Carlo e Licia

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martedì 31 dicembre 2019

Ragghianti e Luporini Performers.

Con la saccenza dell'ignoranza credo sia tuttora diffusa tra molti critici d'arte contemporanei la convinzione che Ragghianti, al di là dei meriti storici e blah blah blah, non fosse o consapevole o abbastanza comprensivo dei fenomeni artistici d'avanguardia o di nuovo conio. Non sta a me dimostrare il contrario, perché per altro più volte dimostrato da C.L.R. stesso nei suoi studi riguardanti lo spessore storico – quando non addirittura preistorico – alle spalle e alla base di certe manifestazioni creative. Vale a dire che il nucleo fondante di certe avanguardie è antico, e che esse si chiamano così soltanto per auto-attribuzione semantica e ignoranza storiografica.
Altro aspetto importante che tengo a sottolineare – trascurato o ignorato – di mio padre è la vena beffarda, giocosa e gioiosa che talvolta esprimeva. Raramente, purtroppo, date le condizioni “paludate”, pubbliche nelle quali si trovava a vivere per la maggior parte del tempo che non dedicava allo studio e al lavoro storico critico. (Spero di avere il tempo di poter fare un resoconto di alcune manifestazioni cui mi è stato dato di assistere o di averne avuto un resoconto attendibile).
La sottostante fotografia, inedita, scattata da Guido Biffoli all'interno del Tempio Malatestiano di Rimini durante le riprese del critofilm di Ragghianti (1962), risulta un eccezionale documento attestante una performance interpretata da C.L.R. con Eugenio Luporini, spalla autorevole. Entrambi gli esegeti erano consapevoli della “liturgia” che rappresentavano; l'intera troupe e il sottoscritto furono spettatori dapprima sorpresi, quindi divertiti, ammirati e partecipi. Un vero successo, stanti gli applausi scroscianti, sinceri, che seguirono la conclusione della rappresentazione. La performance durò almeno 5 minuti; la “recitazione” fu superba, contenuta ed ironica, solenne, celebrativa. Il motivo scatenante derivò da ricordi giovanili che Eugenio mi esternò accanto al confessionale; 
C.L.R. intervenne e rievocò la propria prima esperienza di chierichetto alle messe mattutine di San Filipo, la chiesa attigua alla casa avita del nonno e degli altri Ragghianti. Si mise quindi – per mostrare a me, non battezzato, e ignaro della prassi cattolica – nella posizione del penitente dicendo a Luporini di indossare la stola e di mimare il confessore. Quindi, senza niente di concordato, R. improvvisò una sorta di linguaggio di borborigmi e di gestualità rituale, cui Eugenio si adeguò immediatamente. A quel punto arrivò Guido Biffoli con la sua macchina Fujita già montata sul treppiede e riuscì a “scattare” (le macchine fotografiche del tempo erano complicate e richiedevano una certa preparazione) prima dello scioglimento di questa “sacra” rappresentazione.
Per mia informazione e per quella di chi non è esperto di questa forma di espressione, modernamente concepita dagli adepti come anti-teatrale nell'accezione tradizionale, trascrivo che “la performance d'artista era tendenzialmente definita in antitesi al teatro” perché trasforma le forme artistiche ortodosse. Non sono convinto di ciò, anzi mi sembra una semplice variante, assai narcisistica per altro. Cito ancora: “l'idea di base era quella di un'esperienza effimera ed autentica sia per il performer che per il pubblico in un evento che non avrebbe potuto essere ripetuto”. Persino ciò non è convincente: anche a teatro ogni volta la stessa scena con la stessa compagnia ecc. ha, contiene ed esprime diversità di toni, di posizioni, di particolari ecc. Inoltre anche le performances vengono fotografate e riprese (e anche vendute), tal quali le forme tradizionali. I dadaisti erano consapevoli dei procedimenti espressivi che intendevano superare. Così come Strehler, ad es., non esprimeva certo – con lo stesso testo – una regia conforme a quella dei tempi di Cecov o nel Misantropo di Molière a quella del Seicento.
F.R. (11 settembre 2019)


sabato 28 dicembre 2019

Arte Moderna in Italia 1915-1935 - Testi dei Critici, 5/II. Fortunato Bellonzi. (MORBIDUCCI, SAETTI).



