Carlo e Licia

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domenica 28 maggio 2017

Ancora Riccardo Bauer

Da sempre e fino alla morte (1982), di fronte alla evidente “decomposizione morale”, Riccardo Bauer intervenne in varie sedi, sia su sollecitazione o per propria iniziativa etica, con scritti il cui filo portante consisteva nell'illustrare ai giovani, alle generazioni emergenti, i problemi e i perché di una “lenta maturazione democratica”. Ciò perché pensava che una democrazia si sostiene con un continuo processo di revisione e controllo sul potere da un lato, dall'altro che ai cittadini necessita una maturazione profonda e convinta da raggiungere per gradus. Così si potranno evitare facili entusiasmi e facili militanze sacrificati troppo spesso alla sopravvenuta convenienza personale; quel particulare – cioè – che consente repentine conversioni o, addirittura, voltafaccia clamorosi e tradimenti maramaldeschi.
Ben fece, perciò, dopo l'affermazione del vulnus alla democrazia rappresentato dal berlusconismo e dal conseguente “sdoganamento” dei discendenti dei fascisti d'ogni ordine e grado, Arturo Colombo a riunire gli scritti di Bauer nel volume edito da “il Mulino”, che qui di seguito viene recensito da Alessandro Galante Garrone ne “la Stampa” di Torino, 20 giugno 1996. Noi oggi (2017) riproponiamo questo scritto perché – stante il costante degrado della politica italiana – la democrazia è di nuovo sul filo del rasoio, (border line) sull'orlo di un imperscrutabile precipizio e le nuove generazioni risultano drammaticamente sprovvedute anche per la loro difficoltà di individuare fonti, testimonianze, informazioni formative tali da rendere ciascun cittadino consapevole e responsabile.
                                                         F.R.

domenica 21 maggio 2017

Ragghianti docente 3 - Dall'Università alla Scuola

La coscienziosità con cui Carlo L. Ragghianti considerava il proprio lavoro di docente universitario è, ed è stata, ben nota ai suoi ex allievi e ai collaboratori che via via l'hanno assistito in questa funzione sociale altamente qualificata e, per chi ha il senso del dovere, di grande responsabilità. Ovviamente i testimoni diretti sono sempre meno e sempre più anziani.
Di conseguenza per rendere noti i fatti restano quasi soltanto le attestazioni già espresse ed i documenti inerenti le singole situazioni educative. Però anche di queste situazioni formative le carte e gli atti presentano certe difficoltà ad essere individuati e poi reperiti.
Da parte nostra, cioè degli “allievi” familiari, su “SeleArte”, IV serie, abbiamo già pubblicato due antologie di lettere, comunicazioni, raccomandazioni didattiche e scientifiche nelle quali Ragghianti indirizzava le ricerche degli “scholari” e dei collaboratori. Si tratta di Magisterio di R. (fasc. n. 21, pp. 27-30) e Professorialità (fasc. n. 24, pp. 2-49). Quindi questo lungo post rappresenta di fatto il nostro terzo contributo specifico circa Ragghianti docente. Abbiamo anche intenzione di proseguire questa serie con la pubblicazione di altri documenti di analogo impegno pedagogico e “professionale”.
In questo post si intende riproporre una ricerca (con risvolti sociologici inediti: si ricordi che soltanto da pochi anni erano stati tradotti i Rapporti del Dr. Kinsey ed altre simili “novità” per l'Italia) originale per metodologia e 
contenuti, rivolta a conoscere il livello culturale degli allievi che seguivano i corsi di esame onde “conoscere i singoli studenti e ad incontrare realmente le loro necessità ed esigenze differenziate e scalate, assicurando da parte dei docenti e degli assistenti un contributo il più possibile effettivo e stabile alla formazione dei giovani, e adeguando metodi e contenuti dell'insegnamento e dell'esperienza di studi alle diverse capacità e condizioni individuali”.
Questa esperienza fu pubblicata in volume (reperibile – temo – soltanto in alcune biblioteche nelle quali si potranno verificare le interessantissime risposte ai questionari con le relative analisi ed i commenti, pp. 35-147 del volume) dalle Edizioni di Comunità nel 1961 col titolo “Dall'Università alla Scuola”.
Dal libro, concepito da Ragghianti e curato con la collaborazione di Giuliana Nannicini Canale (laureata con Marangoni, che insieme ad altre colleghe costituì il primo nucleo dell'Istituto pisano rifondato nel 1949) estrapoliamo i Questionari (Generale e Speciale) ed altri brani puntuali od esplicativi.
Sull'argomento riproduciamo anche una lettera del 1971, nella quale C.L.Ragghianti ricorda i Questionari e ne ribadisce l'utilità didattica e culturale dando “orientamenti e indicazioni utili” alla giovane studentessa Olga Visentini, figlia di Bruno che R. conobbe prima della guerra durante il suo proselitismo antifascista clandestino.



