Carlo e Licia

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domenica 31 maggio 2020

Arte italiana al 1960, 5. Grafica e arti della visione.

Caratterizzata dal riassunto in castigliano, cioè in quello che viene comunemente chiamato spagnolo, questa quinta ed ultima puntata della riproposta integrale del fascicolo n.48 di “SeleArte” (ott.-dic. 1960) conclude la ricapitolazione dell'arte italiana al 1960.
Essa fu voluta da Ragghianti come punto fermo di una situazione generalmente matura con evidenti avvisaglie di profondi mutamenti. Alcuni dei quali maturati nel recente passato e nel presente, altri, talvolta con forzature pretestuali, “dialetticamente” recepiti ed ampliati dal panorama ormai in via di globalizzazione (nel senso uninformativo) delle arti visive. La contrapposizione tra 
“astrattismo” e “figurativismo” è vanificata – dice C.L.R. - perché: “l'analisi dei processi espressivi degli artisti deve cogliere le singolari identità di tali processi, in tutte le loro componenti costitutive reali, e perciò sapere accertare come la formulazione linguistica e stilistica non muti principio e valenza quando avvenga in termini figurali o non figurali”.
Converrà, quindi, rinfrescare non tanto la memoria quanto la complessità del dibattito critico, soprattutto formale, ritornando al posto del 20 gennaio 2020 dove – in italiano – il testo importante ed illuminante di Carlo L. Ragghianti è riportato nella sua lampante integrità.
F.R. (1 maggio 2020)


mercoledì 27 maggio 2020

Aldo Salvadori, 2.

In questo post si riproducono un altro centinaio di opere di Aldo Salvadori esposte a Firenze in Palazzo Strozzi nel 1979. Esse seguono la sequenza impaginativa del Catalogo. Curata personalmente dall'artista essa si svolge secondo un'alchimia distributiva non casuale, però di non facile decifrazione, da Salvadori sempre operata nelle monografie e nei cataloghi che lo hanno riguardato in vita.
Il testo critico di Carlo L. Ragghianti che precede la sequenza delle immagini è un saggio, il primo cronologicamente, nel quale lo studioso indaga l'opera del pittore a lui noto – e apprezzato – dalla fine degli anni Trenta e riapprezzato nell'immediato dopoguerra, soprattutto come disegnatore.
Salvadori, infatti, sarà già nel 1950 invitato tra gli artisti prescelti per l'importante e risonante Esposizione Arte italiana (Italienische Kunst der gegenwart), itinerante nei maggiori centri della Germania Occidentale postbellica. Questa iniziativa, patrocinata dal Comune di Firenze amministrato dal comunista Mario Fabiani, concepita e realizzata da C.L. Ragghianti, riscuoté difatti un lusinghiero successo e sancì la ripresa di rapporti culturali ed umani con i tedeschi, i quali stavano iniziando a riscattare 
coscienza ed onore dopo la loro adesione pressoché compatta e convinta al regime hitleriano. Non ricordo dove scrissi che Aldo Salvadori era un artista “fuori dal coro”, giacché egli risultava assolutamente indifferente alle mode e ai riferimenti culturali visivi altrui, pur essendo criticamente in grado di considerarli, di storicizzarli, magari anche apprezzarli, però solo come osservatore colto, non come pittore agente.
Il saggio di Carlo L. Ragghianti, tratto dalla monografia Solamon e Agustoni editori dell'ottobre 1972, è anche il primo scritto impegnativo dedicato dallo storico e critico d'arte a questo pittore, che diverrà uno dei suoi pochi, autentici amici personali.
Nelle prossime postazioni, oltre alla consueta “carrellata” di opere di Salvadori presenti nella “antologica” di Firenze, saranno documentati altri aspetti meno noti del percorso creativo di Aldo Salvadori. Illustreremo opere sia dai semisconosciuti anni Trenta-Cinquanta, sia successive che presenti in Mostra, cioè dal 1980 al 2002 anno della scomparsa di questo solidissimo artista conscio di sé ma non arrogante.
F.R. (28 marzo 2020)




mercoledì 20 maggio 2020

{Lo Scaffale di Irene} La confraternita degli storici curiosi.

