte nell'articolo di Licia Ragghianti. In proposito è bene ricordare che fino al 1949 in Italia fu vigente il razionamento di molti generi alimentari e non (es. carta) e che in Gran Bretagna, vincitrice del conflitto mondiale, fu in vigore fino al 1954 un razionamento molto rigoroso.
La curatela di questo catalogo fu certamente il viatico per l'incarico a Licia Collobi della Mostra e del Catalogo La sedia italiana nei secoli (1951) per la allora ancora prestigiosa Triennale di Milano, che oltretutto era uno dei pochi Enti con consistenti mezzi economici. Di questo studio e altri scritti di Licia Collobi riguardanti mobilio e arredamento pubblicheremo altri post su questo nostro blog.
Per inciso, infine, non sembra incauto affermare che conseguenza abbastanza diretta di questa mostra fu l'istituzione – proprio a Firenze e proprio in Palazzo Strozzi – delle Biennali Internazionali di Antiquariato per volontà di Luigi Bellini (che abbiamo ricordato nel post Ponte a S. Trinita, 4 – Appendici, di prossima uscita e che ricorderemo anche con uno scritto commemorativo su di lui di C.L.Ragghianti, pubblicato sulla “Gazzetta Antiquaria, n. ¾, lug.-sett. 1981) nel 1959, dopo un primo tentativo nel 1953 di sola presenza antiquaria italiana.


lunedì 13 novembre 2017

Traversata di un trentennio, 1

Quarant'anni dopo: siamo sempre lì.

Perché ristampare Traversata di un trentennio. Testimonianza di un innocente? Rispondiamo con le parole (vedi “SeleArte”, IV serie, n. 17, 1° maggio 1993, p. 3) scritte or sono quasi venticinque anni, prima del nefasto Berlusconi, prima della dissoluzione delle “ideologie” tradite sistematicamente


dai propri portabandiera, prima dell'attuale scampato pericolo liberticida di tradimento costituzionale e in vista delle elezioni politiche – previste per la primavera 2018 – il cui esito si profila irrimediabilmente catastrofico. Citando Benedetto Croce, heri dicebamus
Pensiamo di riproporre l'intero testo diviso in cinque mensilità, in modo che per le cruciali e quasi sicuramente non risolutive elezioni del 2018 l'opera sia disponibile per una – di fatto assai contenuta – consultazione e possibilità di riflessione.
Quindi qui citiamo quanto d'altro in proposito del libro sia comparso in “SeleArte”, IV serie, e poi leggibile in questo blog. Inoltre contiamo di rendere pubblici i documenti e lettere di C.L.R., riguardanti il libro, postandoli come Appendici dopo il testo originale. Così nel fascicolo 17 sopra citato, oltre all'Editoriale (p.3) si leggono le recensioni di Raffaello Franchini, Traversata (p.6); di Manlio di Lalla La rinascita italiana non è impossibile (p.9); di Cosimo Ceccuti La Traversata ha vinto il Premio Internazionale Nuova Antologia (p.10). Invece nel fascicolo n. 6 di “SeleArte” (qui postato il 30.12.2016) a p. 19 riportiamo quanto C.L.R. scrisse in proposito a Pascale Budillon Puma: “Il mio libro del 1977 Traversata...è il resoconto del fallimento non tanto mio e della Resistenza, ma della democrazia organica nel nostro Paese (io mi sono anche speso per la riforma dell'amministrazione del Patrimonio artistico)...”. Nello stesso fascicolo n. 6 da p. 31 a p. 48 abbiamo: “Sul volume Traversata di un trentennio e sul 'compromesso' partitocratico. Lettere e documenti/Il compromesso (12/12/1978), p. 32; a Sandro Pertini 
(20/11/1978), p. 33; a Sergio Fenoaltea (25/11/1978), p. 34; a Giuseppe Are (20/11/1978), p. 35; da Carlo Cassola (27/11/1978), p. 36; a Carlo Cassola (3/12/1978), p. 37; a Ugo La Malfa (25/11/1978), p. 38; a Domenico Settembrini (3 e 21/12/1978), pp. 39,40; a Enzo Bettiza (21/12/1978), p. 41; a Elena Croce (21/12/1978), p. 42; a un'Amica (1/1/1979), p. 43; Sulla fine della prima repubblica (9/4/1979), p. 45; Recensione di Riccardo Bauer (4/1979), p. 46; a Riccardo Bauer (8/5/1979), p. 48. 
Sempre in “SeleArte”, poi, compaiono altre citazioni che saranno riscontrabili negli Indici di questa IV serie, al momento in avanzato stadio di preparazione. Contiamo, altresì, di completare entro breve tempo la postazione di tutti i fascicoli fino al n. 26 ed ultimo.
Vedendo il precedente riferimento a Sandro Pertini mi è d'obbligo, ancorché caro, ricordare ancora una volta la coerenza morale di Ragghianti, incurante di tatticismi e private convenienze, nonché il fatto notorio che la pubblicazione de la Traversata gli costò la nomina di senatore a vita, che il tronfio e “prudente” nonché sostanzialmente conformista Pertini gli aveva fatto intravedere.
A questo proposito è opportuno rendere nota la lettera indirizzata a Indro Montanelli, col quale Ragghianti dal 1974 aveva una libera e saltuaria collaborazione a “Il Giornale” e riconsiderati rapporti di stima personale.

