Carlo e Licia

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mercoledì 29 maggio 2019

Il 1948 dei critici d'arte – Il Convegno di Firenze, Atti (X) - Sezione 5. L'Insegnamento della storia dell'arte, gli strumenti scientifici, gli scambi internazionali.

Post precedenti:


23 luglio 2918. n.1 – Preliminari e inaugurazione.
26 agosto 2018. n.2 – Sezione 1A. Indirizzi, metodi e problemi di critica d'arte.
25 settembre 2018. n.3 – Sezione 1B. Spazio, critica d'arte architettonica. Discussione (Sezioni A e B).
25 ottobre 2018. n.4 – Sezione 1C e 1D. Le arti figurative e il cinema. Arti figurative e stampa quotidiana.
25 novembre 2018. n.5 – Sezione 2. Comunicazioni, 1.
27 gennaio 2019. n.6. - Sezione 2A. Comunicazioni, 2.
27 febbraio 2019. n.7 – Sezione 2B. Ricostruzione e restauro di monumanti in Italia.
27 marzo 2019. n.8 - Sezione 3. Il restauro delle opere d'arte, pp. 164-180.
27 aprile 2019, n.9 - Sezione 4. Museografia, Mostre, pp. 181-200.


Questa V sezione del Convegno dedicata all'insegnamento della Storia dell'Arte – che oggi sciaguratamente si tende ad eliminare o comunque circoscrivere ulteriormente tra gli insegnamenti secondari od opzionali – fu anche all'epoca argomento centrale del dibattito e di risonanza al di fuori della sede di Palazzo Strozzi. Anche i temi complementari riguardanti gli strumenti scientifici e gli scambi internazionali sono tuttora dibattuti nelle loro manifestazioni e conseguenze.
Sull'insegnamento della Storia dell'Arte nelle scuole e all'Università in questa sede non compare uno specifico interessamento di Carlo L. Ragghianti, che però se ne era occupato indirettamente nella sua breve esperienza di Sottosegretario alle Belle Arti, allo Spettacolo e al Turismo e ne farà in seguito un punto di riferimento costante, con analisi e proposte, durante tutto l'arco della propria attività. Ricordo i post e i suoi interventi già pubblicati in questo Blog:
Dall'Università alla scuola ( con Giuliana Nannicini Canale) e R. Docente, 21 maggio 2017 e 7 agosto 2018;
Sempre su C.L.R. docente (1,2) e la sua metodologia si vedano gli Indici di SeleArte e i fascicoli relativi nella pagina iniziale del Blog;
Studio sull'Arte – R. e la scuola, 18 settembre 2018;
Addendum al prec., 26 novembre 2018;
Ricordo volentieri anche voci su questo argomento risultanti nella Bibliografia degli scritti di C.L.R., molti dei quali prima o dopo saranno ripresi nel Blog:
53-45. "SeleArte", n.8, p.2, Corrispondenza;
56-43. "SeleArte", n.25, pp. 73-74, Ancora sulla Storia dell'arte;
56-64. "SeleArte", n.27, p.54, Ancora sulla Storia dell'arte;
60-03. "Critica d'Arte", fasc. spec. n.40, pp.217-240, Lo studio dell'arte nella scuola preuniversitaria;
60-26. "SeleArte", n.47, pp.2-8, Lo studio dell'arte in Italia;
85-51. "Critica d'Arte", n.7, pp.2-10, Ritardi culturali.
Ricordo, infine, le concrete realizzazioni e i tentativi innovativi collegati con l'Istituto di Storia dell'Arte dell'Università di Pisa e con le Università Internazionali dell'Arte di Firenze e, soltanto negli indirizzi, di Venezia.
Ovviamente c'è da considerare anche quanto in corso di attuazione e sviluppo accadeva, sempre a Firenze, all'interno e intorno allo Studio Italiano di Storia dell'Arte, promotore del Convegno di cui riproponiamo gli Atti, la cui attività è ormai riscontrabile nelle carte conservate e ora anche ordinate, della Fondazione Licia e Carlo Ludovico Ragghianti di Lucca.

