Carlo e Licia

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mercoledì 26 luglio 2017

GIOTTO 2017 (1)

Presentazione del volume di Licia Collobi Ragghianti e Appendice vicchiese.


Non certa e soltanto convenzionale, la data di nascita attribuita a Giotto (1267) viene accettata se non altro per poter celebrare centenari e, come in questo anno, settecentocinquanta genetliaci da utilizzare come pretesti per onoranze ed iniziative culturali relazionabili al Maestro mugellano.
Nel nostro blog contribuiamo a queste celebrazioni giottesche inizialmente con due post, il cui contenuto è esposto di seguito a questo articolo. Nel proseguimento dell'anno "giottesco" pubblicheremo anche gli interventi di C. L. Ragghianti, che risulteranno riuniti per la prima volta.
Perciò il Comune di Vicchio – luogo dove chi scrive s'è spiaggiato una ventina d'anni fa – sta predisponendo festeggiamenti essenzialmente turistici. Apprendo, e quindi aggiungo, che almeno un importante avvenimento culturale avverrà nella città natale di Giotto: il notissimo dipinto con la Madonna in Maestà, proveniente dalla Chiesa fiorentina di S. Giorgio alla Costa (vedi p. 14 e fig. 13 della monografia) sarà esposto al Museo Beato Angelico di Vicchio. La prestigiosa opera sarà visibile per tutta l'estate.
Per quel che ci riguarda, in maniera del tutto indipendente, ricorderemo il sommo (sì, penso che per Giotto si possa usare questo aggettivo) artista all'origine del “rinascimento” post-medievale con la pubblicazione di “questo breve, ma rigoroso saggio”, scritto da Licia Collobi Ragghianti nel 1987, che fu apprezzato anche da Federico Zeri. Per di più, con la postazione di questo studio oggi, cogliamo anche l'opportunità di omaggiare la memoria dell'autrice, nostra madre, che morì proprio il 27 Luglio di or sono ventotto anni.
Editiamo volentieri e convintamente questo Giotto perché certi di rendere un servizio culturale di alta gamma, nonostante il certo rammarico per il disinteresse ostentato dalle recenti Amministrazioni comunali di Vicchio nei confronti del libro e della sua concomitante ed eccellente iniziativa giottesca – attuata dal 1986 al 1990 – dal Sindaco Ubaldo Salimbeni e dal suo assessore alla Cultura Adriano Gasparrini. L'Operazione Giotto, oltre alla monografia sul Maestro, comprendeva un percorso espositivo di pannelli con riproduzioni di opere in grande formato, situato all'interno della fin'allora negletta “casa” di Giotto sul colle di Vespignano, amena frazione del Comune di Vicchio, vigilante la strada per Borgo San Lorenzo. Concludeva il progetto imponente (per una località come Vicchio, impegnativo davvero) la costruzione di un Museo in un edificio (destinato anche a Biblioteca e sito di fronte al “moderno” complesso del Polo scolastico) che avrebbe contenuto la numericamente modesta ma qualificata raccolta di opere rinvenute nel territorio e fino ad allora conservate in Municipio. Il fabbricato, un ex-magazzino di granaglie da poco tempo acquistato dall'Amministrazione comunale, necessitava di notevoli interventi di riqualificazione architettonica sia all'esterno che all'interno, nonché di design originale per gli arredi ed i percorsi. Oggi nemmeno l'agile ed elegante volumetto che descriveva il progetto museale sarà ristampato (benché da tempo esaurito) cosicché turisti e giovani intellettualmente curiosi non potranno avvalersi di un'altra fonte soddisfacente ed economica.