" Mi sono inventata tutto. Storici e fisici, vi prego, non sputatemi per strada".


Questa la premessa onesta e provocatoria con cui Jodi Taylor introduce, o forse mette in guarda al suo romanzo d'esordio La Confraternita degli storici curiosi o nel suo titolo originale Just One Damned Thing After Another ( Una maledetta cosa dopo l'altra ) edito in Italia soltanto in questo 2020 ma nel suo Regno Unito già dal 2013, che catapulta il lettore in una dimensione stralunata, accattivante in cui sai che appunto tutto è frutto della pura invenzione eppure sembra impossibilmente plausibile.


Primo edito in Italia di una lunga serie di romanzi sulle Cronache del Saint Mary, conto di reperire gli altri in lingua originale e seguire le avventure di questo gruppo di personaggi che seppure all'inizio del libro sembrano stereotipati, eccessivamente semplificati,  acquistano man mano che la storia si sviluppa personalità rotonde, credibili e umane che intrappolano a volerne sapere di più. E' un libro di fantascienza atipico, romantico e immerso in un caos pragmatico, contraddittorio delle aspettative che si hanno su questo genere di narrativa. Spassoso e a tratti toccante, l'autrice è riuscita ad amalgamare una serie di generi insieme in modo formidabile, soprattutto per una scrittrice non di esperienza, senza squilibri e soddisfacendo in qualche modo aspettative che non sai di avere se non dopo un centinaio di pagine senza risultare scontato. 
Si sa che la storia non è solo quella che si impara sui banchi di scuola - per chi è stato attento - e certamente non nei film ad ambientazione storica più o meno basati su una generica infarinatura di costumi ed eventi accaduti, ma che inesorabilmente mancano di accuratezza puntuale. La storia vera, o Storia maiuscola come viene spesso citata nel libro ad indicarne l'entità personificata di vita propria, è quella invece di cui non si sa più niente, la gente che non ha trovato posto su nessuna pergamena ed i piccoli ed enormi fatti quotidiani che ci sono impossibili da tracciare all'indietro. E se così non fosse?
Taylor è riuscita a dare nuova importanza proprio a queste memorie perdute del tempo e renderle meno irrecuperabili, almeno nella fantasia. Sfruttando l'idea del viaggio nel tempo in modo lucido, divertente, originale ha messo un pazzissimo gruppo di studiosi di varia natura e livello di precaria sanità mentale a capo di un altrettanto mirabilante Istituto di Ricerche Storiche Saint Mary, incaricato di organizzare "viaggi nel tempo" per studiare, confermare e raccogliere dati su periodi ed eventi storici più disparati. Tutto va storto naturalmente, come dev'essere in un romanzo d'avventura a cui non mancano dosi uguali di dramma, romanticismo e mistero. Non è un tema nuovo quello dell'eventualità di spostarsi sulla linea temporale e tornare indietro (o andare avanti) nella storia ed è stato sfruttato ampiamente sia in ambito cinematografico (celeberrimo Ritorno al Futuro) che letterario, basta pensare al Canto di Natale di Dickens.