In analogia con i post precedenti di questi Atti, forniamo alcuni dati essenziali e brevi commenti riguardanti i singoli interventi e i loro autori.
Luigi Grassi (1913-1995), figlio di un antiquario e restauratore e nipote di un collezionista, laureato nel 1937 con una tesi su Velazquez in Italia, dal 1941 è stato professore di Storia dell'Arte al Liceo Mamiani di Roma, quindi dal 1948 libero docente all'Università, di cui diviene Ordinario nel 1959 presso la Facoltà di Magistero di Roma. Per questo studioso, stimato da C.L.R., l'insegnamento liceale fu un'esperienza basilare nel suo percorso intellettuale e metodologico, tanto che proprio in questo Convegno di Firenze all'argomento "dedicò un appassionato intervento pubblico" (pp.201-203) secondo la voce che lo riguarda nel Dizionario biografico degli Italiani, Treccani. Da segnalare nell'ambito dei suoi studi quelli dedicati alla Storia della critica d'arte (di cui ha realizzato anche un pregevole Dizionario, Utet editore). Un'importanza significativa hanno avuto anche i suoi studi sui disegni (di cui fu anche collezionista) nei quali ha approfondito le diverse fattispecie, architettura compresa. Proprio su Osservazioni sul non finito nella storia del disegno, il Grassi è intervenuto alle pp.34,35 di questi Atti. Ha lasciato all'Università Roma Tre la propria biblioteca specializzata.
Di Enzo Carli (1910-1999), amico carissimo dal 1928 di C.L. Ragghianti e suo discepolo (come ha scritto), storico dell'arte prolifico sia come specialista che come divulgatore efficace, Soprintendente di Siena, città di cui è stato anche una importante personalità culturale, eccellente musicologo, in questa sede non occorrerà dire altro, anche perché ci sarà inevitabile approfondirne la personalità e i rapporti con R.in prossimi post. Su questo argomento specifico (pp.203-206), benché egli abbia insegnato soltanto all'Università, va ricordato che Carlii è stato autore, insieme al suo amico e collega Dell'Acqua, di un fortunato manuale per i Licei, proseguendo la tradizione del padre Plinio autore col Sainati di una famosissima e a lungo adottata (ancora nei primi anni Sessanta) antologia della lingua Italiana.
Di Giuseppe Galassi (1890-1957) si è tracciato un essenziale profilo nel post n.4 del 28 ottobre 2018 a proposito di Limiti e funzioni della critica d'arte nella stampa quotidiana. Proponendo qui alle pp.206-209 il tema Circa l'opportunità di unificare l'insegnamento della Storia dell'arte, egli svolge una puntuale elencazione con considerazioni volte a rendere meno caotico lo stato attuale dell'insegnamento. Dagli inconvenienti accertati e risolti con i necessari accorgimenti bisogna però evitare di creare nuove disfunzioni. Di Galassi oltre alla amicizia con C.L.R., sviluppata a Roma negli anni Trenta, andrà ricordata in un successivo post anche la considerazione positiva dei suoi studi e delle sue ricerche medievaliste.
Di Antonin Kurial non ho trovato nè date nè dati. Non sembra una vittima della istituenda dittatura comunista l'argomento dell'intervento (pp.209-211) sull'architettura popolare e storica della Moravia non mi sembra francamente di grande interesse, nè pertinente al Convegno. Azzardo: circostanze accademiche di aprioristica cortesia?
Bruno Zevi (1918-2000) già intervenuto alle pp.61,62 su problemi della critica di architettura (vedere post del 25 settembre 2018), qui svolge l'argomento Per un Istituto di Studi critici di Urbanistica e di architettura (pp.211-213) con proposte che renderà più o meno operative nelle proprie sedi di insegnamento e nell'Istituto Nazionale di Urbanistica. Anche per quel che lo riguarda è più che probabile un futuro approfondimento, stante il lungo – anche se discontinuo – rapporto dialettico con C.L. Ragghianti.
Jan Lauts (1908-1983) nato nella città anseatica di Brema da famiglia mercantile, specializzatosi a Berlino e a Monaco di Baviera, prolifico studioso del primo rinascimento italiano, specialista – di poco occhio – di Vittore Carpaccio cui ha dedicato un corpus voluminoso, qui alle pp.213,214 svolge il tema Organizzazione internazionale delle biblioteche. Probabilmente interessante, però incomprensibile dato l'idioma germanico.
Enrico Barfucci (1889-1966) è stato un tipico personaggio fiorentino dell'ambiente culturale, con l'attenuante delle umili origini. Così fu esponente esimio del far carriera q.b.p.g. (quanto basta per galleggiare): massone q.b.; nazionalista q.b. (fu volontario in Libia, 1911, inneggiando alla "grande proletaria", secondo il mito ambiguo creato da un uomo debole al di sotto del quoziente q.b., però talvolta poeta); fu cattolico q.b.; fascista q.b.; postfascista q.b.
A leggere la sua biografia SIUSA, nella Firenze della prima metà del Novecento – salvo lo Stadio e la squadra di calcio "Fiorentina" – egli ha partecipato all'ideazione, alla promozione e alla realizzazione di tutte le iniziative per qualificare la città (Calcio storico, in costume, compreso). Nel 1937 Giovanni Papini nominò Barfucci Segretario (gen.) della sua creatura culturale: l'Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, sede Palazzo Strozzi.
Lì lo trovò Carlo L. Ragghianti nominato (1945) Commissario dell'Istituto. Lì rimase perché si adattò senza apparenti dissidenze; lì presentò a C.L.R., che cercava un segretario personale, un giovane (1925) repubblichino malgrè soi, con diploma di maestro elementare e diploma di stenodattilografia: l'Alfredo Righi. Quando C.L.R. inglobò l'Istituto nello Studio Italiano di Storia dell'Arte, Barfucci vi aderì divenendone Segretario (gen.) e in quella veste, di conseguenza, intervenuto a questo Convegno illustrandone le caratteristiche e specificità (pp.214-216). Quando, dopo il triondo clerico (fascista) del 1948, la cricca Salmi e accademici fiorentini (compreso Cantimori prono al PCI già compromissorio, lui però subito pentito) mosse mari e monti perché il Rinascimento rinascesse ottenendo l'appoggio del reazionario baciapile ministro P.I. Gonella si venne ad una soluzione salomonica con lo scorporo dallo Studio dell'Istituto del Rinascimento: lì Barfucci ritornò segretario (gen.) fino al pensionamento, senza polemiche ed esposizioni personali. Non è che mio padre C.L.R. fosse fesso e nemmeno ingenuo: sapeva da sempre benissimo d'avere uno zelante informatore verso terzi ostili alle sue iniziative, cosa che non temeva perché essendo persona retta non aveva niente da nascondere. D'altra parte sapeva anche della assoluta "prudenza" del Barfucci e che, comunque, egli avrebbe fatto con perizia ciò che gli veniva chiesto. Perciò amici come prima, cioè nessun concreto e reale rapporto.
