Carlo e Licia

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sabato 28 novembre 2020

Vignettisti, 1. TREZ.

 

Dopo un po' meno di un quarantennio rinvengo la riproduzione di una pubblicità disegnata da un vignettista francese, che ho seguito per anni, soprattutto su “Paris Match”, rivista popolare e pretenziosa molto illustrata. Mio padre la faceva acquistare insieme a “L'Express”, “Le Nouvel Observateur”, “Time”, Newsweek”. I mensili e le altre riviste di cultura arrivavano in ufficio in cambio di “seleArte” e della “Critica d'Arte”.

Questa vignetta – riprodotta qui a lato – nella quale il presidente della Repubblica francese François Mitterand, cieco, sta precipitando nel vuoto, mi sembra oggi appropriata per sintetizzare il momento presente dell'umanità in questo povero pianeta, del quale siamo ospiti devastatori.

Siccome poi, considerando anche l'età, non riscontro molte soddisfazioni dalla vita, nella quale tende a prevalere tristezza e sconforto, mi illudo che – rivedendo e proponendo alcune pagine di questo autentico artista dall' humour pungente – io ed altri possano recuperare una parentesi di sorriso e di distensione. Se poi questo esperimento si rivelerà positivo, penso di replicarlo con la documentazione di altri maestri del vignettismo umoristico.

Trez (Alain Trez) nato nel 1926 è un disegnatore umoristico e pittore francese. E' stato un ragazzo prodigio (esame di maturità a 15 anni) con precoci studi di legge all' “Institut d'études politiques” di Parigi. Pittore autodidatta ha sempe dipinto, nonostante l'impegno come cartoonist in giornali e 


riviste francesi e straniere (“Paris Match”, “lui”, “Punch”, “Life”; per “France Soir” è stato disegnatore politico dal 1973  al 2000). Con la collaborazione della moglie Denise, in USA ha pubblicato quattordici libri illustrati per ragazzi. Trez si è anche occupato di pubblicità, creando manifesti e cartoni animati.

F.R. (25 settembre 2020)

martedì 24 novembre 2020

Francesco Burlamacchi: primo martire dell'Unità d'Italia.

Quarant'anni or sono un ristretto gruppo di personalità lucchesi ebbe l'occasione – riunite, forse convivialmente, per non so quale ragione – di rievocare l'eccezionale figura di patriota lucchese e italiano che fu Francesco Burlamacchi.

Certo – direi – proprio su invito di Carlo L. Ragghianti – memore delle animate fraterne discussioni normaliste con Delio Cantimori e non alieno a iniziative inusuali, sorprendenti piuttosto impreviste talora – fu deciso seduta stante di ricordare l'illustre predecessore patriottico con un annunzio nella rubrica dei decessi (notoriamente la più letta nella cronaca locale da sempre) alla molto probabilmente ignara cittadinanza. Ciò tramite “La Nazione” l'organo di stampa più diffuso sul territorio lucchese, di orientamento liberal-conservatore, come d'altronde (soprattutto all'epoca) la maggioranza dei lucchesi.

Dei nove “cittadini lucchesi” firmatari del necrologio in ricordo di Francesco Burlamacchi, oltre a mio padre Carlo Ludovico, ho conosciuto di persona Pier Carlo Santini (1948, Bellavalle, in occasione della tesi di laurea sul Giambologna). Di altri quattro ho avuto conoscenza dai media e da motivi familiari o professionali: Francesco Giovannini, intellettuale liberale, storico, amico di Pier Carlo; Giorgio Marchetti (1943-2014) architetto, scrittore satirico, membro di un Consiglio di amministrazione della “Affondazione” (come ebbe a chiamare la Fondazione in crisi dopo la morte di Pier Carlo Santini e dell'Avv. Del Frate) Ragghianti; Paolo Rossi, giurista, esponente socialista anticomunista, Presidente della Corte Costituzionale; Bruno Vangelisti (1920-2003) storico antiquario di Lucca. Degli altri tre firmatari, non essendo io lucchese residente, non ho notizie.