La Macchina del Tempo di Wells, Un Americano alla corte di Re Artù di Mark Twain che è da che ho memoria uno dei favoriti di mio zio Francesco. Eppure ho trovato che questo romanzo - o dovrei meglio dire questa serie di romanzi - adopera la tematica in modo assolutamente personale, allontanandosi dall'ambiente metallico e post-apocalittico tipico di tanta fantascienza, ed è per questo che parlo in questo caso di fantascienza atipica e che trovo difficile collocare questa serie del Saint Mary in un unico genere letterario, ma si allontana anche dal format trito e ritrito del povero protagonista che si ritrova in qualche modo sbalzato in un'altra epoca per tempo da definire e vi si deve abituare, con sventure e disagi di varia natura. Parla del viaggio nel tempo con riluttanza come se fosse la parte più scontata del libro e volesse che il lettore si concentrasse su quel che merita veramente attenzione, il mistero e l'investigazione su chi e perché voglia contrastare a tutti i costi il Dipartimento, sul lavoro degli storici e sul valore delle varie scoperte, sulla relazione tra i vari personaggi...in una sorta di ampolla atemporale creata dall'ambiente decisamente unico del St. Mary che lo eleva e lo sottrae a qualsiasi contesto geografico, storico. Quando leggi delle loro avventure, le pianificazioni delle missioni, la sete di conoscenza di questi storici strambi che cercano di imparare dalla Storia e salvarla senza interferire con i suoi moti naturali, sei come trasportato in una dimensione in cui tutto questo ha perfettamente senso e non ti poni domande sull'accuratezza delle vaghe spiegazioni di come in effetti sono possibili questi salti temporali o se te le poni in fondo convieni con l'autrice che alla fine non ha così importanza, non come il resto.
Una scrittura intelligente e moderna, passo incalzante e una giusta ripartizione della trama nelle varie fasi del libro fanno sciogliere le sue 376 pagine (stampate a dire il vero piuttosto grandi) in una lettura accattivante ma che procede senza intoppi, se non per qualche risata. 
Ho avuto modo di leggere solo il secondo episodio di questa saga in inglese (appena possibile coronavirus-permettendo, conto di reperire gli altri in lingua originale) e ho trovato il secondo libro A Symphony of Echoes più trasandato nello sviluppo di alcuni aspetti della trama, in particolare gli intrecci personali tra i personaggi e ho percepito un po' di fretta forse nel risolvere nodi strategici in modo da accellerare la pubblicazione; nonostante questo seguire le avventure di questo gruppo di personaggi è estremamente piacevole. 
Irene Marziali Francis (marzo 2020)

sabato 16 maggio 2020

Raffaele Monti: ricordo di un'esperienza irripetibile.

Posto questo testo, che a suo tempo Monti avrà certamente consegnato in ritardo a Marco Scotini curatore del “ritardato” Catalogo della Mostra Carlo L. Ragghianti e il carattere cinematografico della visione,perché è una testimonianza su mio padre non dico particolarmente sincera – per quanto poi sosterrò – ma certamente interessante, degna di ulteriore conoscenza ed esempio della prosa dell'autore.
Poco prima di iniziare questo blog “Ragghianti&Collobi” ne avevo testato la fattibilità facendo un elenco di argomenti e uno di personalità da inserire e coinvolgere in quell'incerta iniziativa mediatica. Tra i personaggi che subito mi apparvero indispensabili e ricorrenti non poteva non esserci Raffaele Monti.
Secondo il progetto del blog, dunque, Raffaele Monti risultava uno dei personaggi principali, tanto che inizialmente avevo programmato una Monteide, la cui scaletta però mi dette a posteriori l'impressione di poter diventare demolitoria, scorretta perché il ci-devant non era più in grado di difendersi. Ne consegue che in questa sede parlerò di Monti in termini il più possibile spassionati, ignorando i suoi aspetti inaccettabili per il mio “moralismo”, che rivendico nel suo autentico significato, assolutamente diverso dall'accezione denigrativa che oggi sembra preminente. Nel corso delle centinaia di post fin qui pubblicati, Monti è stato spesso citato, non sempre in maniera lusinghiera. Ciò non per fumus persecutionis ma perché qualche caso in cui era implicato questo personaggio “esagerato” si attagliava bene al contesto.
Raffaele (Lele) Monti è stato allievo di mio padre dal 1950, conoscente, aio e poi amico mio dal 1954. Una amicizia costante anche se con inevitabili screzi dovuti sempre alla infinita capacità di fare “casini” che ha contraddistinto il povero Lele. Il suo difetto principale era quello di essere un bugiardo patologico, cioè incapace di non mentire anche nei casi in cui ciò sarebbe stato irrilevante. Un esempio clamoroso e postumo: Lele si toglieva per vanità gli anni, evidentemente, giacché si fa nascere nel 1936 (ragione per cui sarebbe andato all'Università nel 1950 a 14 anni. Non è possibile, non siamo negli USA!). Così recita, infatti, il “coccodrillo” Adnkronos del 22 aprile 2008, commentando la morte dello storico dell'arte. Monti è nato nel 1933.
Però era capace di grandi slanci amicali, il Lele, di grandi generosità, di istintiva adesione ai problemi altrui per i quali poteva manifestare una empatia talvolta taumaturgica. Eppure era meglio non farci affidamento, completo almeno. Ancora però, conoscendolo bene, per lo 