Ladislao Pàlinkàs svolge (pp.217-219) una relazione riguardane l'Istituto Ungherese di Storia dell'Arte, da lui diretto già da prima della guerra, se non vado errato.
Di questo studioso non ho dati precisi. Ricordo che era un personaggio noto, con lati quasi macchiettistici, che lo distinguevano quasi come l'antiquario Bruzzichelli, in una città ancora vivibile per strada, senza automobili e tutti uguali, tutti a piedi. Era vittima, in Palazzo Strozzi e altrove in occasioni di inaugurazioni ecc., del dileggio di buontemponi spesso alticci come il Righi, però sembrava che costui non se ne rendesse conto. Afflitto da evidente zoppia (1^ guerra mondiale), alto, massiccio, con tratti del volto da cane mastino, procedeva veloce con l'indispensabile bastone quasi con violenza agitato; aveva l'aria sempre irritata, risentita, disgustata. In realtà penso che fosse un disperato (l'Ungheria stava diventando comunista), certamente in bisogno economico, dato che avevo sentito che si tentava di trovargli qualche attività retribuita e che non son solo i miei genitori ma anche persone gentili come il Procacci con lui erano particolarmente affabili e cortesi.
Gaetano Ballardini (1878-1953), benché diplomato ragioniere questo studioso ha dedicato l'esistenza alla ricerca sul campo e agli studi sulla Maiolica italiana antica ed è stato il benemerito fondatore del Museo Internazionale della Ceramica di Faenza. In questa sede (pp.219-221) illustra la ripresa della pubblicazione del Corpus della maiolica italiana. Conoscendo da tempo la sua attività Ragghianti ne stimava la qualità e l'importanza nell'ambito culturale delle arti di questa variente della ceramica, tanto che nel 1975 scrisse una ampia e approfondita prefazione alla riedizione del libro La Maiolica italiana dalle origini alla fine del Cinquecento. Riproporremo, corredato da illustrazioni, questo testo di C.L.R. in un prossimo post su questo Blog.
La petulante studiosa Eva Tea (1886-1970) interviene di nuovo nel Convegno relazionando su Viaggi d'arte in ogni ordine di scuola (pp.221-223). Dispiace constatare che quanto qui giustamente prospettato si è avverato soltanto per quel che riguarda il Viaggio. L'aspetto culturale delle gite scolastiche nei fatti risulta largamente secondario a fronte della socializzazione spesso sfrenata dei discenti.
Enrico Jahier (1895-1982) letterato e bibliotecario illustre, involontariamente offuscato dalla fama del fratello Piero (1884-1966), scrittore, poeta e traduttore, autore dell'indimenticabile Con me e con gli alpini (1920). Anche Enrico Jahier fu ufficiale volonario ed alpino durante la Grande Guerra, che ha onorato con la ricomposizione della "Marcia Alpina delle Tofane" (1961). Al Convegno svolge una relazione su un argomento che stava particolarmente a cuore a Ragghianti in quegli anni: "Biblioteche di Storia dell'Arte" (pp.223-226 e 229-230). Infatti con riferimento alle vicende dell'Istituto Germanico di Storia d'arte, si svolge un dibattito amichevole tra Jahier e C.L.R. soprattutto nella replica del primo e nell'intervento conclusivo di Ragghianti. L'inserimento del patrimonio al Kunsthinstoriches Institut nell'immediato dopoguerra non era ancora precisato. Comunque si trattò di una proposta ragionevole e razionale. La pacificazione post bellica si concluse col ritorno teutonico.
I fratelli Jahier furono piuttosto amici dei coniugi Ragghianti, il cui medico curante dal 1944 agli anni Sessanta fu il mitico dr. Rochat, cognato di Enrico. Purtroppo la corrispondenza è piuttosto esigua, stante la residenza fiorentina di tutti loro.
Umbro Apollonio (1911-1981) triestino trapiantato a Venezia dove dirigeva l'Archivio della Biennale oggetto della propria relazione (pp.227-229) è stato oltre che conservatore dell'Archivio Storico dal 1949 al 1972 il direttore della rivista "La Biennale di Venezia", quindi docente di storia dell'arte contemporanea all'Università di Padova. Per inciso ricordo che era il padre dell'artista Marina Apollonio (1940), allieva di Santomaso all'Accademia, esponente della Optical Art (espressione di forme che mi divertono e incuriosiscono da sempre) e ricercatrice sulla percezione e la comunicazione visiva. Apollonio ha cercato di aver sempre buoni rapporti con R. ed era sempre presente nelle accessioni veneziane del babbo. Le tensioni tra i gestori "politici" dell'Ente e C.L.R. furono anche decisamente contrastanti, però senza implicazioni attive del funzionario Apollonio.
Carlo L. Ragghianti (1910-1987) interviene alle pp.226-227 e pp.230-233 proponendo per Firenze L'unificazione delle risorse scientifiche e la costituzione di un Istituto Internazionale di Storia dell'Arte di Firenze. Un punto fermo di tutta la sua attività sociale per la città, continuamente tentato, sempre rintuzzato. Però R. non si scoraggiava, nè si adontava per le riuscite parziali; per le non riuscite con altri esiti positivi, per le sconfitte. Preparava un altra variante, predisponeva le basi per un nuovo progetto. Il tutto, sostanzialmente, con serenità e pazienza, tanta pazienza. Quello che lo faceva veramente arrabbiare (e, purtroppo soffrire) era il tradimento. Accettava e quasi sempre perdonava vigliaccherie, opportunismi, tentennamenti, ma il tradimento (e la calunnia che ne fa parte inevitabilmente) no. Siccome non era meschino non si vendicava per non scadere alla loro bassezza. Li giudicava per quel che erano e lo sapevano, questa era la punizione. Sembra poco ma ha quasi sempre funzionato: scomparivano vani milites gloriosi, col rovello dentro inesorabile. Alla fin fine non hanno mai combinato granché, talvolta niente dopo il loro tradimento. Sono crepati, quasi sempre, anche presto!
F.R.

