Carlo e Licia

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martedì 27 giugno 2017

{glossario} Storiografia della cultura



Carlo L. Ragghianti a Lino Moretti, 12 maggio 1955
Per il testo completo di questa lettera vedere SeleArte, IV serie, n. 24, pp. 17-19, di prossima pubblicazione in questo blog.

sabato 24 giugno 2017

{glossario} Guerra

Il soprastante estratto di John Keegan (1934-2012, storico inglese specializzato in eventi bellici) descrive l'atteggiamento di cristiani e islamici riguardo all'ammissibilità dei conflitti. E' quindi questo un argomento di attualità.
Però l'orrenda presenza costante su questo piccolo, meraviglioso ed unico pianeta (che contiene l'umanità tutta e contemporaneamente quella buona e quella malvagia, quella colta e tecnologica e quella primitiva e protostorica, quella di tante sfumature di colore della pelle) è la GUERRA.
Difatti - va ricordato per l'oggi ma vale anche per il prima - dal 1 maggio 1945 non c'è stato un solo giorno nel quale non si guerreggiasse con la totalità degli strumenti "convenzionali" di morte a disposizione dei singoli contendenti.
Dato che potrebbe essere d'utile riflessione, ricordo che in questo blog pubblichiamo "SeleArte", IV serie (1988-1998) nella quale sono stati già postati 13 fascicoli (cui seguiranno gli altri dal 14 al 26), 
all'interno dei quali sono stati editi i seguenti "articoli" riguardanti la guerra: n.5, p.18; n.9 pp.1,6-12,48-51; n.10, p. 1,64; n.3, p. 52:aforismi; n.9, p.48:guerra civile; n.4, p.38:guerre di liberazione; n.5, p.25:guerre mondiali. Inoltre è stata riportata la toccante corrispondenza tra Carlo Cassola e Ragghianti su guerra e pacifismo: n.6, pp. 36-37; n.9, pp. 48-51.
Tengo, infine, a sottolineare in questa sede e a seguito del precedente elenco che i coniugi Ragghianti erano pacifisti (non seguaci di Capitini, benché molto amici del filosofo), così come lo siamo i figli Anna, Rosetta e Francesco e la giovane Irene figlia di Anna. Non violenti sì ma non disposti - ciascuno a suo modo - a subire sopraffazioni ingiustificate, né a sottostare a situazioni che minacciano la nostra vita, quella dei nostri cari, quella degli amici e quella del popolo italiano che, volente o nolente, è il custode della propria lingua e della propria storia.

mercoledì 21 giugno 2017

"Negro nell'arte europea" progetto di C.L.R.

In nome del declinante linguaggio "politicamente corretto", va premesso che in questa sede si usa il termine negro invece di nero, termine invalso negli ultimi decenni e perciò fino ad allora non adoperato nell'accezione antropologica. Occorre anche ricordare che l'uso di "negro" - derivante dal latino "niger" - non aveva significato negativo salvo che da parte di odiosi razzisti, riconoscibili dal contesto negli scritti e dall'intonazione nei discorsi.
La considerazione paritetica delle forme espressive diverse da quelle canoniche e manualistiche dell'arte italiana ed eurocentrica è sempre stata praticata da Carlo L. Ragghianti ed è a fondamento della sua "estetica".
Se non ci risultano sull'argomento documenti scritti prima degli anni Cinquanta ciò è dovuto alla scarsità nazionale e internazionale di studi e ricerche interessanti o problematici in merito all'Africa, specialmente quella centro-meridionale. Non a caso si cominciò a parlare di "negritudine" in
seguito alle conquiste coloniali e di arte negra in seguito alla individuazione e all'acquisizione di reperti africani da parte soprattutto di artisti degli inizi del Ventesimo secolo. La comprensione di Picasso senza riferimenti all' "art nègre" sarebbe incompleta e fuorviante. Trovo nell'Archivio familiare uno smilzo fascicoletto con l'intestazione "negro nell'arte europea". Dopo averlo controllato decido di renderne noto il contenuto, anche se sono certo che la mia memoria affievolita ricorda vagamente una consistenza superiore a quella riscontrata. Vorrà dire che, in caso di successivi reperimenti renderemo note le opportune integrazioni.
Un primo foglio, del 1962, contiene la richiesta "ufficiale" al Sindaco di Firenze Giorgio La Pira da parte di Ragghianti (estensore del testo e ideatore del contesto), e di Edoardo Detti ed Enriques-Agnoletti, assessori della Giunta presieduta dal detto e dimenticato sindaco "santo".