meno fino alla sua mezza etò, era impossibile non trovarlo simpatico, non essere coinvolti nella sua esuberanza e nella affettuosità. Mio padre lo ha sempre – alla fine – protetto, promosso e perdonato, anche se Lele gli ha fatto fare figure barbine, talvolta tremende (ed onerose per editori) con colleghi ed amici importanti. Perché Lele potesse laurearsi doveva superare l'esame di latino nel quale era stato sistematicamente respinto; C.L.R. venne ai ferri corti con il collega latinista Lana pretendendo ed alla fine ottenendo la sospirata promozione di Monti. Cosa che C.L.R. si è ben guardato di fare – giustamente! – per me che arrivai ultimo alla prova scritta dall'italiano in latino. Non mi sono laureato anche per ciò (diciamo che ciò ha inciso per il 10 per cento). Mia madre per Lele era stata eletta facente funzione della sua defunta (sorella di Costanzo Ciano, sia detto per inciso), si confidava, era consolato, incoraggiato... e poi faceva il contrario. Quando Lele tornò da Milano di nuovo a Firenze dopo qualche anno di assenza, si presentò contrito con un mazzo di fiori esagerato e con scusanti e pentimenti tali da farla quai piangere per la commozione. E così via finché i miei genitori sono morti di precoce vecchiaia valetudinaria.
Poi è morto pure lui, il Lele Monti, dopo essersi vendicato per un mio eccessivo rimprovero per la sua sfacciata condotta mendace in un episodio giudiziario che taccio perché coinvolge altre persone, per altro defunte quasi tutte. Già! E' stato proprio Lele ad adoperarsi perché nell'asta inaugurale di Piero Pananti (1999) le opere d'arte che Rosetta ed io presentammo in vendita per realizzare la cifra occorrente necessaria all'acquisto delle nostre nuove abitazioni, nelle quali tuttora viviamo, furono sottoposte inopinatamente a notifica da parte delle Belle Arti. Un caso mai avvenuto prima in circostanze analoghe, come fu rilevato.
Siccome Lele Monti era anche fisicamente vigliacco nonostante il “corpaccione” (copyright Alfredo Righi), scomparve dalla mia portata. E fece bene, il Lele, perché per qualche anno lo avrei certamente “cardato”, cioè menato di brutto e sodo! In seguito non è sceso l'oblio ma ha preso il sopravvento il residuo di affezione e di gratitudine per le sue piccole cortesie, per i tanti insegnamenti culturali ricevuti, i tanti chiarimenti letterari ed artistici e particolarmente in campo musicale, che nel corso di mezzo secolo mi ha comunicato, impartito attingendo spesso al meglio della sua cultura e dell'altrettanto notevole capacità di trasmettere il suo sapere, le sue interpretazioni con entusiasmo e fascinazione.
F.R. (25 aprile 2020)


mercoledì 13 maggio 2020

Rosai, Pratolini, Ragghianti. Firenze anni Cinquanta.