Post Precedenti:

1. RAFFAELE MONTI ( I ) - 16 giugno 2018
2. IDA CARDELLINI (LORENZO VIANI) - 28  settembre 2018 
3. UMBRO APOLLONIO (NATHAN, BIROLLI) - 19 settembre 2019
4. MARCELLO AZZOLINI (GUERRINI, CHIARINI, VESPIGNANI). 6 ottobre 2019
5/I. FORTUNATO BELLONZI (BOCCHI, D'ANTINO). 12 novembre 2019

martedì 24 dicembre 2019

Mario Luzi e Venturino Venturi in "Critica d'Arte", e complementi.

Venturino Venturi (1918-2002) a causa della mentalità retriva pre-Basaglia imperante nella medicina delle malattie mentali fino (e talvolta oltre) gli anni Cinquanta, fu ricoverato – per quello che non era altro che un forte esaurimento nervoso – in manicomio. Ero ancora ragazzetto ma ricordo benissimo che sorse e si sviluppò decisa una campagna articolata perché lo scultore fosse curato diversamente e dimesso subito. Mio padre, che già conosceva ed apprezzava Venturino, si adoperò per questa causa di cui parlavano spesso Alfredo Righi, Pier Carlo Santini ed altri abituali frequentatori dello Studio Italiano di Storia dell'Arte in Palazzo Strozzi. Mi colpì soprattutto le veemenza indignata ed attiva con cui si batteva pro Venturino l'allor giovane Ida Cardellini (assistente di mio padre fin dal suo accesso alla cattedra di Pisa del 1° gennaio 1949) che generosamente smosse “mari e monti” per questa causa umanitaria.
Comunque, anche grazie alla contiguità con Emilio Greco nella creazione di quel mirifico parco di Villa Garzoni a Collodi, Venturino da allora fu una presenza costante per la mia attenzione all'ambiente artistico fiorentino e limitrofo, come l'appartata Loro Ciuffenna dove l'artista viveva ed operava.
Carlo L. Ragghianti ebbe da quel tempo sempre cordiali rapporti con Venturino, come in questo blog si può verificare nel fascicolo di “SeleArte” (IV s., n.4, autunno 1989, pp.33-44) che fu postato il 19 dicembre 2016.
Non so perché ma fino al 1968 non conoscevo Mario Luzi, salvo accenni di mia madre circa la sua poesia, i soliti pettegolezzi sull'aspirazione al Nobel da parte dello scrittore, il fatto che fosse – bontà sua – stato “aio” di Enrico Guaita (Gnagna nei nostri anni universitari), nipote della indomita Maria Luigia. Però fui io a curare e impaginare il fascicolo di “Critica d'Arte” (n.96, giugno 1968, pp. 13-18) dove pubblicammo il saggio di Mario Luzi, la cui lettura confermò, confortò e sviluppò le mie confuse osservazioni sulla grandezza di Venturino.
Vent'anni dopo – trent'anni fa – lo scritto intitolato Venturino Venturi negli anni '60 Mario Luzi consegnò in Redazione un nuovo intervento sul grande scultore di Loro Ciuffenna, che di nuovo io impaginai e curai. Questo saggio fu stampato, col suggestivo titolo L'arte e la vita, Venturino Venturi, in “Critica d'Arte” (IV s., n.20, apr.-giu. 1989, pp.75-80) la quale riprendeva la pubblicazione – con formato più grande – dopo la morte del fondatore e Direttore Carlo L. Ragghianti (3 agosto 1987).
Di questa IV serie fui il Responsabile e il Redattore Capo, dato che altri stavano annusando il vento cercando il loro ubi consistam, senza volersi ancora esporre o schiarare nell'Università Internazionale dell'Arte e presso l'editore Panini.
Nel ventennale intervallo tra le due pubblicazioni, ebbi l'onore di conoscere un po' più che con il banale “buongiorno, come sta?” Mario Luzi, una persona veramente colta e dedita alla tramitazione del sapere soprattutto nei confronti dei giovani. Egli era, infatti, un professore per vocazione ma soprattutto un poeta di impostazione classica.
Grazie a Piero Pananti ebbi poi l'opportunità di andare a trovare diverse volte il Maestro Venturi nel suo studio suggestivo di Loro Ciuffenna. Debbo riconoscere e in un certo senso confessare (perché esprimere determinati propri sentimenti equivale a svelare aspetti della propria interiorità) che avevo la sensazione di fronte a Venturino di essere un astante ammesso alla consuetudine di vita e spiritualità di un sant'uomo, di un guru. Venturino lavorava (e insieme anche parlava pacato, quasi ispirato) con gesti antichi, rituali ed evocativi. In un certo senso mi sentivo come un familiare di un apostolo ammesso alla presenza di un profeta. Tornavo a Firenze veramente rasserenato, anche se non sapevo esattamente di cosa e per cosa.
Sempre grazie al caro e prezioso amico Piero Pananti – che per Venturino oltre a grande stima ed ammirazione aveva una sorta di pietas filiale marcata ma gentile, com'è nella sua natura – debbo a fine degli anni Novanta aver avuto una lastrina incisa dall'artista, destinata a illustrare e impreziosire un fascicolo del domestico “SeleArte” (IV serie, 1988-1999).