Non mi nascondo e tanto meno celo ad altri il fatto che alcuni di questi personaggi erano massoni. Non lo era sicuramente, però, Carlo L. Ragghianti, spirito troppo libero e laico per poter accettare l'ipotesi di un Grande Architetto o quel che sia, così simile ad una religione organizzata, rivelata. Forse, anzi probabilmente date amicizie e frequentazioni, lo era stato suo padre e nonno mio, con discrezione come nel carattere dell'uomo.

Ciò che è certo è il fatto che il Burlamacchi possa essere considerato, definito il “primo martire dell'Unità italiana”. In questo post riprodurremo un paio di immagini di monumenti ottocenteschi, di nessuna verosimiglianza col personaggio reale; seguirà il breve saggio di Augusto Mancini (1875-1957), lucchese illustre, primo maestro universitario di mio padre, nel 1946 nella lista del Movimento Democratico Repubblicano (di cui l'allievo R. era il principale esponente toscano) quindi Rettore dell'Università di Pisa.

Lo studio di Mancini su Burlamacchi mi sembra tuttora un importante contributo sull'argomento. Con sorpresa, invece, constato che lo storico Michele Luzzati (1938-2014), del medesimo Ateneo pisano, per la voce “Burlamacchi” del Dizionario Biografico Treccani ha steso un testo deludente, piatto, filologico ma sordo intellettualmente. Migliore risulta il breve contributo della vecchia Treccani anteguerra.


Non sono riuscito a vietarmi di riproporre il Proemio che Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873), grande patriota e scrittore prolifico oggi dimenticato anche perché di una retoricità e di una scrittura spesso indigeribili, appose al suo introvabile libro Vita di Francesco Burlamacchi (1868).

La vis democratica del Guerrazzi conclude questa sua introduzione con le seguenti sacrosante parole di bruciante attualità:”Dei patrizi e dei plebei i quali si chiamarono moderati e furono schiavi e ladri vuolsi spento il seme”.

F.R. (22 ottobre 2020)


Facendo alcune verifiche su internet, scopro che a suo tempo m'era sfuggita la pubblicazione di un bel libro per veste editoriale ma soprattutto per l'importante contenuto scritto da uno dei firmatari il “necrologio” 1980 di Burlamacchi: Francesco Giovannini. L'editore Pacini Fazzi di Lucca nel 2004, infatti, ha stampato la Storia dello Stato di Lucca – illustrata da didascaliche pitture di Vincenzo Barsotti (1876-1944) apprezzato da C.L.R. giovinetto – nella quale l'autore (di cui riporto anche la cordiale e ironica auto-direi-biografia dalla seconda risguardia di copertina) con un linguaggio di raro nitore traccia il ricco e complesso percorso della città stato di Lucca, repubblica perseverante fino alla subita violenta bulimia del parvenu Bonaparte. Dalle pagine 161-166 di questo notevole libro (esaurito si direbbe, almeno per quel che ho faticato per trovarlo nel commercio online) riporto quanto riguarda direttamente il “progetto Burlamacchi”.

F.R. (22 e 27 ottobre 2020)

giovedì 19 novembre 2020

Arte Moderna in Italia 1915-1935 - Testi dei Critici, 19. VIRGILIO GUZZI (MANCINI, CAVALLI, MONTANARINI, PIRANDELLO).

   


Post Precedenti:

1. RAFFAELE MONTI ( I ) - 16 giugno 2018
2. IDA CARDELLINI (LORENZO VIANI) - 28  settembre 2018 
3. UMBRO APOLLONIO (NATHAN, BIROLLI) - 19 settembre 2019
4. MARCELLO AZZOLINI (GUERRINI, CHIARINI, VESPIGNANI). 6 ottobre 2019
5/I. FORTUNATO BELLONZI (BOCCHI, D'ANTINO). 12 novembre 2019
5/II. FORTUNATO BELLONZI (MORBIDUCCI, SAETTI). 28 dicembre 2019
6. ALDO BERTINI (CREMONA, MAUGHAM C., PAULUCCI). 22 gennaio 2020.
7. ANNA BOVERO (BOSWELL, CHESSA, GALANTE). 5 febbraio 2020.
8. SILVIO BRANZI (SCOPINICH, BALDESSARI, NOVATI, SPRINGOLO, RAVENNA, KOROMPAY, ZANINI). 23 febbraio 2020.
9. GIOVANNI CARANDENTE (COMINETTI, MARINI). 4 marzo 2020.
10. ITALO CREMONA (REVIGLIONE). 7 maggio 2020.
11. ENRICO CRISPOLTI, I (BALLA, EVOLA, ALIMANDI, BENEDETTA). 2 aprile 2020.
12. ENRICO CRISPOLTI, II (COSTA, DIULGHEROFF, DOTTORI, FILLIA). 6 aprile 2020.
13. ENRICO CRISPOLTI, III (ORIANI, PANNAGGI, PRAMPOLINI, MINO ROSSO), 10 aprile 2020.
14. RAFFAELINO DE GRADA I (BOLDINI, ANDREOTTI). 22 giugno 2020.
15. RAFFAELINO DE GRADA II (BERNASCONI, CARPI, CARENA, FUNI). 6 luglio 2020.
16. ANTONIO DEL GUERCIO (MAZZACURATI, MENZIO, RICCI). 8 agosto 2020
17. TERESA FIORI (INNOCENTI). 1 settembre 2020.
18. CESARE GNUDI (FIORESI, PIZZIRANI, PROTTI). 2 ottobre 2020.


Nato a Molfetta - come Gaetano Salvemini amico tutelare della nostra famiglia - nel 1902 Virgilio Guzzi è stato uno scrittore e un intellettuale assai vivace e presente non solo perché pupillo di Giovanni Gentile, ma per propri meriti che via via orientò verso la critica d'arte contemporanea e la storia dell'arte. Spontanei interessi espressivi verso la scultura e poi pittura lo trasformeranno – dopo un tirocinio serio e approfondito – in un artista, in un pittore presente e coprotagonista delle più importanti esposizioni e delle più significative manifestazioni figurative tra le due guerre. Conobbe e certamente frequentò in Roma Carlo L. Ragghianti, il quale pur con prospettive critiche e metodologiche innovative apprezzò la capacità di Guzzi quale mediatore e organizzatore culturale. Ebbero in comune fraterni amici come Fortunato Bellonzi, Renato Guttuso, Scipione, Pier Maria Bardi e altri importanti protagonisti delle arti figurative in Roma e nella intera Italia.

Siccome Virgilio Guzzi partecipò alla mostra Arte Moderna in Italia 1915-1935 soprattutto in qualità di pittore, come tale sarà indagato nella scheda curata da Antonello Trombadori che lo riguarderà e che sarà postata tra qualche tempo. Oltre il ritratto che gli fece (c. 1937) il suo caro e costante amico Fausto Pirandello, in questa sede riporto il trafiletto da “seleArte” (n. 54, 1961, p. 33) nel quale mia madre segnala un libro di Guzzi. Non ho potuto esimermi dal riportare qui sotto anche il breve articolo pubblicato il 31 maggio 1978 nel “Tempo” di Roma nel quale Guzzi segnala con pacata ironia la realizzazione delle incredibili scatolette di “merda d'artista” di Piero Manzoni. Ho scelto questo scampolo tra i ritagli soprattutto perché pubblicato 153 giorni prima della morte di Guzzi, dimostrandone la lucidità prima della dipartita. A questo aggiungo una mia provocatoria perplessità: le scatolette furono effettivamente (pare) riempite di merda e quindi sigillate nello stabilimento industriale Manzotin (allora carne in scatola in concorrenza con l'eterna Simmenthal). Ciò perché Manzoni era un membro della famiglia 


proprietaria di quell'industria alimentare. Domando: come fu conservata la quantità di cacca per tutte le non poche scatolette realizzate? Furono quindi inscatolate nella catena di montaggio ordinaria? Furono prese adeguate misure igieniche prima durante e dopo la chiusura stagna di ciascuna scatoletta?