Mi auguro per gli amici Pananti che l'epidemia iniziale del virus Covid 19 non abbia danneggiato la loro asta del 22 febbraio, nella prima parte della quale venivano disperse le opere della raccolta di Vasco Pratolini, l'indimenticabile autore di Cronache di poveri amanti e di altri libri con protagonista la vita corrente a Firenze.
Le 121 – se non erro – opere di questa “raccolta” (non “collezione”, giacché questa si caratterizza per la specifica ricerca delle opere da parte di amatori, persone o enti che siano) sono ad evidentiam quasi esclusivamente costituite da doni di amici e ammiratori, da qualche acquisto per “aiutare” artisti nel bisogno. Esse costituiscono un insieme affettuoso ed evocativo di un periodo della nostra storia artistica e culturale. Purtroppo non è esistita in questo caso la possibilità di conservare l'unità fisica delle opere in un unico fondo culturale, meglio se museale. E' infatti nei Musei (quelli come gli Uffizi o il Louvre) che si possono – e si dovrebbero – non solo conservare le opere d'arte esposte ma anche documentazioni che consentano lo studio organico e la ricostruzione non solo a scopo espositivo di personalità e fenomeni preminentemente artistici.
Uniti i cognomi di Pratolini e Pananti mi fanno ricordare due episodi nei quali si trovano implicati mio padre per un verso ed io per un altro. Marginale la mia implicazione, consistente in un “romantico” disegno di Renzo Grazzini (1912-1980), pittore in vista nella Firenze del secondo dopoguerra, raffigurante Vasco Pratolini piuttosto giovane e capelluto. Regalai questo disegno nel giugno 1989 a Piero Pananti per ringraziarlo di una cortesia nei miei riguardi di cui non ho ricordanza.
Importante è, invece, la corrispondenza del 1959 tra Pratolini e Carlo L. Ragghianti, concernente la mostra Antologica, allora in preparazione, dell'opera di Ottone Rosai. Questa memorabile esposizione si tenne l'anno dopo nel maggio-giugno sull'intero primo piano di Palazzo Strozzi a Firenze.
In effetti l'esposizione fu memorabile, ma fu anche assai contrastata e poco supportata, giacché il Comune della città era commissariato con il conte Lorenzo Salazar, il quale pur favorevole non poteva disporre dei consueti mezzi di spesa di una Amministrazione eletta. Così, presumo, l'Azienda Autonoma di Turismo, la quale aveva in gestione Palazzo Strozzi. Non mancarono i consueti antagonistici contrasti interdittivi nei confronti di R. e delle sue iniziative da parte dei soliti ambienti.
Il Catalogo della Mostra dell'opera di Ottone Rosai 1911-1957, per poter riutilizzare buona parte dei clichés, fu sacrificato nel formato, identico a quello della Mostra che Pier Carlo Santini aveva allestito ad Ivrea nel Centro Olivetti, durante la quale l'artista perì improvvisamente. Modesta fu anche la veste editoriale con soltanto una Avvertenza firmata da P.C. Santini in luogo dei consueti testi critici. In essa il curatore rievocava il citato precedente di Ivrea (1957), e la Mostra, clamorosamente inedita, (1956) dei disegni di Ottone Rosai tenutasi nei locali de “La Strozzina”, nonché il lungo e rilevante saggio di C.L. Ragghianti. Questo scritto ed altri contributi di C.L.R. saranno ripubblicati in un prossimo post. Nella lettera del 13 febbraio in risposta a quella di Pratolini, Ragghianti tra l'altro accenna ad un suo progetto circa un Centro Studi sull'opera dell'artista fiorentino. Questa proposta è esemplare di un aspetto caratteriale di C.L.R., il quale aveva una componente di ostinata riproposta di progetti non realizzati al momento della loro progettazione. Nel 1983, infatti, presso l'Università Internazionale dell'Arte di Firenze, mio padre, convocati gli amici ed estimatori di Rosai ancora viventi, procedé alla costituzione del Centro Studi su Ottone Rosai. Purtroppo in seguito, per carente impegno dei collaboratori responsabilizzati dall'Assemblea fondativa, il Centro risultò praticamente inerte. 