lunedì 6 novembre 2017

Rolando Bellini su Guido Pinzani



Questo testo fa riferimento alle opere di Guido Pinzani che illustrarono il volume “La Torre pendente di Pisa” e quasi tutto il fascicolo n. 26 di “SeleArte”, IV serie, 1998 e doveva essere pubblicato nel n. 27 della rivista (parzialmente allestito) non stampato a causa della cessazione della Fanzine ragghiantiana dovuta essenzialmente a ristrettezze economiche. Rolando Bellini, brillante, fido e devoto assistente di Carlo L. Ragghianti per diversi anni all'Università Internazionale dell'Arte di Firenze, nel 1998/99 già da qualche tempo risiedeva a Varese dopo il suo matrimonio e insegnava all'Accademia di Belle Arti, prima di Torino poi di Milano, a suo tempo non ebbe riscontro di questa sua “recensione”. Data la mia situazione di allora (disoccupato, incazzato, con la famiglia orfana dei miei genitori in disfacimento) non pensai certo a giustificare la mancata pubblicazione di questo contributo.
Spero soltanto che Rolando Bellini non se ne sia rammaricato più di tanto: certamente avrà pensato ad una ritorsione per la mancanza di solidarietà espressami al momento dell'astuto siluramento sul lavoro. Certo ce l'avevo con lui (e forse è plausibile che gli avessi spedito per recensione un esemplare del libro sulla Torre di Pisa privo dell'incisione originale) ma molto, molto meno che con certe e certi altri tipi che, con varie sfumature miserabili e non giustificabili, se n'erano a dir poco lavate le mani. Includo alla fine del post la riproduzione di un disegno a china di Guido Pinzani, eseguito l'11 dicembre 1995 nella Biblioteca dell'Università dell'Arte durante uno dei consueti incontri che allora avevo con questo artista (sull'opera del quale mi riprometto di tornare) sottovalutato e sottostimato ingiustificatamente.
Francesco Ragghianti