Tornando al Giotto di Licia Collobi R. in questa riproposta con altro medium 
abbiamo fatto seguire a ciascun capitolo le illustrazioni ad esso relative, a differenza del libro dove le tavole (pp. 44-95) erano tutte pubblicate dopo il testo (pp. 9-42). Abbiamo invece lasciato invariata la Premessa (pp. 7,8) del libro, che salvo l'ultimo paragrafo, illustrava quanto realizzato complessivamente nel 1987, di modo che per l'odierno lettore saranno comunque noti i contenuti originali prodotti dalla Giunta Salimbeni, tramite l'attività di una equipe valida ed affiatata espressa dall'Università Internazionale dell'Arte, comprendente il compianto graphic designer Leonardo Baglioni, il designer Nilo Gioacchini e l'architetto Pasquale Arturo Gabbaria Mistrangelo.
Per ciò che riguarda la Casa di Giotto a Vespignano e il Museo Beato Angelico di Vicchio, invece, nel tempo si sono succeduti, con “frenesia” dapprima, con incuria poi, fenomeni in cui le Amministrazioni comunali (per altro di orientamento affine) succedute a Salimbeni si sono distinte – manco fossero barbari scatenati nella cancellazione culturale del popolo assoggettato – come zelanti incompetenti nel cancellare ogni traccia degli originali progetti coordinati al libro. Per di più costoro hanno anche distrutto l'allestimento museale “in progress” ideato per il nuovo Museo Comunale di Vicchio dall'Architetto Gabbaria Mistrangelo, sostituendolo con un insulso percorso caratterizzato da contenuto disomogenei forniti in comodato dalla Curia fiorentina. Inoltre parrebbe, stanti reticenze a dare chiarimenti al riguardo, che prendendo spunto da lavori di restauro dell'edificio del Museo, si intenda intervenire sull'aspetto esterno del Museo Beato Angelico, modificando quanto realizzato secondo il pregevole progetto dell'allievo ligure di Edoardo Detti e noto cultore wrightiano. Se ciò corrisponde al vero, speriamo almeno che la Soprintendenza respinga le varianti, che trasformerebbero una architettura in una geometrostruttura.
Comunque, per lasciare anche su Internet un ricordo documentato di quanto fu realizzato con impegno e dedizione nel 1986-90 per qualificare la Casa di Giotto a Vespignano e l'arredo urbano di Vicchio (deturpata dalla distruzione nazista delle parte di cinta muraria e nel dopoguerra da tanta inarrestabile e incontrollata vis aedificandi di edilizia in genere amorfa e stilisticamente beota), pubblichiamo in Appendice un estratto dell'opuscolo che illustrò nel 1990 questa iniziativa museale. Riproponiamo anche due pagine di “Critica d'Arte” (IV serie, n. 16, gen-mar. 1988, pp. 99-100) nelle quali fu recensita l'esposizione giottesca, che avrebbe dovuto essere permanente. Abbiamo recensito in un post di Rosetta Ragghianti, l'eccellente e recentissima monografia sull'opera dell'Architetto Arturo P. Gabbaria Mistrangelo, dalla quale estrapoliamo le pp. 284-288, riguardanti il Museo Beato Angelico di Vicchio.
Illustriamo, aggiunto all'ultima pagina dello studio di Licia Collobi Ragghianti, infine, il dipinto giovanile di Giotto conservato nella Pieve di Borgo San Lorenzo, l'unica opera presente in Mugello e considerata dalla critica recente autografa del Maestro. Questa Madonna con il Bambino (c. 1285-90), tempera su tavola, frammento di una Maestà della Vergine, è poco nota e ancor meno illustrata anche in monografie lussuose e con ricchi apparati illustrativi.
F.R.