Pare che valgano tuttora molto denaro nel mercato. Si dice che de gustibus non est disputandum, però se ne viene aperta una (così come, pare, avviene con costosissime bottiglie di vino) che succede? Il collezionista e i suoi ospiti la degusteranno bevendo – direi opportunamente – lo champagne del “mitico” cretino James Bond?

F.R. (20 ottobre 2020)

sabato 14 novembre 2020

Originali, repliche, copie e derivazioni.

Questo studio, pubblicato postumo in due parti, è conseguente alla stesura del Catalogo/Corpus Dipinti fiamminghi in Italia (1420-1570), al quale mia madre attese e concluse nell'ultima e tormentata parte della sua esistenze. Mentre a proposito del Corpus posteremo una 

sintetica scheda prossimamente, questo inconsueto testo – pubblicato in “Critica d'Arte”, rubrica “scuola” nel n.20 (1989) e 2-3 (1990) – deriva da riflessioni sullo scottante fenomeno delle copie e derivazioni di dipinti particolarmente apprezzati già dai contemporanei.

F.R. (13 ottobre 2020)

mercoledì 11 novembre 2020

Postilla circa un viaggio a Urbino per Adolfo Paolucci.

Questo post è il naturale seguito ed anche la conclusione di quello del 7 novembre 2020, intitolato Adolfo Paolucci pittore e incisore urbinate.

Nel 1993, in settembre, invitato da Guido Pinzani, che vi aveva uno studio e vi stava realizzando un Museo d'Arte Contemporanea, feci un viaggio ad Urbino (dove non ero mai stato). Lo studio e il Museo erano all'interno del Convento di S. Bernardino (adiacente all'omonima famosa chiesa) e in quel luogo dominante pernottai. Sì dormii in un Convento abitato da frati francescani, per altro – salvo l ' “ortolano” – tutti colti, impegnati nel sociale e almeno due docenti nelle Università italiane. Dopo una cena collettiva più che parca, austera, dopo aver preso cuscino e lenzuola per farmi il letto da una grande madia sempre aperta, dormii in una antica cella riservata agli ospiti – solitamente clericali – ma contigua a quella dei frati. Comunque non fui il “diavolo in convento” di molte storie e nemmeno “un garibaldino in convento” (Vittorio De Sica, 1942) ma soltanto un ospite e donatore al Museo – con un paio di opere della mia personale raccolta – già in parte allestito in alcune celle libere tra quelle adibite a Biblioteca.

Ero andato ad Urbino per tre motivi: visitare lo studio di Pinzani dove egli lavorava a sculture lignee importanti nell'arco della sua attività; per vedere il Museo del Convento in corso di allestimento; per conoscere Alfonso, il figlio maggiore di Adolfo Paolucci del quale cercavamo di promuovere l'opera.

Avendo ormai una certificata dimestichezza nella catalogazione delle opere d'arte, volevo suggerire la realizzazione del Catalogo delle numerose incisioni dell'artista ed anche una mappa della dislocazione delle pitture di cui si conservava traccia dell'esistenza. Non fu facile, anche perché l'Alfonso, palesemente tra il lusingato e il sospettoso, menava il can per l'aia. Visitai anche nella Casa di Raffaello l'Accademia omonima, una scuola d'arte più pragmatica dell'Università Internazionale dell'Arte di 

Firenze, però meno prestigiosa ma più fattiva nell'assistenza agli allievi.

Pinzani, poi, in particolare insisteva per vedere una ringhiera in ferro battuto da un celebre fabbro contemporaneo, decantata anche da uno storico locale di cui non ricordo il cognome. Perciò entrammo in una minuscola chiesetta (praticamente uno stanzone disadorno) sita nel Corso principale nella quale pregavano le suore del convento retrostante. Incappammo in una messa già in corso, tenuta da un anziano, seccato e rubicondo sacerdote assistito da un maturo omosessuale veramente imbarazzante. Era presente, schierato in una fila di banchi laterali all'altare, il Coro delle suore “in alta uniforme”, formidabile! (Seppi poi che era assai rinomato). Noi tre, soli estranei, rimanendo al di qua del divisorio rappresentato dalla famosa ringhiera, assistemmo all'intera cerimonia. Essendo l'unico non credente, osservavo con particolare attenzione e, devo confessarlo, l'esperienza di quel coro “angelico”, che ebbe veramente momenti di sublime intensità, è tra i ricordi più vivi della mia esistenza.