Penso che solo la morte nel 1987 abbia impedito a C.L.R. di tentare ancora una volta il rilancio di questo Centro Studi. Magari a Lucca, tra le attività collaterali della Fondazione Ragghianti. Comunque mi riprometto di rendere nota la documentazione della vicenda tramite le carte del mio Archivio. Ritornando alla raccolta Pratolini testè dispersa all'asta Pananti, noto in particolare (e riproduco) un collage curiosamente eccentrico alla consueta pittura di Rodolfo Marma (1923-1998) realizzato nel 1963 con i resti appena rinvenuti di manifesti del 1911. Si tratta di un'opera interessante, nella quale l'artista declina in maniera originale e calibrata l'idea dei de-collages cui Mimmo Rotella si dedicò dai primi anni Cinquanta. Mi soffermo su Marma perché proprio tra il 1952/53 si verificò un contatto diretto con i Ragghianti del tutto estraneo alle arti figurative. La sua prima moglie, statunitense di origine italiana, ebbe l'incarico di insegnare i rudimenti della lingua inglese a Rosetta Ragghianti (10 anni) e al terzogenito (7 anni). Questa giovane donna dai capelli corvini era veramente un tipo singolare: sembrava avercela costantemente con l'intero universo; era una tabagista forsennata tanto da essere impregnata dall'odore del fumo e della nicotina. I bambini la chiamavano “Missis Mansia”, però non sono sicuro che la grafia del suo cognome fosse uguale alla loro pronuncia. I ragazzi erano molto colpiti e divertiti da una particolarità del suo vizio: il rifugiarsi spesso e per lungo tempo in bagno – per altro antiquato – di viale Petrarca, cosa che concedeva loro una gradita pausa. Credo che la signora Marma avesse ricevuto da nostra madre l'incarico grazie al tam-tam diffuso nell'ambiente artistico sullo stato stringente di necessità economica del pittore. Il Marma infatti appariva molto “sgualcito”, e purtroppo per lui allora non vendeva praticamente mulla, anche perché la sua pittura era oleografica, passatista, ostinandosi a ritrarre i tipici vicoli e altre amenità di san Frediano e di Santa Croce con un ductus che avrebbe offeso Signorini e altri artisti dell'Ottocento. Ricordo che questo allampanato pittore era considerato una delle macchiette circolanti in una città ancora vivibile e paesana grazie allo scarso – e in certe zone nullo – traffico automobilistico. Alla ricerca di spunti veristici, egli girava in bicicletta con tutto l'arsenale del plein-air e con a tracolla una corta scala. Un fenomeno di equilibrio!



Collega di Marma nel macchiettismo e nelle attenzioni satiriche dei “firenzini”, era stato anche il “povero” Giorgio Pasquali (1885-1952), grande filologo e coniatore di iperboli quali quella sulla parola bischero tipica di Firenze: da aschero, a trischero ecc. secondo il grado di fessaggine. Era veramente spassoso osservarlo deambulare gesticolando per le strade del centro, come anch'io ebbi modo di verificare un paio di volte, un po' dispiaciuto per gli sghignazzi del codazzo di divertiti ragazzacci, rivolti ad un amico del babbo. A conferma di questo aneddoto deambulatorio del bizzarro Giorgio Pasquali, ne riporto due, tratti dal curioso Dizionario delle maldicenze di Dino Provenzal:


Altro fenomeno – per più versi squallido – era l'antiquario Bruzzichelli che amava girare in città su un calesse trainato da un cavallino stento che pareva un asino.
Nel quartiere di San Frediano, via dei Serragli, Santo Spirito, rammento il caso – veramente triste – di una ragazza down o volgarmente per tanta gente mongoloide (peraltro l'unico essere afflitto da tale malattia genetica visibile per strada all'epoca), la quale nelle ore più disparate capitava di incrociare mentre procedeva piuttosto irregolarmente recitando ossessivamente la breve cantilena “ciccia, roccia...ciccia”. Salvo alcuni rari deficienti, di lei però nessuno rideva, anzi era praticamente adottata dalla comunità popolare. Concludo questo post incentrato su una iniziativa che accomunò tre personaggi come Rosai, Pratolini e Ragghianti e su alcune postille correlate tra loro casualmente, con il “coccodrillo” che Geno Pampaloni dedicò a Vasco Pratolini il 13 gennaio 1991 su “Il Giornale” di Indro Montanelli..
F.R. (14 aprile 2020)



domenica 10 maggio 2020

Addenda su Marino Marini e sulla Fondazione a Pistoia.