Purtroppo il trasloco delle nostre biblioteche e del mio Archivio da Firenze a Vicchio alla fine del 1999/inizi 2000 – congiunto a una certa ristrettezza pecuniaria derivante dall'acquisto per contanti della nuova casa contenitrice delle carte, nonché la rottura della stampante (costosa!) - mi costrinsero a sospendere la pubblicazione di “SeleArte”. Non escludo a posteriori che nel subcosciente agisse a pro della cessazione del periodico – più che il riscontro dello scarso interesse suscitato nei selezionati ricevitori – soprattutto l'incongruenza del rapporto tra risultato e fatica di progettarlo prima e realizzarlo poi personalmente e manualmente, cioè comporre i testi e realizzare le illustrazioni b/n al tratto, impaginare, stampare, foglio per foglio e confezionare con punti metallici, imbustare, indirizzare, affrancare e portarlo alle PP.TT. Per la distribuzione (il tutto gratis!).

La lastrina di Venturino nel frattempo era stata stampata (non ricordo se da Rodolfo Ceccotti o da un artigiano operante per Guido Pinzani) e le copie firmate dall'autore nella consueta tiratura (1-100 + I-X).
Dato che si trattava di un dono per la mia rivista, era assolutamente da escludere ogni tipo di cessione contro denaro, né un uso improprio. La tiratura, quindi, restò per qualche tempo in beato letargo.
Quando Rosetta ed io venimmo a Vicchio a vedere per la prima volta quella che sarebbe stata la sede delle nostre dimore, ci trovammo di fronte ad uno “scheletro” da tetto a ipogeo, con completate soltanto le fondamenta e i piani intermedi, senza finiture e con gli impianti da inserire. Siccome, per le tresche tra quei … di agenti immobiliari e derivato sottobosco, non saremmo stati risarciti della vendita di Villa La Costa (in senso proprio; così l'aveva “battezzata” C.L.R., in un raro – e incompreso – lampo di umorismo) fino alla sua consegna agli acquirenti totalmente svuotata e con le loro divisioni murarie già realizzate, non avevamo la disponibilità necessaria per acquistare o prendere impegni immediati per la nuova casa. I venditori di Vicchio volevano essere pagati a rate, sì, ma da subito e fummo costretti a fare i salti mortali per conciliare quelle esigenze tanto divergenti.
Al di là della parte “soldi”, dovemmo provvedere, aiutati dai cari amici Gasparrini ed altri, a trovare fornitori e maestranze che costruissero l'abitabilità della struttura, ecc. Dovetti, per consentire i lavori, trovare due magazzini nei quali parcheggiare libri, archivi, mobili e quant'altro fino alla conclusione della mattonellatura e delle finestrature. Non furono certo tutte rose e fiori, né tutti i fornitori furono professionalmente irreprensibili e competenti senza bisogno di assillanti controlli. Però ce la facemmo senza debiti o altre inadempienze.
Alla fine di tutte queste traversie mi sentii in debito verso tante persone nei confronti delle quali non sapevo come sdebitarmi e manifestare gratitudine, almeno simbolicamente. Fu così che mi venne in mente la tiratura dell'incisione di Venturino come oggetto-ricordo tangibile della realizzazione di una “casa Ragghianti”, per contenuti continuazione delle nostre peculiarità famigliari.
Previo consenso dell'autore, che trovò degno lo scopo sostitutivo, Leonardo Baglioni realizzò una “copertina” (con titolo a p.1; a p.2 un mio sonetto “mi figue, mi rasin”, per dirla alla francese) contenente un esemplare della figura attonita ma benevolmente benedicente l'umanità (buoni e cattivi) realizzata da Venturino. Naturalmente consegnai anche ai “collaboratori” insoddisfacenti l'incisione, ammonendoli che eravamo consci del loro cattivo servizio negli ultimi versi della proesia.
Nel 2001 Venturino Venturi ci lasciò – m'auguro serenamente – addolorati però consci dell'onore di averlo conosciuto e frequentato, convinti anche che il suo “genio” è di quelli che sfidano i secoli.