La missione era sostanzialmente fallita, data la mancanza di elementi concreti. In precedenza, il 6 novembre 1992 scrissi a Pinzani a proposito di fare una Mostra di Paolucci presso la Fondazione di Lucca, con presentazione di Raffaele Monti. L' 11 dicembre 1992 scrissi direttamente a Santini, il quale però morì pochi mesi dopo senza aver impostato niente di concreto. Nel settembre 1993 scrissi al figlio di Claudio Varese, tra l'altro, di visitare le opere di Paolucci presenti a Urbino, dove lui insegnava. Infine l'8 ottobre 1993 scrissi a Giuliano Donini dell'Accademia Raffaello – che avevo conosciuto durante la gita con Pinzani – cercando di muovere le acque stagnanti riguardo alla faccenda Paolucci.

Riproduco le lettere citate, lasciando nell'oblio altre comunicazioni inerenti ma secondarie.

F.R. (1 luglio 2020)

sabato 7 novembre 2020

Adolfo Paolucci, pittore e incisore urbinate.

 

L'attenzione critica su Adolfo Paolucci (1905-1981), nato e vissuto ad Urbino, mi risulta tuttora costituita da pochi scritti risalenti agli anni Settanta del secolo scorso. Sono, quindi, più di quarant'anni che questo artista veramente originale non è oggetto di attenzione analitica da parte di scrittori interessati alle arti figurative del loro presente storico e, tanto meno, da parte di critici d'arte delle nuove generazioni.

E' grazie all'intuito e all'appassionata attenzione e promozione di Guido Pinzani, scultore eccellente anche lui piuttosto iniquamente trascurato dagli addetti ai lavori, che io sono stato coinvolto nella conoscenza dell'opera di Adolfo Paolucci. Addirittura sono stato contagiato dalla fascinazione particolare emanata dai suoi dipinti che giustamente il poeta Renzo Gherardini rifiuta di assimilare alla classificazione di naȉf. L'intuizione di Gherardini, uomo di vasta e profonda cultura, poeta complesso la cui vena sorgiva si è rivolta alla comprensione della natura, della terra e dei suoi frutti come archetipo dell'esistenza, nel pittore Adolfo Paolucci ha individuato uno spirito affine che si esprime con medium differente ma congeniale.

Questa “categoria” di pittori è quasi sempre atona, ripetitiva, ammiccante ad una purezza atavica perduta – inesistente, per altro– che a me pare fiacco prefessionismo, e talvolta furbesca speculazione, persino organizzata dallo Stato, come avvenne in Jugoslavia titina con i cascami di Generalic, specialmente sloveni, assimilabili agli operai tayloristi nello sfornare il prodotto pittorico da esportazione.

Pur non credendo in linea di massima a rapporti consequenziali tra un territorio e gli esiti operativi degli artisti nati e cresciuti in quei luoghi, nel caso di Adolfo Paolucci c'è un rapporto diretto, indubbio che nei suoi paesaggi si rifletta la spiritualità originaria dell'umbro contiguo San Francesco di Assisi, autore di incomparabile poesia, fresca, vitale e sorprendentemente coinvolgente ancora dopo quasi otto secoli. E' un fatto più frequente della norma, comunque, che il rapporto tra il paesaggio umbro-marchigiano del nord e l'uomo che lo abita e vive comporti degli stimoli che lo inducono a esprimersi in termini stupefatti, essenziali, talora descrittivi ma in modo sospeso se non proprio sorpreso per il semplice fatto di esistere. D'altra parte, a pensarci bene, pittori come Metelli, Francalancia, solo per citare due grandi artisti di cui conosco abbastanza l'opera, e altri sono la punta di un iceberg espressivo innegabile nella propria originalità e nella propria eloquenza visiva di una primitività che non è un “ritorno all'ordine”, bensì proposta per l'avvenire.