venerdì 24 maggio 2019

Minima morandiana, 1.

 Lungi da fare allusioni, si può asserire però che di Giorgio Morandi non si può buttare via niente, nemmeno minuscoli particolari che lo riguardano. Questi, infatti, diventano ipso facto memorabili, data la statura - certamente non soltanto fisica – del pittore bolognese. Perciò in questo post, ed in almeno un altro che seguirà tempo permettendo, riporto alcuni fatti, di origine assai differente (editi ed inediti soprattutto) che reputo se non proprio degni di nota – degni di esere salvaguardati dall'andare perduti per l'usura del tempo e la scomparsa dei “testimoni”.
Va da sé che per noi figli di Carlo Ludovico Ragghianti e di Licia Collobi la memoria di Giorgio Morandi non può che essere cosa grata, riverente.
Banalmente se non altro perché grazie al valore estrinseco, cioè pecuniario, delle opere del Maestro la nostra personale mediocre sussistenza economica e sociale è risultata meno gravosa di quanto sarebbe stata per ciascuno di noi senza l'occasione “fortuita” di poter alienare il possesso – ricevuto, non acquisito – di opere del grande artista bolognese. Dato che non sono religioso, posso dire scherzosamente che almeno io riferendomi al grande pittore ed incisore intimamente lo rammento come “San Giorgio Morandi”.

1. Uno dei primati o records della mia vita penso possa essere anche il fatto di essere stato se non esattamene l'unico bambino visto da Morandi fin dalla clinica ostetrica, certamente l'unico che egli ha visto e rivisto per l'arco di un biennio (1940-41) quasi quotidianamente e in tutte le manifestazioni che riguardano un neonato fino a quando è in grado di camminare da solo. Comprese le mie “famose” (e credo da qualcuno anche descritte) scorribande per la casa di piazza Calderini seduto sul vaso da notte – sia chiaro, con le pubenda coperte/fasciate – le quali, dato che ancora non sapevo camminare, avevo adottato (forse addirittura inventato) come mezzo di locomozione. Così potevo assistere, senza disturbare, alle riunioni già clandestine degli amici e degli adepti del babbo.
Questo fatterello è significativo non di per sé ma come testimonianza dell'amicizia e del rispetto – certamente reciproco – del Maestro nei confronti dei miei giovani genitori: la circostanza, cioè, che Morandi li frequentasse in casa loro assiduamente, nonostante la presenza di un pupattolo, cosa per lui più che inusitata ed imprevista, direi non troppo gradita, comunque straordinaria, eccezionale. Di queste considerazioni sono certo sia perché lo so da mia madre che si era accorta del disagio di Morandi, sia da zio Cesare Gnudi che al ricordo ne era molto divertito ancora dopo una quindicina d'anni. Infatti me ne parlò, dopo averlo accompagnato in un suo incontro di “lavoro” col Maestro presso l'Accademia di Belle Arti di Bologna, mentre mi faceva visitare la casa di Giosuè Carducci, poeta caro alla nostra famiglia.
La cosa mi è rimasta impressa perché la ragione per cui ero andato a Bologna


2. GAMELIN


da solo era che Cesare mi aveva chiamato perché la mia tata Rina stava morendo di cancro e gli aveva chiesto di vedermi, ormai adolescente, per l'ultima volta. L'incontro avvenne il pomeriggio e fu straziante per lei che mi considerava un suo “figliolo” e per me, il Cècco, è stato forse l'incontro più drammatico della mia ormai lunga vita.

martedì 21 maggio 2019

Una visita a Manzù.