F.R. (28 ottobre 2019)


sabato 21 dicembre 2019

Arte del Gandhara, 4.

Questo è il quarto contributo che riguarda la civiltà originale che ha espresso l'affascinante, e in certi casi problematica, scultura diffusa – a seguito del contatto con i greci di Alessandro il Macedone – tra Afghanistan, India settentrionale e zone limitrofe. La recensione è stata
scritta da Licia Collobi e proviene dal fascicolo n.40 di “SeleArte” (mar.-apr. 1959). Si ricordano i tre precedenti interventi postati il 9 febbraio 2018, il 30 agosto 2018 e il 17 dicembre 2018.
F.R.

mercoledì 18 dicembre 2019

Arnold Hauser r.i.p.

Ungherese per nascita, in Gran Bretagna dal 1938, il sociologo di cultura germanica con derivazioni dalla dottrina leninista di György Lukács, Arnold Hauser (1892-1978) si dichiarava storico dell'arte. Disciplina della quale, però, considerava e analizzava i fenomeni praticamente soltanto in relazione al loro contesto sociale e storico. Cioè parlava d'altro. Cieco alla visione, negava l'autonomia dell'arte perché la reputava costituita da fattori materiali, esprimendo anche altre derivazioni di storiografia sociologica da considerarsi, più che originali, improprie nei confronti delle arti figurative.
Nel recente nostro post riguardante Anna Bovero (di prossima postazione) traduttrice in italiano della Storia sociale dell'arte (“veleni” Einaudi, 1955) dello Hauser si è accennato al fatto che l'opera nefasta di questo scrittore infastidiva Carlo L. 
Ragghianti non solo e non tanto a causa “scemenze sostenute quanto per il dirompente danno irreversibile alla comprensione dell'arte da parte dei suoi lettori”.
Per chiarezza e filologia riportiamo a seguire gli unici due scritti di C.L.R. che furono pubblicati riguardo ad Hauser su “SeleArte”. Certamente dal vaglio della sua corrispondenza risulteranno altre osservazioni e considerazioni, così come dai libri, da articoli e altre pubblicazioni. Comunque i due interventi riproposti è bene che siano vivificati nuovamente perché i veleni positivisti e materialisti sono tuttora in circolazione con potenziali diffusioni, così come tutte le approssimazioni semplificatorie e unidirezionali che insidiano i complessi, faticosi percorsi culturali cui costringe la comprensione delle arti figurative.

F.R. (29 ottobre 2019)

domenica 15 dicembre 2019

Alois Riegl: Arte tardoromana, 3 (II).


Post precedenti

1. 24 settembre 2019 - Indice generale; Elenco illustrazioni (p. XI); Notizia Critica (p. XVII); L'opera storica di Alois Riegl (p. XXXI).
2. 24 ottobre 2019 - L'architettura (p.25).
3. 24 novembre 2019 - La scultura, I. (p.73).

lunedì 9 dicembre 2019

Don Milani Comparetti. Testimonianza di Dino Pieraccioni e dipinti.