sabato 15 luglio 2017

{glossario} RESPONSABILITA'


La responsabilità, ed intendendo la responsabilità nel senso più ampio e più profondo della parola, quindi “la responsabilità per il mondo”, è una delle caratteristiche umane più interessanti e al contempo più misteriose. Tutti sappiamo cosa significa questa parola e nessuno sa da dove proviene. La responsabilità non è una caratteristica qualunque tra le caratteristiche umane. La psicologia o le altre scienze non sono sufficienti in questo campo. Essa infatti li eccede, non si riferisce solo al nostro ambiente circostante, non è quindi un mero riguardo a cosa penserà la gente.
Ma è fatalmente legata a ciò che è “oltre” ogni “oltre”: all'assoluto, all'intera memoria dell'esistenza, all'ultimo e supremo giudizio, al senso di tutto ciò che esiste. La sola cosa importante per la nostra responsabilità è quale traccia lasceremo. Tutto il resto è superfluo.
Quando ero in carcere e molti mi chiedevano perché mi ci trovavo, quando bastava così poco per non esserci, ho riflettuto molto sulla responsabilità e le ho dedicato molta attenzione nelle mie lettere a casa. Finalmente di ritorno, ho scritto un saggio intitolato Responsabilità come destino. […]  




Cosa posso aggiungere oggi all'idea che la responsabilità per il mondo è semplicemente un pezzo del destino umano, indifferentemente da come ognuno di noi la percepisce o la assume?Mi sento tuttavia di aggiungere e sottolineare altre due cose.
In primo luogo: esiste un confine molto labile tra forzata responsabilità per il mondo e ossessione. E talvolta, molte volte troppo tardi, l'ammirazione per l'immensa volontà altruistica di aiutare il mondo si trasforma nell'orrore di uno strano bagliore che spunta dagli occhi dell'ammirato. E' l'orrore delle catastrofi, ove il bisogno dell'ossessionato di compiere il bene può far precipitare l'umanità alla luce di ciò che lui stesso intravede in questa parola, “modellare” il mondo.
In secondo luogo: come evitare che un ammirabile altruista diventi uno spaventoso maniaco? C'è un solo modo: la leggerezza. Quanto più gli obiettivi che persegue l'uomo sono impegnativi, tanto più dovrebbero essere visti da una prospettiva più alta. L'uomo dovrebbe essere in grado di percepire le dimensioni grottesche delle proprie azioni, saperci riflettere e valutare con distacco, ironia, scetticismo, con la consapevolezza di fondo, che comunque tutto è assurdo. Il mondo deride sempre gli eroi, gli idealisti, i sognatori, gli operatori umanitari o gli attivisti sindacali (termine orribile). L'importante è che sotto tale pressione essi stessi non diventino troppo seri, non comincino a commuoversi per l'ingratitudine del mondo, per la loro difficile sorte e, di conseguenza, a rinchiudersi in se stessi, tra se stessi, ad imprigionarsi nella sensazione di un'eccezionalità incompresa e a scivolare così dal mondo degli altruisti al pericoloso mondo dei maniaci.
Credo semplicemente che gli altruisti, avvertendo la responsabilità per tutto il mondo e gettandosi ripetutamente, accompagnati dalle beffe, nelle proprie avventure donchisciottesche, nell'interesse proprio e in quello generale, dovrebbero saper ridere di se stessi. D'altronde, quando l'ironia del deridente viene confrontata con quella del deriso, spesso dal volto si spegne il sorriso per lasciar posto alla smorfia. 
                                              Vàclav Havel

Questo testo, esemplare, dell'eroico oppositore alla dittatura sovietizzante esercitata in nome del popolo sui popoli ceco e slovacco, è tratto da un più ampio saggio comparso nelle pagine culturali de “La Repubblica” quasi dieci anni fa (13 novembre 2007). Mentre noi lo abbiamo letto, ritagliato e conservato, ci sembra che invece coloro cui principalmente era 

lunedì 10 luglio 2017

Arte e realtà / e i compiti del critico (Borgonzoni 1)

Nel fascicolo n. 20 di “SeleArte”, IV serie, pp. 83-86 (1994) è riportata, oltre al primo paragrafo, la parte finale – cioè le pp. 25-34 – del secondo saggio che Carlo L. Ragghianti scrisse sul pittore bolognese e che fu pubblicato nella monografia Aldo Borgonzoni, Grafis Edizioni, Bologna 1986. Le pagine iniziali (7-25) di quel bel volume sull'artista sono comunque importanti perché Ragghianti partendo da Borgonzoni traccia un profilo critico della pittura italiana dal Dopoguerra agli anni Sessanta, costituendo anche una continuità ideale con gli studi pubblicati nel 1982 da Calderini col titolo Bologna cruciale 1914. Con lo stesso titolo era stato pubblicato un fascicolo speciale n. 106/107 di “Critica d'Arte” (1969) contenente il nucleo centrale dell'omonimo libro. A questa prima parte della monografia su Borgonzoni (cioè le citate p. 7-25) dedicheremo prossimamente un altro post. Nello stesso fascicolo n. 20 della nostra rivista a p. 93, Fortunato Bellonzi – in una recensione del 1962 – rileva che Ragghianti “in una precisa e preziosa 'testimonianza' per Borgonzoni ha posto ancora una volta in rilievo come la figurazione non sia divenuta antistorica e come gli artisti di oggi possano dunque (similmente a quanto fa Borgonzoni)  continuare tranquillamente ad essere figurativi, senza la paura di 
trovarsi, in tal modo, fuori del proprio tempo”. E questo testo (proveniente da “Critica d'Arte”, n. 57-58, 1963) rappresenta la prima riflessione sull'opera pittorico di Borgonzoni, considerata nell'ambito della problematica ed accesa conflittualità tra figurativo ed astratto, tra “realismo” e la recente tendenza in espansione sostenuta da certi interessi critici ed economici. Questa lettera metodologica è, poi, importante perché, in maniera incisiva e ferma, Ragghianti delinea i compiti propri del critico, d'arte nella fattispecie. Segue nel post la missiva con cui Borgonzoni ringrazia per questa “lettera-prefazione” dedicatagli dallo studioso lucchese.