P.S. - Preparando la recensione al volume Giovanni Pieraccini arte e politica ho trovato in Archivio una lettera di Ragghianti all'allora direttore dell' "Avanti!" alla quale si allegava la rettifica da pubblicare sul quotidiano del PSI. Questa "lettera al direttore" contestava la recensione disiorientante e distorcente sui significati e gli intenti del sondaggio analizzato nel volume Dalla Università alla Scuola. La pubblico qui perché si tratta di un'azione
emblematica nei confronti di C.L.R. : o silenzio (damnatio memoriae) o "cauta" ma massacrante aggressione. Poi, in effetti, essere incompresi, essere vittime di "fuoco amico" non è e non fu soltanto deludente, fu riprovevole anche perché avvenuto in sede amica e perciò rappresentativo di un tipico, ennesimo attacco da parte di sedicenti compagni caudatari del futuro "Podesta" di Roma (così lo chiamava Ragghianti).


lunedì 8 maggio 2017

Licia Collobi e la poesia (1)


La morte di Derek Walcott a metà marzo 2017 mi offre l'occasione di affrontare un aspetto – credo ignoto al di fuori di una parte della nostra cerchia familiare – importante nella formazione e durante l'esistenza di mia madre Licia Collobi. Per tutta la vita, infatti ella lesse poesie, prevalentemente in italiano e in tedesco, soprattutto nelle pause dall'attività di studiosa e scrittrice, giacché sul comodino (poi sul comodone) accanto al letto ho sempre visto libri gialli, di letteratura e di saggistica (ricordo “La storia” di Elsa Morante, perché non piaceva al Babbo, e “Il secondo sesso” di Simone de Beauvoir perché allora considerato rivoluzionario dai retrivi.
Questo rilevante interesse della sua personalità è dimostrato dal fatto che nel suo studio di tutte le centinaia di libri contenuti nel lungo scaffale alla destra del suo tavolo di lavoro quelli di poesia (in tedesco, inglese, francese, italiano e in veneziano e triestino) erano, se non prevalenti, almeno la metà, anche dopo le decine di volumi che mi lasciò via via prendere per conservarli negli scaffali della mia autonoma biblioteca.
Per di più, prima di rimandarle nella biblioteca di SeleArte/Critica d'Arte/Criterio dopo averle riscontrate, sfogliava leggeva e studiava molte delle riviste d'arte e di cultura che ricevevamo in cambio delle nostre pubblicazioni. Tra queste in tutte le lingue (rammento la rivista argentina “Sur” della Ocampo, perché anch'io riuscivo a capire lo spagnolo) molte contenevano saggi e testi di letteratura e poesia, non soltanto contenuti attinenti allo stresso argomento professionale.
Questo suo interesse consolidato dalle letture giovanili al di là di quelle scolastiche (come lei stessa ricorda in “Lessico familiare” quando evoca lo sconforto del libraio che non sapeva più cosa procurarle perché la madre le regalava un libro ogni volta che prendeva 10 in un compito a scuola (cosa che avveniva spesso) tanto è vero che all'Università in un primo tempo voleva laurearsi in letteratura germanica.
Certamente la capacità di saper far convivere e gestire la quantità di input si direbbe oggi, cioè di dati difformi e numerosi le fu agevolata da quella sorta di memoria fotografica che le consentì di gestire l'Archivio clandestino della loro importante attività antifascista senza lasciare in giro scritti compromettenti. Penso, però, che esercitasse questa sua peculiarità soprattutto per materie ed aspetti, culturali e non, che la appassionavano. Altrimenti non riesco a concepire come il suo cervello potesse contenere e ricordare tante e così diverse informazioni.