Dopo aver riproposto gli scritti antebellici e quelli pubblicati su “seleArte” negli anni '50-'60 da Carlo L. Ragghianti all'interno del post Arte moderna in Italia 1915-1935, testi critici: Carandente (Cominetti, Marini) – vedere 4 marzo 2020 e successivamente Incontro con Marino Marini v. 10 marzo 2020 ritenevo accantonato il rapporto tra il critico lucchese e l'artista pistoiese, almeno per quel che riguarda questo blog.
Non avrei intenzione, infatti, di addentrarmi sulla questione degli sforzi (e dei risultati, poi riconosciuti come indiretti) di mio padre per portare l'opera di Marini a Firenze. Questa reticenza dipende in parte dal fatto credo che essi siano già stati indagati; dall'altro dal fatto della mia viscerale antipatia nei confronti dell'uomo, uno smidollato ondivago per carattere, e snob d'animo, quale mi è sempre sembrato M.M. mi infastidisce.
Mi corre l'obbligo, a questo punto, di sottolineare che Marino Marini è stato un grandissimo artista, uno di quei pochi che saranno ricordati come i protagonisti del proprio secolo.
La cronaca recente della ancora non risolta presumo diatriba sulla intenzione di accentrare a Firenze anche quanto custodito e promosso culturalmente dalla Fondazione Marini che ha sede a Pistoia, mi riporta a mente tramite uno dei suoi protagonisti difensore dello status quo lo studioso Marco Borrini una analisi critica condivisibile sul rapporto Ragghianti-Marini. Essa fu pubblicata sotto forma di “scheda” (pp. 326, 327), nel poderoso, utile e tuttora vitale Catalogo della Mostra C.L.R. e il carattere cinematografico della visione (Charta, 2000), progettata con passione da Marco Scotini. 
Siccome, come dicevo, il testo della scheda merita di essere ricordato, lo ripropongo oggi con la riproduzione di alcune opere di Marini. Nato nel 1967 a Pistoia, Marco Borrini si è laureato a Bologna con Renato Barilli, ha svolto e svolge un'intensa attività di organizzatore culturale e di studioso. Difende la permanenza a Pistoia della Fondazione Marini, che tra l'altro offre qualificata attività con personale specializzato anche perché:


Per quel che può valere, personalmente ritengo non solo giusto ma importante culturalmente che la sede e le attività della Fondazione rimangano a Pistoia. Oltre alle altre considerazioni da più parti sostenute, questo Istituto rappresenta una determinante testimonianza della fertile e qualificata presenza nel Novecento della alta qualità intellettuale ed artistica della scultura e in particolare nell'ambito di una città per certi versi marginalizzata dalla concorrenza lecita di altri centri urbani toscani. Voglio ricordare soltanto che a Pistoia è nato ed ha operato Jorio Vivarelli, altro notevolissimo scultore, di cui rammento ancora la coinvolgente casa-museo. Mi sembra opportuno citare anche la Fonderia Michelucci, che ho sentito fin da bambino sempre lodare tra le migliori d'Italia e del mondo da qualificati artisti (uno per tutti: Emilio Greco) e studiosi competenti in materia.
F.R. (17 aprile 2020)

giovedì 7 maggio 2020

Arte Moderna in Italia 1915-1935 - Testi dei Critici, 10. ITALO CREMONA (REVIGLIONE).