Personalmente ho conosciuto Giacomo Manzù nel 1985, dopo aver trasformato la frequentazione con Piero Pananti in amicizia. In vero incontrai per la prima volta questo gallerista ed editore quando gli chiesi dei clichés per illustrare il fascicolo monografico su Emilio Greco della “Critica d'Arte” (n.131/133, sett.-dic. 1973). Ma sempre Emilio Greco, che teneva una importante personale a Bari (nell'84, mi sembra) promossa da Piero e suggellata da mio padre, fornì l'occasione per cui quella trasferta aereotrasportata divenne confidenza e amicizia (lo sottolineo perché essa è una delle veramente poche su cui posso confortare la solitudine). Anche a Bari c'era Alfredo Righi, il quale una volta pensionatosi bene (giacché miracolato da una inaspettata seconda previdenza quale sindacalista del Movimento di Comunità, di Adriano Olivetti confluito nell' U.I.L.), dopo una vita di lavoro forse stressante, certo non faticosa, occupava il tempo in socialità di varia natura. Pananti con l'ausilio di Alfredo voleva chiedere non ricordo cosa a Manzù ed io fui coinvolto nella gita col ruolo di rappresentare il cognome come garante di serietà – previo consenso paterno da parte mia, anche se non richiesto.
Arrivammo a Roma in automobile in una splendida mattina domenicale d'agosto: mangiammo all'aperto in una strada di semi periferia, larga ben areata di edilizia borghese inizio secolo e dal lato in ombra. Altra differenza con il pasto nella Roma di Fellini fu che i tavoli, tanti, erano per 2/4 persone e i clienti non erano caciaroni perché non affiatati e in prevalenza turisti parcellizzati in piccole unità familiari. Del cibo non ricordo niente, però non fu sgradevole, il vino lo ricordo perché Righi impose il “Galestro”, un bianco di recente invenzione, veramente mediocre. Subito dopo attraverso una città semi deserta, con automobili rare e placide, insonora, sempre con una ventilazione leggera che annullava la calura bruciante, se toccavi con mano qualcosa. L'Eur assolata, desolata risultava più convincente di un De Chirico di spatola magra. Dopo i pini di Roma, la campagna pareva una sequenza di immobili miniature nitide. La villa di Manzù nei pressi di Ardea appariva come un fortilizio medievale, con attorno alla residenza patronale annessi e connessi di onesta rusticità.
Fummo ricevuti in un salotto assai spazioso e disadorno e insediati in ampie poltrone massicce, squadrate, con braccioli larghi un palmo, nelle quali un corpulento come l'Alfredo stava largo; Piero, alto e robusto sembrava a suo agio; io, allora ancora in peso forma, mi sentivo imbarazzato perché non trovavo un ubi consistam: o i piedi ben saldi a terra e la schiena lontana dallo schienale, oppure viceversa con la schiena appoggiata e i piedi quasi penzoloni, nonostante 172 cm. di altezza. Dopo qualche interminabile minuto in quel salone abbastanza fresco e molto luminoso, finalmente comparve il Maestro. Ahilui, niente carisma: tozzo, sciatto (l'Alfredo poi sostenne che aveva anche la patta dei pantaloni aperta) e, incredibile, con un cappellaccio in testa, Manzù sembrava la caricatura non riuscita di Tono Zancanaro particolarmente alticcio quando incedeva pour époter la bourgeois, con in mano un bastone, la camicia – rossa, di preferenza – fuori dalle braghe, sandali lisi dall'uso con ai piedi sgargianti calzini. Però la faccia, il visus di Tono sprizzava bonomia ironica, simpatica disponibilità, il suo procedere sbilenco, scazonte, suscitava benevola attenzione, cordiale aspettativa. Giacomo Manzù, al contrario, sembrava un villano rifatto, apprensivo e malevolo fattore di serie B.
Quando maldestramente mi alzai per salutarlo strinsi una mano paffuta e molliccia. Mentre gli riferivo i saluti di Carlo L. Ragghianti che tramite la mia voce gli chiedeva di dare benevolo ascolto ai signori con cui m'accompagnavo, Manzù prese ad agitare una mano per farsi vento ed io – sorpreso – dovetti sforzarmi di non rimanere ipnotizzato da quelle dita danzanti. Ero, lo ricordo come fosse ieri, basito dalla contraddizione dell'apparenza oziosa di quell'organo che con delicatezza ma anche – e non poco durante il suo lavoro – capace di grande forza, forse decisa brutalità se necessario. Una mano che plasmava splendide sculture, fini incisioni, disegni di ineguagliabile espressività. Perché è bene che lo chiarisca anche qui, Manzù è stato un artista di levatura eccezionale, uno di quegli artefici che sfiderà i secoli nonostante le turpi distruzioni di stati ed uomini mostruosi che preferirebbero la fine del mondo ad un argine del loro ego smisurato (in realtà meschino forse soltanto ìnvido). I posteri comunque avranno di Manzù una memoria, forse labile però motivata, degli egolatri che reggono il mondo forse neppure il nome sarà tramandato, perché dannato.