Vorrei precisare anche che a mio parere Paolucci pur conoscendo qualche riproduzione di Metelli, e forse di Francalancia, non è stato coinvolto nei loro autonomi linguaggi. Escluderei poi la conoscenza da parte di Adolfo Paolucci dei grandi “primitivi” statunitensi del Settecento e dell'Ottocento, e poi di Joseph Pickett (1848-1914/18), bottegaio, o del celeberrimo Grant Wood (1891-1942) e della toccante Grandma Moses (1860-1961), particolarmente apprezzata dai miei genitori. Ciò non toglie che tra questi pittori americani, i citati Metelli e Francalancia e il nostro urbinate si possano riscontrare affinità indirette perché sorgive, frutto di originale sintonia fantastica.

Per lasciare almeno una traccia nell'infinità – forse fragile – di Internet di un artista misconosciuto come Adolfo Paolucci, mi pare doveroso immettere in rete tutti i documenti critici e le riproduzioni di dipinti ed incisioni di cui dispongo. Sono attestazioni probabilmente – e poi voglio sperare integrabili – solo parziali, però sono anche le prime che vengono diffuse in rete con una certa sistematicità e con elementi di potenzialità di successive indagini.

Nel 1972-73 a Urbino, Bottega G. Santi, Casa Raffaello, in occasione di una esposizione venne stampato un dépliant con riprodotti tre dipinti, una breve biografia, e due colonne non firmate di testo che mescola su e di Paolucci accenni e considerazioni critici senza un nesso di riferimento.

Firmato “aprile 1974” abbiamo il primo testo di Renzo Gherardini: è una pagina – di ispirato taglio poetico – che accompagna la cartella di acqueforti Alberi e paesi di Adolfo Paolucci. Questo contributo lo riproduciamo insieme alle cinque eloquenti incisioni della Cartella realizzata da Guido Pinzani. Nel dicembre 1974 ad Osimo (Palazzo Campana), un altro dépliant presenta la mostra personale dell'artista, una riproduzione di dipinto, una biografia e un testo critico di Renzo Gherardini, datato “Firenze, novembre 1974”. Nel luglio-agosto 1977 a Sassoferrato, in occasione del XXVII Premio Salvi, viene allestita una “sala omaggio” con dipinti di Adolfo Paolucci, e tre contributi critici. Il primo L'infanzia spirituale di Adolfo Paolucci è firmato da Adriano Gattucci, paleologo, storico, poeta e docente all'Università di Urbino.




Il secondo contributo, La giornata di Adolfo Paolucci è firmato da Gastone Mosci, docente dell'Università di Urbino e amico del rettore-fondatore Carlo Bo, nonché giornalista. Il terzo, Postilla, è una integrazione al proprio testo del 1974 da parte del poeta e docente di scuola media (basso livello espressione della scelta didattico-formativa nei confronti dei discenti di solito più trascurati) Renzo Gherardini. In questo catalogo sono illustrate cinque opere di Adolfo Paolucci.

Apro a questo punto una parentesi per ricordare la figura di Renzo Gherardini (1923-2011) fiorentino doc, erede non partecipante all'impresa della famosa ditta omonima, che per decenni fu l'antagonista di Gucci. Personalità naturalmente elegante e signorile Gherardini non a caso era interpellato il Principe dai suoi amici tra cui ricordo scrittori come Gadda e Landolfi, poeti come Luzi, Parronchi, Betocchi, critici letterari come Luigi Baldacci e Giorgio Luti; poi Alfredo Righi e altri esponenti della cultura fiorentina. Gherardini era schivo, discreto e riservato, partecipe – talvolta un po' insistentemente – alle vicissitudini e alle necessità di amici e conoscenti come me. Autore Vallecchi, tra l'altro ha pubblicato un importante, basilare traduzione delle Georgiche di Virgilio ineccepibile nella terminologia botanica e agricola, essendo Gherardini un amateur competentissimo di ogni cultura agricola dall'antichità alla contemporaneità. In proprio curava e pubblicava dei libriccini tascabili con nitida copertina bianca, segno evidente del suo understatment, che poi regalava con tratto garbato, quasi imbarazzato. Tra i sui allievi di scuola media è stato anche Guido Pinzani, che lo ha sempre ritenuto il cardine della propria formazione culturale. Gherardini ha condiviso l'esistenza con la moglie Brunetta anche lei insegnante e con la passione per l'incisione originale, esercitata da dilettante però con perizia espressiva e tecniva professionale. E' suo il Ritratto di Adolfo Paolucci, acquaforte e acquatinta, 1974, che riproduciamo in questo testo redazionale.