Post Precedenti:

1. RAFFAELE MONTI ( I ) - 16 giugno 2018
2. IDA CARDELLINI (LORENZO VIANI) - 28  settembre 2018 
3. UMBRO APOLLONIO (NATHAN, BIROLLI) - 19 settembre 2019
4. MARCELLO AZZOLINI (GUERRINI, CHIARINI, VESPIGNANI). 6 ottobre 2019
5/I. FORTUNATO BELLONZI (BOCCHI, D'ANTINO). 12 novembre 2019
5/II. FORTUNATO BELLONZI (MORBIDUCCI, SAETTI). 28 dicembre 2019
6. ALDO BERTINI (CREMONA, MAUGHAM C., PAULUCCI). 22 gennaio 2020.
7. ANNA BOVERO (BOSWELL, CHESSA, GALANTE). 5 febbraio 2020.
8. SILVIO BRANZI (SCOPINICH, BALDESSARI, NOVATI, SPRINGOLO, RAVENNA, KOROMPAY, ZANINI). 23 febbraio 2020.
9. GIOVANNI CARANDENTE (COMINETTI, MARINI). 4 marzo 2020.
11. ENRICO CRISPOLTI, I (BALLA, EVOLA, ALIMANDI, BENEDETTA). 2 aprile 2020.
12. ENRICO CRISPOLTI, II (COSTA, DIULGHEROFF, DOTTORI, FILLIA). 6 aprile 2020.
13. ENRICO CRISPOLTI, III (ORIANI, PANNAGGI, PRAMPOLINI, MINO ROSSO), 10 aprile 2020.


Per ciò che riguarda la complessa personalità di Italo Cremona (!905-1979), pittore,scenografo, costumista, scrittore, studioso e critico d'arte, protagonista del cinema torinese e poi romano, rimando al nostro post del 22 gennaio 2020. In esso, presentata da Aldo Bertini, la sua attività è analizzata in relazione alla Mostra Arte Moderna in Italia 1915-1935.
Nel presente post Cremona è autore della scheda (probabilmente in un primo tempo affidata a Aldo Bertini) su Mario Reviglione, di cui – come collezionista – possedeva l'opera più nota, Ritratto di Amalia Guglielminetti, presente in mostra. Sempre su Reviglione è di Cremona il testo che segue la scheda e le ulteriori illustrazioni che documentano l'attività del pittore vissuto dal 1883 al 1965.
Non per acribia ma per analisi logica mi viene il sospetto che la scheda Reviglione in realtà sia una sintesi redazionale del testo più esteso, diffuso scritto in precedenza da Cremona per commemorare la morte dell'amico pittore avvenuta l'anno precedente. Il tutto con l'approvazione sia di Bertini che di Cremona, amicissimi dai tempi sodali in Accademia Albertina.

Effettivamente si può sostenere con Cremona che il Ritratto della Guglielminetti è “quasi emblematico di un'epoca”. 


Al riguardo ricordo che spesso nelle coinvolgenti e vivaci cene che cinque, sei volte l'anno – tra il 1952 e il 1965 – radunavano al desco dei miei genitori Edoardo e Marghè Detti, Eugenio Luporini (poi con la giovane moglie Luisa) e saltuari o diversi altri commensali, quasi sempre c'era un “siparietto” di nostalgici ricordi (generalmente introdotto da Eugenio) di Lucca e poi dei “bei tempi che furono”. Questi ultimi vertevano spesso sul fascino ammaliatore di quella scrittrice torinese.
Dato che oggi credo (e spero, comunque) non si indugi più con le melense “nostalgie” di apprezzamento e di indulgenza per gli opachi anni crepuscolari di Guido Gozzano (1883-1916) e ancor meno per le deviazioni morali e sessuali del D'Annunzio, forse dedicare prossimamente un post a quella protagonista del demi-monde prima del e durante il fascismo, potrà risultare informazione interessante. Se non altro a dimostrazione che le bas-bleu (letterate saccenti) di oggi non sono sostanzialmente differenti da quelle di inizio e sviluppo del Novecento.

F.R. (24 gennaio 2020)