Non rammento cosa volessero Piero e Alfredo durante l'oretta di conversazione. Avevo la testa altrove, compreso il fatto che con quel caldo non ci fosse offerto niente da bere; però pietoso pensai che dipendesse dal fatto che il Maestro non dovesse dissetarsi per motivi medici. A un certo punto fece la sua comparsa, con incedere deciso, teutonico, quasi minaccioso (meno male che era stata una danzatrice!) Inge, la moglie, che con fare indifferente e sostenuto gli ricordò che doveva prepararsi per un impegno. Non salutò, nonostante ci fossimo alzati all'unisono, e dopo le poche parole voltò le terga (interessanti, a dire il vero) e scomparve. Per quel che avevo potuto notare, oltre al sedere, si vedevano ancora nella ex ballerina ed ex modella le vestigia di una bellezza penetrante, coinvolgente; l'incarnato era ancora nettamente rimarcabile e l'andamento comunque elegante. Però 
l'opacità un po' bovina, statica e dura del volto induceva a distogliere lo sguardo, lo charme riflesso nelle sculture non c'era più: era soltanto una donna piuttosto alta e corpulenta, la cui presenza impositiva risultava soltanto fastidiosa. Comunque Manzù, che ebbe il buon gusto di non notare l'imbarazzo intervenuto, prima di congedarsi definitivamente ci raccomandò di sostare al suo Museo, sito a piè della collina su cui troneggiava l'abitazione, e che avrebbe avvertito perché ci aprissero nonostante il giorno festivo. Nel contempo ci mostrò dal di fuori alcune delle dépendances e, dopo aver aperto il portone, la semioscura officina dove nel 1962 operò la mia (oggi) Danzatrice (vedere nel blog il post del 31 ottobre 2016), alla quale dette un'impronta unica, ineffabile, quella che – come constatai a Lucca nella mostra di scultura dell'ottobre 1982 – fu ammirazione incondizionata di tutti gli illustri scultori che la videro e così dei critici d'arte che sono passati da casa Ragghianti. Ai piedi della collina era incuneato il moderno edificio piano terra nel quale un solerte custode ci fece entrare permettendoci poi di visitarlo in santa pace. Ci rimanemmo per oltre un'ora e, almeno per quel che mi riguarda visitai ogni angolo, ammirai ogni bacheca. Però alla fine ero sfinito, quasi confuso da una massa di capolavori e di opere comunque notevoli. Ho capito, poi, che la quasi solitudine, cioè il non essere distratto dall'umanità circostante m'aveva indotto una specie di sindrome, anche se – come mio padre – non amo indulgere agli psichismi. Di certo devo ammettere che il bilancio di quella “abbuffata” d'opere d'arte fu, e tutt'ora nell'analisi permane, negativo.
Per quanto ben allestito un percorso museografico non riesce a rendere completamente un'idea di sviluppo organico della personalità e dell'opera di un artista perché mancano le pause, i riferimenti culturali e tecnici che possono invece essere forniti da una monografia. Nel cenotaffio monotematico considerazioni e riconsiderazioni sono troppo incombenti, troppo immediate, spettacolari anche ma non critiche. Insomma l'idea di un contenitore di tutte le fattispecie, le sfumature, i ripensamenti, i mutamenti di un solo artefice risulta sostanzialmente indigeribile perché acritica. Sono un monumento di egocentrismo statico in cui è assente lo stimolo dialettico che consente distinzioni ed intuizioni.
Sarebbe stata soluzione migliore da parte di Manzù donare nuclei organici del proprio operare a varie sedi, le più prestigiose possibile (cosa che nel caso di un genio come lui non sarebbe certo stata di difficile realizzazione dovunque). In questo caso la lettura critica – in tutti i suoi aspetti – sarebbe possibile e comunque l'esperienza intellettuale del visitatore non si concluderebbe in disorientamento da un lato, dall'altro non risulterebbe un'esperienza di saturazione (fino alla monotonia che segue alle emozioni eccessive) come nel contenitore di Ardea.
Le considerazioni suddette a mio parere volgono per tutti gli artisti, da Burri a Città di Castello fino a Pio Fedi (che non ho capito se sloggiato o coabitante con una tipografia) nell'oltrarno fiorentino, solo per citare due espressività praticamente antitetiche. Probabilmente lo stesso vale per il Canova di Possagno (che purtroppo non ho visitato), giacché mio padre sembra più entusiasta delle vibrazioni “vitali” dei gessi, che della sistemazione museografica. Persino, anche se meno marcatamente, per il Morandi che vidi musealizzato all'ultimo piano del Palazzo Comunale di Bologna.
Alla fine della full immersion nell'opera di Manzù iniziammo il viaggio di ritorno verso Roma praticamente tacendo forse anche perché l'inizio del secondo pomeriggio estivo rendeva il paesaggio rurale e poi urbano strepitoso. Effetto colori e pomentino di Roma. Piero Pananti puntò per il centro dicendoci che si era ancora in tempo per fare una visita a Fazzini nel suo studio di via Margutta. Nel post del 15 agosto 2018 ho ricordato questo incontro nel quale il Maestro – secondo un rituale evidentemente collaudato – solo da un lato del grande tavolo che falegname disegnava o operava su piccole sculture ritocchi strumentali. Al contempo pontificava bonariamente con amici, famuli, i soliti faccendieri dell'arte (quel giorno anche Pananti e Righi), il solito giornalista Rai (sono ed erano così tanti – e poco affaccendati – a Roma che si incontravano dovunque) e visitatori occasionali come me schierati sugli altri tre lati del tavolone. Fu questa un'oretta piacevole il cui costrutto evidentemente tornava utile a Piero Pananti.
Non c'è dubbio che la differenza di personalità e di comportamento tra due artisti autentici come Giacomo Manzù e Pericle Fazzini è evidente, quasi stridente, epperò ancora una volta conferma che non c'è nessun rapporto tra il dono della creatività, la sua effettiva applicazione e il singolo essere umano. Uno può essere un genio ed essere un farabutto, eppure per altre componenti della sua personalità un individuo creativo; invece uno può essere angelico ma inespressivo come un ciottolo. Entrambi i suddetti scultori erano indubbiamente datati della capacità di esprimere manufatti d'arte, di grande arte; ognuno di loro era però radicalmente diverso: non c'era nessun nesso d'altra natura che potesse spiegarne l'unicità creativa.
Poi con il consueto macchinone status simbol, di cui soltanto e spesso cambiava il marchio, dell'amico gallerista (non ancora “astista”) partimmo diretti a Firenze lungo l'Autosole, sulla quale stava avvenendo l'ultimo tramonto, abbacinante.

F.R. (22,23 ottobre 2018)


Impronta della mano di Manzù e firma, 1962. - Manzù nello studio, 1981.

A proposito di Alfredo Righi: precisazioni del 18 settembre 2020.

Il contenuto di questo post riguarda quello che segue cronologicamente, Una visita a Manzù. In esso si trovano gli elementi che hanno reso opportuna questa postazione attraverso la corrispondenza email tra Laura Righi e Francesco Ragghianti.


10/09/2020 

Caro Francesco,

è davvero tanto tempo che non ci incontriamo più. Sono la Pitte, Francesco carissimo, la nipote dell' Alfredo.

Ti scrivo per correggere alcuni dati imprecisi sullo zio Fridasso che ho letto in un tuo articolo del 21 maggio 2019, intitolato " Una visita a Manzù".

Al di là del fatto che mi sia dispiaciuto leggere il ritratto poco affettuoso dello zio che tende, almeno io l'avverto così, a farne un po' una caricatura; passando anche oltre alla definizione, per me un po' dolorosa da leggere, dello zio come un "faccendiere dell'arte", definizione che nel tuo articolo condivide con un suo caro amico, Piero Pananti; ebbene, pur accettando tutto questo, devo tuttavia, per amore di verità, correggere una notizia imprecisa che hai scritto, secondo me, semplicemente per scarsa conoscenza dei fatti. 

Dello zio sei ovviamente libero di ricordarlo come credi, ma la questione della pensione da sindacalista, è proprio inesatta e vorrei fosse corretta prima possibile.

Leggo infatti che "si era pensionato bene, (giacché miracolato da una inaspettata seconda previdenza quale sindacalista del Movimento di Comunità, di Adriano Olivetti confluito nell' U.I.L.), dopo una vita di lavoro forse stressante, certo non  faticosa.." Tengo a fare chiarezza: lo zio non ha mai ricevuto una pensione da sindacalista , ma è vero che fu aiutato da un sindacalista dell'ultimo periodo di Autonomia Aziendale (la parte sindacale di Comunità), Franco Sassano, un nostro caro amico di famiglia che successivamente guidò la fusione di Autonomia Aziendale con la UIL, a recuperare e a concludere il periodo che gli occorreva per andare in pensione dopo la triste esperienza della Montedison.