Tornando e concludendo l' excursus su quanto scritto a proposito di Adolfo Paolucci, nella primavera del 1992 su “seleArte” (IV serie, n. 14, p. 39) scrissi all'interno di un “pezzo” su Pinzani le righe seguenti:”...ha portato Pinzani ad essere scopritore di talenti, come quello favoloso, fresco, naturale e davvero spontaneo di Adolfo Paolucci. Un lavoratore, ferroviere, se la memoria non mi tradisce, la cui pittura e le cui incisioni sorgive non vanno confuse con l'accademismo naif, né con geograficamente prossime discendenze metelliane”. Nel 2003 sul giornale locale “il nuovo amico” il 29 giugno comparve a firma del citato Gastone Mosci l'articolo Ricordo di Adolfo Paolucci. La felicità di essere pittore.

Intendo poi riprodurre qui di seguito con quelli dell'Archivio i dipinti e le incisioni che Rosetta ed io possediamo di Adolfo Paolucci, grazie anche ai doni di Guido Pinzani.

Questo generoso artista – ormai anche lui ottantenne – che io sappia è il detentore di molte opere di Paolucci ed è anche al corrente di molti di coloro che sono custodi delle opere di questo straordinario artista. A Urbino certamente gli eredi dovrebbero avere diverse opere e sapere dove sono quelle sparse nel circondario. Dico queste cose nel caso che qualche studioso abbia intenzione di approfondire la conoscenza dell'opera del pittore urbinate.

F.R. ( 29 giugno 2020)


P.S. Collegato a questo intervento, l'11 novembre 2020 verrà postato anche lo scritto Postilla circa un viaggio ad Urbino per Adolfo Paolucci.

mercoledì 4 novembre 2020

Cambiaso 1545.

Anche Carlo L. Ragghianti si è interessato all'opera di Luca Cambiaso con questo sintetico studio di carattere filologico pubblicato in “Critica d'Arte” (n.49, 1962). Il suo intervento è totalmente indipendente dalle ricerche della moglie Licia Collobi, rivolte soprattutto ai disegni dell'artista (vedere i post del 4 settembre 2020 e del 5 ottobre 2020).

Colgo l'occasione per illustrare due opere attribuite a Cambiaso, che C.L.R. non considera di mano dell'artista, scrivendo le sue osservazioni sul retro delle fotografie. Questi sono documenti visivi rimasti in redazione di “Critica d'Arte” a seguito della cessazione della gestione Vallecchi, insieme a consistenti originali fotografici inerenti – ad es. – i volumi Il

libro de' disegni del Vasari di Licia Collobi o il Brunelleschi. Un uomo, un universo di C.L.R.

Attualmente questi materiali sono conservati nelle scatole del mio Archivio (purtroppo disordinato, non avendo più il tempo da dedicare ai riordini). In esso qualche paziente archeologo cartaceo (sempre che se ne trovino ancora) li potrà rinvenire mescolati ad altre carte connesse, di varia importanza e qualità, e quindi li potrà riunire alle foto sorelle che riposano nella Fototeca della Fondazione Ragghianti di Lucca. Mentre estratti, opuscoli, ritagli e quant'altro d'interesse potrà raggiungere l'Archivio maggior fratello dello stesso Ente.

F.R. (14 ottobre 2020)

lunedì 2 novembre 2020

Suicidio.

L'inesorabile stillicidio di notizie e problemi riguardanti il virus Covid19 condiziona l'attenzione del genere umano in modo ossessivo da una decina di mesi. Ne consegue l'impossibilità di non essere coinvolti (o talvolta, peggio, travolti) dal pensiero della morte. L'implacabile nemica di ogni essere vivente non è certo bene accolta, però – fino ad ora – essa è almeno egualitaria destinazione dell'esistenza di tutti.