P.S. Devo aggiungere che, nella mia non beata ignoranza, non m'ero accorto che questo scritto è stato pubblicato con lo stesso titolo anche nel 1979 nel volume Arti della visione III. Il linguaggio artistico, Einaudi editore, Torino, pp. 163-166. Lo studio di Ragghianti in questa sede non contiene il 1° paragrafo di quello sopra riportato ed ha, negli ultimi due paragrafi, qualche mutamento ininfluente.
F.R.

lunedì 3 luglio 2017

Fernando Farulli e i Ragghianti

Da più di diciotto anni, ogni mattina scendendo le scale che dalla camera da letto portano allo studio, il mio sguardo è catturato e saturato dall'inquietante e drammatica “Natura Morta Algerina” (1962); ogni sera salendo le stesse scale per andare a dormire il mio sguardo è catturato e saturato dall'imponente e straordinaria “Natura morta con sedia” (1964). Sono due capolavori del pittore Fernando Farulli, che non ho dubbi nel considerare le due più belle opere sue tra quelle guardate di persona e tra quelle viste in riproduzione. Questa privilegiata consuetudine mi ha indotto a scegliere adesso Farulli per la serie di rievocazioni che postiamo nel nostro blog “Ragghianti e Collobi”, la cui sequenza è in parte volutamente asistematica. Preparando i materiali da utilizzare, scopro che all'inizio di febbraio è ricorso il ventesimo dalla morte di questo artista che, stante il divario di età, non posso definire un amico, però posso considerarlo una gradita e significativa presenza nella mia infanzia e dall'adolescenza alla gioventù. Nel dopoguerra, come diversi altri artisti, Farulli ebbe lo studio nelle “soffitte” di Palazzo Strozzi, di conseguenza la sua presenza nei locali del sottostante Studio Italiano di Storia dell'Arte prima poi de “La Strozzina” per incontrare amici come Righi, Santini, Federici, Forti, Savanuzzi, Parronchi, nonché talvolta Carlo L. Ragghianti era frequente. Così altrettanto frequente era la mia presenza per cui (oltre andare ad incontrare il babbo, o al 
Vieusseux per prendere libri da leggere o perché, in giro per la città, non avevo voglia di tornare a casa) mi trovavo spesso e volentieri ad assistere alle vivaci discussioni tra quei giovani intellettuali e Farulli o altri loro amici artisti. Grazie all'ineffabile Alfredo Righi, segretario di Ragghianti dal 1946 al 1954, quando egli andò ad Ivrea a fare il funzionario del Movimento di Comunità di Adriano Olivetti, ricordo almeno due circostanze piuttosto curiose circa i miei rapporti con Farulli. Allora Righi abitava con la madre ed il di lei bonario compagno di cui mi sfugge il nome, all'inizio di Borgo S. Jacopo sulla sinistra, subito dopo l'edificio della scuola magistrale Capponi, all'ultimo piano di una casa al cui piano terreno c'era una spelonca (già deposito di carbone?) adibita a trattoria, sudicia e specializzata in cibi plebei quali salsicce con fagioli, che però frequentai – poco – da studente universitario. La vista dall'altana di quell'abitazione praticamente affacciata sull'Arno era, come oggi si dice abusandone, davvero “mozzafiato”. Lì Alfredo organizzò una burla ai danni della nonna materna un po' “tocca”, molto petulante e furba come una faina, la quale si comportava altezzosamente con i familiare perché era stata a servizio (e non solo quello, mi parve di capire) di un noto principe siculo. Lo scherzo consisteva nel gabellare un “attore” fatto passare per principe toscano omaggiato dalla famiglia – così nobilitata – e dai suoi amici più fidati ed “illustri”.