Il tuo punto di vista sullo zio, per quanto mi sembri inclemente, è per certo accettabile, come lo è per me qualunque punto di vista; ma vorrei proprio fosse corretta la notizia falsa di una sua presunta pensione da sindacalista.

Questo tuo articolo peraltro è la prima cosa che compare mettendo su Google il nome di Alfredo Righi e mi dispiace leggere cose non vere sul suo conto. Rimango pur sempre la sua affezionatissima nipote.

Ti sarò dunque grata per la correzione.

Un saluto comunque affettuoso in nome dei bei ricordi che ho di te e  della tua bellissima famiglia.

Laura Righi (detta Pitte) 


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15/09/2020

Cara Pitte (Laura Righi),

mi dispiace di averti contrariata involontariamente.

Tuo zio (ziozzo, se ben ricordo), che io ho conosciuto all'inizio del 1946 e quindi frequentato assiduamente fino al 1999, era persona e personaggio di molte e vistose sfaccettature e di indubbie contraddizioni. Queste caratteristiche, però, erano anche la base della sua grande carica di simpatia e di empatia.

Temperamento assai distante, io gli tornavo “utile” come elemento equilibrante e come accompagnatore in circostanze le più varie, anche personali e delicate. Di questo non mi sembra il caso di dettagliare, anche perché occorrerebbero quasi sempre didascalie esplicative anche inopportune o non gradevoli. Quindi non ho intenzioni di rimembrarle, soprattutto perché ne ero soltanto il testimone del quale il soggetto sentiva la necessità per motivi suoi (che non sempre ho compreso). E questo è un aspetto di quella che si chiama amicizia, che è condivisione ma non necessariamente approvazione.

Circa il secondo pensionamento hai senz'altro ragione. Chissà perché, però, mentre scrivevo ricordavo soltanto la lectio brevis, la quale fu spesso citata in presenza di Alfredo con la locuzione “seconda pensione della UIL”, senza che egli ritenesse di fare obiezioni.

Quanto a “faccendiere”, la parola in senso “arcaico” (come ormai sono anch'io) era ancora d'uso comune negli anni Settanta/Ottanta: indicava genericamente chi si occupa come tramite tra chi crea e chi riceve indirettamente. Fu con “tangentopoli” – successiva all'avvenimento di cui parliamo – che la parola si impose come termine spregiativo in relazione a personaggi che “tramitavano”, però in maniera illegale. Nel testo, comunque, avrei dovuto specificare che il lemma riguardava noi tre, dato che sicuramente per gli astanti nello studio di Fazzini risultavo “socio” di Piero e Alfredo. A suo tempo Pananti lesse il post sulla visita a Manzù e mi scrisse, con una precisazione che ora non ricordo, di averlo gradito.

Non mi sono mai posto il problema della differenza interpretativa dello stesso ricordo da parte di diverse persone. Ne ero consapevole, se non altro dopo aver visto da ragazzo il film Rashômon di Akira Kurosawa, ma lo do per scontato. D'altro canto so per esperienza personale diretta che talvolta la memoria può far prendere “cantonate” persino tremende.

Il tono nei confronti di Alfredo nel post non è “inclemente” né irridente o caricaturale. Se ben ricordi, cara Pitte, era lui che qualche volta andava volontariamente su di giri con osservazioni o commenti assertivi e spiazzanti, provocatori persino. Riferendone (es. Galestro) avrei dovuto tener conto di questi tratti caratteriali (che però lo distinguevano e contribuivano al suo appeal sociale) se non spiegati puntualmente possono sembrare anche non benevoli, anziché soltanto descrittivi.

Non sono e non pretendo di essere uno scrittore, però in caso di narrazione devo tener conto della sinteticità necessaria allo scorrimento del testo e al mantenimento dell'attenzione dell'eventuale lettore.

Questo “Ragghianti&Collobi” è un blog nel quale un anziano signore cerca di far ricordare e di far sapere fatti e contenuti di qualche utilità culturale riguardanti l'inconsueta famiglia costituita dai miei genitori, che non sono il solo a ritenere personaggi illustri e meritori.

Pubblicando i loro testi, ad es., intendo farvi accedere gli studiosi, specialmente giovani, senza spese di acquisto libri e riviste rari, o accessioni in biblioteche spesso lontane, scomode, con perdite di tempo oggi inaccettate perché ci si contenta del caos stocastico che fornisce il web. Poi, siccome un Blog è un diario, ci sono postati anche testi, fatti, commenti e quant'altro riguarda o interessa anche noi figli, antichi amici e conoscenti, ecc. ecc.

Infine, visto che ci tieni, più che una “correzione”, penso sia opportuna la postazione delle precedenti precisazioni in calce al post su Manzù.

Sono passati più di trent'anni da quando ti ho vista per l'ultima volta, immagino quindi che tu sia una signora sessantenne ben portante, il che mi fa molta impressione. Mia sorella Anna (che abita a qualche chilometro da Rosetta e me, madre di Irene, che gentilmente digita questa missiva) ti ricorda e ti saluta con affetto; e così faccio io pensando anche a Dorico. A entrambi quindi, tanti auguri (necessari dati i tempi) e tanti cari saluti

Francesco Ragghianti


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15/09/2020

Caro Francesco,

ti ringrazio moltissimo per avermi risposto in maniera così esauriente e ti prego di porgere i miei saluti affettuosissimi ad Annina da parte mia.