Per scansare un po' questa presenza macabra, col principio del chiodo scaccia chiodo, forse astrattamente si può pensare al suicidio, sicuramente anch'esso funereo, come atto liberatorio. Se non proprio irriverente nei confronti della Falciatrice, il suicidio si può anche considerare almeno una sfida ad essa, un tentativo controproducente di ribellione.

E' un fatto accertato, benché non sempre accettato, che i suicidi siano distinguibili in due categorie comportamentali: la più nota e clamorosa consiste in un atto di autolesionismo (come, ad es., si è constatato nel post del 15 ottobre 2020 su Gérard de Nerval); l'altra – che definirei “stoica” – è basata su un rifiuto categorico non violento, esercitato prevalentemente nella negazione di cibo e bevande, quindi di contatto parlato e visivo col prossimo fino a che l'inedia prevale sulla vitalità. Una variante di questo modus operandi si può riscontrare nel post del 13 gennaio 2017 riguardante il pittore Augusto Barboso.

Negli ultimi tempi l'arroganza borghese elitaria, come quella sempre venata di ricatto dei “radicali”, ha escogitato una terza forma di suicidio. In essa si vogliono responsabilizzare dell'atto determinante esecutori terzi più o meno camuffati da coadiutori, dalle cronache estere sembrerebbe ben retribuiti. A parte le suddette considerazioni, d'intento anche scaramantico, qualche dato e documento sul suicidio può stimolare sani antidoti mentali, barriere antitetiche. Ciò però non può avvenire con la “morte”, perché essa colpisce prescindendo dall'umana volontà consapevole.

Riporto per primo il testo che lo scrittore Guido Morselli (1912-1973) stese il 7 settembre 1949. Esso è rimasto 

inedito fino al luglio 1993 quando fu pubblicato su “Tuttolibri” (n. 864), supplemento culturale de “La Stampa” di Torino. Non mi è chiaro se il titolo La sconfitta del suicidio sia dell'autore (morto di contraddittorio suicidio nel 1973) o redazionale.

Seguono due riflessioni sull'argomento: la prima del 1889 è di Guy de Maupassant, la seconda di Indro Montanelli, pubblicata su “Oggi” del 21 dicembre 1992. Ricordo quindi il libro (edito da Rizzoli nel 1975 e di nuovo riproposto in libreria nel 2017 da Odoya) di Al Alvarez Il dio selvaggio. Il suicidio come arte, che riscosse molta attenzione e del quale riporto soltanto la pubblicità della prima edizione.

Il filosofo Maurizio Schoepflin pubblicò su “La Nazione” di Firenze (8 dicembre 1992) un equilibrato excursus sulla storia del pensiero circa il suicidio.

Nell'articolo di Francesco Russo (all'interno del quale si trova un breve profilo sulla “letteratura” del suicidio, redatto da Rita Tripodi) si relaziona circa “una crociata per l'eutanasia”, promossa in Gran Bretagna dalla società “Exit”. L'epoca dovrebbe essere la stessa degli scritti precedenti, mentre il giornale mi pare sia “L'Espresso”.

Da “Salutest” n. 45 (agosto 2003) proviene la sintesi di una inchiesta internazionale sul suicidio come problema sociale e sanitario.

Prospettive nel mondo”, rivista cattolica vicina a Amintore Fanfani, nel n. 166 del 1990 pubblicò una propria inchiesta sul fenomeno della Roulette russa, cioè sui “giochi pericolosi, i quali non di rado si concludono con la morte dei protagonisti. Dopo trent'anni gli argomenti trattati riguardano – con alcune fattispecie esecutive differenti – accadimenti purtroppo tuttora largamente praticati.

In conclusione due brevi sillogi illustrano l'una motti e riflessioni sul suicidio, l'altra propone una modesta iconografia, a chiusura della quale si privilegiano immagini dissacranti di umorismo – si spera – liberatorio.

F.R. (19 ottobre 2020)