Una riprova della sua “enciclopedica” conoscenza della poesia l'ho constatata nelle innumeri volte che la mamma, cercando di farmi imparare a memoria poesia impostemi dalla scuola elementare e poi media, finiva col recitare – da me vivamente incoraggiata – interi brani attinenti e non. Così quanta Iliade, quanta Odissea (Eneide no), quanto Carducci, Pascoli, D'Annunzio ecc. ho sentito. Meno, ma abbastanza, poi ho ascoltato i francesi, soprattutto Hugo, in lingua (studiavo il francese), inoltre Shakespeare, Milton persino, e contemporanei come Elliot in traduzioni che faceva lei; così anche i tedeschi (amava tanto Rilke), meno però dato che entrambi ricordavamo la recente guerra nazista. Inoltre, siccome fui ammalato da febbraio ad aprile per ben tre anni (1951-53) con febbre tra 37° e 38° di una “sindrome” misteriosa che veniva chiamata “febbre di crescenza” (da un'assistente del celebre Cocchi!), in queste circostanze la mamma mi accudiva portandomi dal Vieusseux, Salgari, Verne (“L'isola misteriosa” mi conquistò) Dumas, Fenimore Cooper (in integrale) e raccontandomi storie (anche della Resistenza) e recitando poesie, tante. Il tutto assimilato con qualche costrutto 
perché declamava (e leggeva) bene, senza enfasi, ma con toni e ritmi avvincenti. (Non è che fossi particolarmente “zuccone”, ho però sempre la tendenza a riportare più il concetto – con mie divagazioni – che il contesto effettivo e per quanto riguarda le poesie, spesso le storpiavo usando sinonimi in luogo del termine usato dal poeta. Perciò, povera mamma, si disperava e qualche volta divertiva, di fronte a questa specie di “sordità”, per lei incomprensibile dato che era anche un'ottima musicista diplomata al Conservatorio). Tornando alla base del discorso, realizzai concretamente la portata del suo amore per la poesia proprio tramite l'adesso celebre (Nobel 1992) “aedo” caraibico. Giacché negli ultimi anni della sua vita mia madre fu prima spesso, poi quasi sempre, poi sempre “allettata” (orrendo neologismo imparato in ospedale, purtroppo) anche per farle compagnia dopo il ritorno dal lavoro o la sera – una volta morto il babbo – stavo con lei a lungo a parlare di tutto, a seconda delle circostanze. Rammento abbastanza bene che una sera all'inizio parlammo del restauro del Cavaliere di Marino Marini e della “pulitura” della Grande Bagnante di Emilio Greco e, quindi, dell'ottimo lavoro effettuato dalla simpatica e cortese Agnese Parronchi, figlia di Alessandro, che la mamma ricordava suo coetaneo e poeta da lei sinceramente non molto apprezzato, nonostante i continui omaggi delle sue poesie e l'insistente richiesta di un giudizio ai tempi in cui egli era Segretario de “La Strozzina”. Qualcosa al riguardo ricordavo anch'io: a Bellavalle attorno al 1948 – me presente – quello spilungone, un po' querulo, con tanti patemi d'animo riversava la propria ansia esistenziale, la propria insoddisfazione, il cruccio per la propria poesia sulla povera mamma, comprensiva ma sulle sue, il tutto per una buona mezz'ora mentre eravamo di fronte alla facciata della piccola cappella votiva e all'inizio della rampa “schiantaschiena” che portava alla rustica casa in affitto per le vacanze ed io, distratto spesso, dal sentire il fluire del ruscello Limentra occidentale. Scena un po' penosa, un po' ridicola e divertente, tant'è che la ricordo dopo quasi settant'anni.
Comunque, come succede “saltando di palo in frasca”, il discorso divagò fino ad una mia considerazione deprecante la scarsità di poeti “civili” dopo la morte di Alfonso Gatto ed “epici” sopratutto. La mamma obiettò che di quest'ultimi qualcuno ce n'era ancora, per es. un certo Walcott, “di cui ho letto qualcosa...e definiscono l'Omero dei Caraibi”. Non chiesi in che lingua l'avesse letto perché, ignorandone l'esistenza non sapevo neanche che allora qui da noi era noto soltanto a pochi “addetti ai lavori”. Però qualche anno dopo il Nobel a Walcott, leggendo una sua poesia sulla rivista francese “Lire”, e sovvenendomi della conversazione con la mamma, la tradussi in italiano, ignorando che “Arcipelaghi” era uno dei testi più noti e citati del poeta anglofono di Saint Lucia.
Adesso lo conosco un po', quel tanto da ammirarne la originalità espressiva ed anche la personalità coraggiosa e candida: “ogni bambino è poeta, molti di loro poi, crescendo, perdono la propria innocenza...a causa dei cattivi insegnanti” e “noi poeti cerchiamo di arrivare alla innocenza essenziale”.

