Con
la saccenza dell'ignoranza credo sia tuttora diffusa tra molti
critici d'arte contemporanei la convinzione che Ragghianti, al di là
dei meriti storici e blah blah blah, non fosse o consapevole o
abbastanza comprensivo dei fenomeni artistici d'avanguardia o di
nuovo conio. Non sta a me dimostrare il contrario, perché per altro
più volte dimostrato da C.L.R. stesso nei suoi studi riguardanti lo
spessore storico – quando non addirittura preistorico – alle
spalle e alla base di certe manifestazioni creative. Vale a dire che
il nucleo fondante di certe avanguardie è antico, e che esse si
chiamano così soltanto per auto-attribuzione semantica e ignoranza
storiografica.
Altro
aspetto importante che tengo a sottolineare – trascurato o ignorato
– di mio padre è la vena beffarda, giocosa e gioiosa che talvolta
esprimeva. Raramente, purtroppo, date le condizioni “paludate”,
pubbliche nelle quali si trovava a vivere per la maggior parte del
tempo che non dedicava allo studio e al lavoro storico critico.
(Spero di avere il tempo di poter fare un resoconto di alcune
manifestazioni cui mi è stato dato di assistere o di averne avuto un
resoconto attendibile).
La
sottostante fotografia, inedita, scattata da Guido Biffoli
all'interno del Tempio Malatestiano di Rimini durante le riprese del
critofilm di Ragghianti (1962), risulta un eccezionale documento
attestante una performance interpretata da C.L.R. con Eugenio
Luporini, spalla autorevole. Entrambi gli esegeti erano consapevoli
della “liturgia” che rappresentavano; l'intera troupe e il
sottoscritto furono spettatori dapprima sorpresi, quindi divertiti,
ammirati e partecipi. Un vero successo, stanti gli applausi
scroscianti, sinceri, che seguirono la conclusione della
rappresentazione. La performance durò almeno 5 minuti; la
“recitazione” fu superba, contenuta ed ironica, solenne,
celebrativa. Il motivo scatenante derivò da ricordi giovanili che Eugenio mi esternò accanto al confessionale;
C.L.R. intervenne e rievocò la propria prima
esperienza di chierichetto alle messe mattutine di San Filipo, la
chiesa attigua alla casa avita del nonno e degli altri Ragghianti. Si
mise quindi – per mostrare a me, non battezzato, e ignaro della
prassi cattolica – nella posizione del penitente dicendo a Luporini
di indossare la stola e di mimare il confessore. Quindi, senza niente
di concordato, R. improvvisò una sorta di linguaggio di borborigmi e
di gestualità rituale, cui Eugenio si adeguò immediatamente. A quel
punto arrivò Guido Biffoli con la sua macchina Fujita già montata
sul treppiede e riuscì a “scattare” (le macchine fotografiche
del tempo erano complicate e richiedevano una certa preparazione)
prima dello scioglimento di questa “sacra” rappresentazione.
Per
mia informazione e per quella di chi non è esperto di questa forma
di espressione, modernamente concepita dagli adepti come
anti-teatrale nell'accezione tradizionale, trascrivo che “la
performance
d'artista era tendenzialmente definita in antitesi al teatro”
perché trasforma le forme artistiche ortodosse. Non sono convinto di
ciò, anzi mi sembra una semplice variante, assai narcisistica per
altro. Cito ancora: “l'idea di base era quella di un'esperienza
effimera ed autentica sia per il performer che per il pubblico in un
evento che non avrebbe potuto essere ripetuto”. Persino ciò non è
convincente: anche a teatro ogni volta la stessa scena con la stessa
compagnia ecc. ha, contiene ed esprime diversità di toni, di
posizioni, di particolari ecc. Inoltre anche le performances
vengono fotografate e riprese (e anche vendute), tal quali le forme
tradizionali. I dadaisti erano consapevoli dei procedimenti
espressivi che intendevano superare. Così come Strehler, ad es., non
esprimeva certo – con lo stesso testo – una regia conforme a
quella dei tempi di Cecov o nel Misantropo di Molière a
quella del Seicento.
F.R.
(11 settembre 2019)
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