Se ritieni opportuna, alla luce dei chiarimenti, la postazione in calce al post su Manzù, ti ringrazio sin da ora se vorrai pubblicarla quando avrai tempo.

Ricordo i tuoi straordinari genitori; molto cari con me da ragazzina quando mi ospitarono alla Guglielmesca a Cortona. Anna ed io facemmo amicizia soprattutto in quell'occasione.

Tuo padre, al Margherita di Viareggio, mi aiutò a scegliere Lettere Classiche; lo fece accanto a tua madre che annuiva sulle motivazioni che il Professore portava per incoraggiarmi ad intraprendere quello che riteneva sarebbe stato per me un mestiere "tecnico", escludendo  l'opinabilità della Filosofia e della Storia dell'Arte, materie entrambi per cui mi sembrava di avere passione.  In quell'occasione parlò da padre più che da Professore ed è un ricordo tenerissimo che ho di lui e che custodisco ancora con gratitudine.

Sul profilo intellettuale dei tuoi genitori molti hanno scritto e capisco il dovere, da parte tua, di divulgare il più possibile notizie, informazioni, scritti, articoli che ne illuminino ulteriormente la personalità, la varietà degli studi e l'altissimo livello della loro straordinaria cultura.

Non mi sembra che oggi esistano più intellettuali del genere. Vorrei sbagliarmi.

Perciò grazie per avermi risposto e per averlo fatto grazie a Irene, figlia di Anna.

In qualche modo l'ho un po' conosciuta anch'io.

Un abbraccio a tutti voi e chissà che non ci si riveda prima o poi, in uno dei miei passaggi veloci a Firenze.

Pitte



domenica 19 maggio 2019

{bacheca} Sempiterna Italia, 9. Il fascismo è morto...i fascisti stanno benissimo.


Dieci anni dopo questo tardo scritto di Giorgio Bocca (1920-2011), eletto caro amico anche se mai conosciuto di persona, non è solo una lucida cronistoria ed analisi del passato e di quel presente (17 aprile 2009). Gli sviluppi intervenuti nella nostra storia sociopolitica sono da Bocca intravisti e definiti nel titolo (peraltro forse redazionale) e nell'ultima frase del suo articolo. Oggi, 2019, i fascisti sono presenti nel governo della repubblica, in quello di molte regioni; non mancano, anzi sono numerosi ed estroversi, nell'astensione parlamentare e del 
Paese, nell'opposizione (dove se ne constatano comportamenti in settari sedicenti di sinistra), in una impressionante e deleteria miriade di partiti e movimenti, distinti nelle sigle, uniti nel voler riportare la nostra Patria in orbace. La qual cosa, purtroppo, non è improbabile, stanti i dati e le prospettive economiche, nonché il comportmento ignobile della borghesia produttiva incapace di trovare soluzioni, violentemente restia a rischiare investendo in produzione e lavoro i propri capitali.
F.R. (25 aprile 2019)

Appendice del 2 ottobre 2022

Mi sembra opportuna integrazione a questo post del 19 maggio 2019 l'inserzione di questo articolo di Massimo Novelli, pubblicato ne "Il Fatto Quotidiano", diretto da Marco Travaglio.

Più che far piacere, è confortante in questi tempo di "drole de guerre", così simile per certi versi a quella del 1939-1940, leggere questo scritto che ci ricorda Sciascia, Bocca e tempi vissuti con fatica sì, ma da uomini sostanzialmente liberi, tempi però nei quali si può di nuovo rischiare un regime fascistoide (in Ungheria e in Polonia ci sono già!, negli altri paesi

ex sovietici poco ci manca!), probabilmente inizialmente il "regime" sarà ridicolo, all'italiana, poi...

Si ricordi che nel 1922 Mussolini fu eletto con voto (quasi) legittimo, che Gronchi e i Popolari fecero parte del suo governo, così tanti "liberali". Poi un Matteotti o un'affine atrocità non si nega a nessuno. Si ricordi (droni omicidi americani, omicidi sauditi, russi ecc. ecc. Ecc.) quindi e cioè anche Piazza Fontana, l'Italicus, Bologna, Brescia che fecero vacillare la democrazia e certamente la misero in mani sempre meno degne!

mercoledì 8 maggio 2019

Franco Ferrarotti (1926) sull'oggi e i vecchi.

Navigando nel Web, durante la serale esplorazione informativa sugli accadimenti salienti della giornata, mi sono imbattuto in una intervista a Franco Ferrarotti, 92 anni, dimenticato sociologo, noto politicamente grazie all'esperienza olivettiana del Movimento di Comunità. Evidentemente lusingato per l'occasione di uscire da lunga dimenticanza, ha fatto dichiarazioni ovvie – 

come spesso può capitare ai sociologi – ma comunque utili per sviluppare una successiva riflessione approfondita. In merito all'attuale situazione italiana il successore al dimissionario Adriano Olivetti alla Camera dei Deputati (1959) ha dichiarato, a N. Mirenzi per l'”Huffington Post” del 10 marzo 2019, quanto segue:

venerdì 3 maggio 2019

Una Lotta nel suo corso, 5.

Appendice I - Fatti e documenti, pp. 267-318.
Post precedenti:
3 dicembre 2018 – 1. Introduzione; Prefazione; Nota Editoriale; Lotta nel suo corso, pp.3-66.
8 gennaio 2019 – Intermezzo prima parte, pp.67-126.
3 marzo 2019 – Intermezzo seconda parte, pp.127-192.
3 aprile 2019 – Intermezzo terza parte, pp.192-265.

Post successivi in uscita

3 settembre 2019 – 6. Appendice II – Persone, pp.319-356, più biografie di Licia Collobi Ragghianti e Sandrino Contini Bonacossi.