Derek Walcott è stato anche pittore (e questo mia madre non lo sapeva) di concreta abilità, e “terso”, elegante, spontaneo ma non naȉf, in cui la volontà espressiva e formale fa aggio sulla mancanza di tecnicismo professionale, come si vede nel bel dipinto “Lo studio di Gauguin”, realizzato nel 1986, pittore di cui W. scrive: “ci spinge alla ricerca di mondo conosciuto e amato: la pelle brunita/donne e papaie, una collina della Martinica./Il nostro martire. L'unico. Morì per i nostri peccati”.

lunedì 1 maggio 2017

{glossario} Ateismo

Sette anni prima di essere cooptata tra gli “Immortali” dell'Académie Française, nel 2004 la saggista e romanziera francese Danièle Sallenave (n. 1940) pubblica “Dieu.com” (Gallimard),un saggio polemico in cui critica l'ingombrante presenza delle religioni nella nostra società ed auspica “un ateismo filosofico cosciente e responsabile”. Da sue dichiarazioni alla stampa (l'Espresso, 13 maggio 2004) ricaviamo una definizione sintetica e chiara di “Ateismo”.

E' ateo chi non ha bisogno di un dio per spiegare le leggi di natura, le istituzioni umane, il senso e l'organizzazione della vita. Essere atei significa rifiutare una giustificazione sovrannaturale del mondo, sul piano etico-morale come su quello scientifico. Per altro, proprio la tecnologia contribuisce a volte allo sviluppo di credenze pseudo-religiose.
Purtroppo il successo della scienza non implica un razionalismo diffuso e condiviso. Anzi, l'incapacità di comprendere e dominare tecnologie sempre più sofisticate facilita l'oscurantismo moderno e l'idolatria. Il risultato è un mix di superstizione e di tecnologie avanzate che produce una visione magica del mondo, al cui interno c'è un ampio spazio per la religione. Abbiamo bisogno di adorare ciò che non siamo in grado di capire.
Molte persone non sanno bene cosa sia l'ateismo, ma in maniera confusa lo sentono come una porta aperta verso ogni forma di depravazione. Vale ancora la vecchia paura dei moralisti: se Dio è morto, allora tutto è permesso. 

Per costoro, è la fine di ogni morale e di ogni possibilità di vita collettiva. Il che equivale a considerare la divinità un gendarme che ci obbliga a rispettare le leggi. Non mi sembra però che i grandi crimini contemporanei siano commessi in nome dell'ateismo. Al contrario, l'ateismo è una immensa responsabilità affidata a ciascuno di noi. E' proprio perché non siamo soggetti a leggi divine, dobbiamo essere responsabili e fare da soli, mostrandoci capaci di elaborare un nostro sistema di valori etico-morali.
Io sono per un ateismo cosciente che si traduce in un impegno costante. Ciò significa denunciare tutte le forme del pensiero religioso presenti più o meno insidiosamente nella nostra vita per non subire passivamente la religiosità diffusa che ci viene imposta dai luoghi comuni della cultura dominante. Occorre difendere la laicità e ritrovare il nostro senso critico. Solo così il diritto di credere e quello di non credere saranno sullo stesso piano.

Non voglio dire che si debbano sradicare le religioni. Solo un tiranno come Stalin poteva pensare una simile assurdità. Si tratta invece di sviluppare un polo di pensiero ateo, capace di fare da contrappeso alla progressione incontrollata del discorso religioso. Occorre mostrare cosa significa vivere e fondare un'esistenza senza il concorso della religione. Bisogna tornare ai pensatori che si sono liberati dal pensiero religioso, a cominciare da Voltaire. Bisogna far circolare il loro pensiero.