Doverosa premessa: non ho visto la luce. Laico sono e rimango. Lo dico perché è un po' eccentrico l'essermi occupato in un breve arco di tempo di due sacerdoti cattolici dei quali si è ventilata la beatificazione. Si tratta di coincidenza casuale che riguarda i due religiosi da punti di vista estranei alla loro teologia. D'altro canto in questo paese tra la gente i preti sono stati e sempre sono numerosi. Oggidì però vedo che quelli giovani sono molto spesso africani.
Devo anche giustificare la presenza del cognome Comparetti unito – per Regio Decreto – a quello Milani. Ci tengo personalmente per due motivi. Il primo, di carattere generale, è che Domenico Comparetti (1835-1927) è stato un grande storico, filologo, epigrafista ecc., che ha onorato la cultura, cioè l'aspetto più elevato dell'esistenza della specie. Il secondo motivo deriva dall'avere io studiato – sia pure per sondaggi alternati a lettura approfondita – il suo capolavoro, Virgilio nel Medioevo, due corposi volumi coinvolgenti ed illuminanti sulla cultura del mondo occidentale da Augusto a Dante Alighieri. Fu anche grazie a questa esperienza che Giovanni Pugliese Carratelli mi dette 30 all'esame di Storia Romana, nonostante la mia non sufficiente padronanza della lingua latina e che Giovanni Ferrara Salute, fuori dall'aula, complimentandosi mi disse: 

“ Buon sangue non mente”. 
Dopo questo diffuso preambolo occorre una spiegazione sul perché diffondere tramite questo post un ennesimo riferimento di modesta incidenza per la notorietà del Priore di Barbiana. Stimolato da una ricerca sulla riforma della scuola negli anni Sessanta, rammento l'aio per i miei esami di maturità Dino Pieraccioni riscontrando nel suo libro del 1979 Incontri del mio tempo (direi semiclandestino – al di fuori dello specialismo - data la marginalità dell'editore Spes di Milazzo) uno scritto del 1974 su Don Milani (pp. 159-164). Ho pensato, quindi, che riproponendo questo breve saggio avrei potuto rendere un piccolo omaggio all'uomo di vasta e profonda cultura che si degnò di aiutare un “disperato” privatista con tre anni di programmi, e contemporaneamente ricordare un grand'uomo che ha onorato la cittadina dove risiedo – Vicchio di Mugello – con non minore risonanza di Giotto e di Beato Angelico, giganti delle arti figurative.
C'è poi ancora un motivo che mi ha convinto a organizzare questo post: l'incidenza e coincidenza di fatti riguardanti direttamente e indirettamente le due famiglie, quella dei Milani Comparetti e quella di Carlo L. Ragghianti e di Licia Collobi.

martedì 3 dicembre 2019

Fanno perdere la pazienza.

Questo post, dato l'argomento, si collega al precedente Un gesto incivile (postato il 28 dicembre 2017), al quale in questi giorni ho aggiunto una Appendice, con una corrispondenza tra Mauro Cappelletti, che informa dell'avvenuta pubblicazione del testo ingiurioso su “Paragone”, e l'inconsapevole Carlo L. Ragghianti che gli risponde.
La nota congrega, dopo lo sbugiardamento e l'ammissione delle loro affermazioni calunniose, tentò di ottenere una rivincita ingigantendo un ordinario infortunio attribuzionistico. Difatti l'anno successivo C.L.R. 
fu di nuovo vilipeso sul medesimo organo di stampa e, quindi, costretto a vergare le sdegnate pagine che pubblicò nella “Critica d'Arte” (fasc. n.96, giugno 1968, pp.3-5) e che riproduco qui sotto. Anche in questo caso allego una corrispondenza, indice del riscontro tra i lettori della nostra rivista. Ettore Camesasca l'11 settembre 1968, infatti, deplora l'accaduto; Ragghianti specifica il 16 ottobre 1968 il perché della propria intransigenza nei riguardi di certi casi di “professionismo” sulle opere d'arte.
F.R. (1 agosto 2019)