giovedì 2 novembre 2017

Un libraccio su Arturo Checchi

Una doverosa premessa: non ce l'ho con Arturo Checchi, che anzi stimo come artista tant'è che intendo occuparmi della sua opera in un prossimo futuro e farlo in termini positivi. Sono più che indignato e reattivo (data la mia pregressa e principale attività lavorativa quale redattore e realizzatore di libri e riviste) con chi cinicamente ha danneggiato Checchi per fini speculativi, per di più mentre l'artista già a fine vita era appena deceduto. Sono risentito anche con Libro Co Italia che detiene e commercia la giacenza del volume anziché passarlo al macero. Mi sono procurato questo libro per poter verificare ed identificare con certezza titoli e date e dati di acquaforti e litografie del pittore di Fucecchio, comprandolo perché l'unico in commercio che vantava i requisiti che mi interessavano, assenti in altre opere dignitose che avevo riscontrato in precedenza. Per la precisione la vistosa monografia del 1962 che gli dedica Mino Rosi, che conobbi quale amico di mio padre, edita in un precoce offset da Amilcare Pizzi, e Arturo Checchi. Le carte, le opere, la vita, monografia di piccolo formato pubblicata nei "Quaderni della Fondazione Montanelli-Bassi" da Bibliografia e Informazione, 2013.
Il libro oggetto di questa stroncatura è Arturo Checchi. Incisioni e litografie e siccome l'ho acquistato pagandolo 64 euro (spese di spedizione comprese, bontà loro) mi sento autorizzato ad infierire sulle pecche riguardanti l'opera e il catalogo di un artista di per sè più che dignitoso.
Cominciamo dall'editore: Bruno Nardini, mugellano fiorentinizzato che ai suoi tempi contava (quindi probabilmente massone o clericale o entrambi con – perché no – qualche ammiccamento con i comunisti, cosa che non guastava mai i galantuomini). Dopo lunga dirigenza nella Mondadori di Verona, si fa editore in proprio: questo dovrebbe essere uno dei primi, se non addirittura in primo titolo edito con il suo marchio.
Il volume è ingombrante (cm. 24X32), pesante e, come detto, totalmente privo di apparati: manca l'Indice; le illustrazioni hanno titolo ed anno (perché forniti evidentemente da Checchi, che ho avuto modo di riscontrare era alquanto pignolo), però sono prive delle misure (e non credo che siano tutte riprodotte in scala 1:1; e, se così fosse, è necessario, nonché utile, dirlo in qualche luogo dell'opera!); sono anche prive dell'indicazione del colore, dell'inchiostro o degli inchiostri usati nella stampa degli originali al torchio. Quindi cosa si può dire ancora di non sgradevole quando una monografia e un catalogo non riportano nessun dato, nessuno ripeto, che specifichi la singola opera oltre – come sopra detto – al titolo e alla data? Tanto, purtroppo: non si indica che tipo di lastra si è usato, né la carta o le carte adoperate; tantomeno c'è l'indicazione della tiratura o delle tirature dei vari "stati". Sono cose che hanno molta importanza sul piano commerciale e che interessano ai collezionisti, i quali comprano questo tipo di libri proprio per avere le notizie qui mancanti. Infine le pagine non sono numerate, nemmeno quelle dei testi critici!
Per concludere questa parte, bisogna rilevare che manca una, sia pur breve, presentazione; mancano, sia pur minime, biografia e bibliografia dell'artista. E'assente persino (si tratta di un dato obbligatorio per legge) il "finito di stampare" con data e nome del tipografo! Roba da chiodi, mai vista. Se fosse un libro fresco di stampa ci sono gli estremi per chiedere il rimborso o chiederne il ritiro dal commercio.
Ben sei sono gli autori coinvolti, con interventi non corposi e difficili da trovare per l'assenza di indice e numero pagina; erano e sono piuttosto noti almeno cinque di essi. Il sesto, Ottorino Guerrieri, che mi giunge nuovo, è uno scrittore e critico locale. Naturalmente di nessuno di costoro nel libro c'è il pur minimo cenno biografico o almeno l'indicazione di a che titolo scrive in quella sede di Arturo Checchi.
Per una simile presa per i fondelli nei riguardi della decenza tipografica non può valere come attenuante il fatto che la monografia sia in realtà stata commissionata dall'Artista per "propagandare" la propria attività. In questo caso, anzi, direi che umanamente si configura una sorta di turlupinatura a danno di persona inesperta e non reattiva per momentanea incapacità, dati gli ottantasei anni e la valitudinarietà. Arturo Checchi, infatti, morì nel 1971, quindi non fu in grado di controllare o di reagire all'obbrobrio perpetrato a danno della sua immagine e della sua vedova ed erede.
Nella citata monografia del 2013 su Checchi questo pesante volumaccio nardiniano è citato spesso come "s.i.p." (per chi non lo sa vuol dire "senza indicazione pagina") e nella Bibliografia colà presente a p. 122 vengono indicate due voci edite da Nardini (1971,1972), però esse non hanno il titolo che compare in questo libro che stiamo esaminando e che – per altro – i rivenditori su Internet unanimemente datano 1971, edito quindi, come già rilevato, con Checchi morente o appena defunto. Anche nel caso del libro della Fondazione Montanelli-Bassi si è preferito da parte dei curatori un comportamento molto ambiguo: citare i testi là dove serviva, ignorare non solo le pecche ma l'esistenza "ufficiale" dell'opera.
Questa intemerata non è uno scatto umorale e quanto scritto su questo libro è soltanto la reazione sdegnata di una persona offesa nella dignità professionale. Per più di trent'anni, infatti mi sono occupato di realizzare libri, importanti e cestinabili, utili e superflui, belli e brutti, per altri editori ed in proprio, ma tutti corretti ed aderenti ai dettami della tipografia e dell'Editoria. Sono stati anni di esperienze le più varie, con una partecipazione latitudinaria: dalla correzione di bozze, all'impaginazione, dalla tecnologia alla stesura dei testi promozionali e/o complementari all'edizione, dalla dirigenza all'esercizio della proprietà editoriale.
Per concludere il discorso su questa, diciamo "anomala"?, monografia sulla grafica di Arturo Checci, spendiamo qualche parola sui testi che sono sparsi nel volume. Si tratta di brevi saggi di qualità ed impegno discontinui, che ci riserviamo di analizzare e citare soltanto se significativi e complementari al Post su Checchi che sto impostando. Il primo (Le acqueforti) è di Mary Pittaluga, amica di mia madre, insegnante e apprezzata studiosa di grafica; il secondo è Umberto Baldini (su due acqueforti), laconico come sempre; il terzo di Giuseppe Sprovieri (la xilografia); poi il quarto di Indro Montanelli col suo "pensiero" su Checchi, curiosamente inserito nella sezione litografie, è probabile riproposta di testo già edito; quindi è Enrico Sacchetti, penso in citazione stanti le diciassette righe su C. disegnatore; sesto ed ultimo Ottorino Guerrieri (Giardini di Perugia), città dove visse negli ultimi anni l'artista.
Concludono la parte scritta del libro tre pagine della vedova, Zena Fettucciari, in memoria del marito.