giovedì 15 giugno 2017

Cultura, libri, società

E' chiaro che, senza la cultura e senza i libri, non ereditiamo niente, perciò non si può che provare un sentimento di dolore davanti alla suddivisione delle cose e della società che consiste nel lasciare i più in preda alla dittatura del tempo libero e dell' intrattenimento televisivo, e alla consapevolezza di saperlo privato del potente soccorso della cultura, della lettura e dei libri mediante i quali si diventa uomo. Questa separazione che scava tra gli uomini la privazione della cultura, dei libri, è dal punto di vista filosofico, politico, intollerabile perché separa l'uomo da se stesso e dal mondo. Si dirà: ma chi prova questo dolore, chi ne è soggetto? E si obbietterà: colui che vive senza i libri è come l'ignorante secondo Socrate, non sa ciò che ignora. Solo chi vive con i libri conosce ciò di cui gioisce e di cui l'altro è privato. Ma questo non è vero. Perché chiunque è “senza libro” o non ha l'uso dei libri e delle opere, poiché non può che vivere in modo imperfetto o incompleto, non può, in un certo qual modo, non esserne consapevole. Questo dolore può provarlo anche se non può dargli un nome. E' il sentimento o il presentimento terribile che”il vasto mondo comincia accanto”. Come dice una donna di casa citata da Pierre Bourdieu ne”La distinzione”: “Quando non si sa granché si resta un po' in disparte”. Come adattarsi a questa separazione, a questo vuoto, a questa finzione? E come trattarli? La questione ha diviso in modo grave coloro che comunemente vengono chiamati “intellettuali”, coloro cui non sono stati rifiutati i libri. Lottare contro questa ingiustizia? Accontentarsi? Il fatto stesso di chiamarla ingiustizia suscita alcune osservazioni. Dal momento che effettivamente bisogna ancora capire esattamente la natura di questa ingiustizia. Non si può paragonarla a nessun'altra. La mancanza di libri non fa morire il corpo, e nemmeno l'anima o lo spirito: impedisce soltanto di essere uomo, di diventare uomo. Ecco perché non possiamo indignarci davanti all'ineguaglianza culturale come ci indignamo davanti all'ineguaglianza sociale. Queste due forme di ineguaglianza, anche se spesso vanno di pari passo, non si rivolgono allo stesso modo di vivere. Non si può, non si deve fare paragoni fra questi due ordini diversi dell'ingiustizia, non solo per decenza, perché è evidentemente più grave morire di fame che aver fame di libri; ma anche perché questo paragone non sarebbe fatto che a spese della cultura. Nell'ordine delle rivendicazioni prime, primarie, il pane prevarrà sempre sui libri, o, come dice Hannah Arendt il richiamo della miseria prevarrà sempre sul richiamo della libertà. Ma c'è dell'altro. Se la questione è veramente quella della vita con le opere, e dunque del dolore della vita senza le opere, non si può fare dell'assenza di “cultura” la sola negazione di un diritto. Perché se essere persona colta è essere pienamente uomo, allora “coltivarsi” è un dovere, oltre che un diritto. E' il dovere di far accedere in sé “la vita” in una forma più alta affinché diventi pienamente una vita d'uomo. Ora un diritto può essere conquistato socialmente, politicamente: e ciò è effettivamente indispensabile. Ma un dovere bisogna volerlo, e può quindi essere rifiutato. Nessuno rifiuterà un diritto che gli viene accordato, ma si può rifiutare di piegarsi a un dovere, perché esso è una costrizione e una obbligazione a uno sforzo. La partecipazione alla cultura, ai libri, alle opere dell'immaginazione e del pensiero è rimasta per lungo tempo e quasi esclusivamente l'appannaggio di un piccolo numero. In questo senso essere colto è un privilegio: dal momento che è l'accesso ad un bene ingiustamente rifiutato dalla maggioranza. L'errore fatale, la trappola in cui sono caduti molti intellettuali è stato di credere che la soppressione di questo privilegio passasse dalla negazione dell'idea stessa di cultura e non dalla soppressione degli ostacoli che mantiene al di fuori la grande massa dei non possessori. E' in questo modo che un movimento di pensiero, scaturito dalla ricerca sociologica, si è impegnato da alcuni decenni a mettere in atto quello che dovremmo chiamare una impresa generale di deligittimazione della cultura, e che si riassume così: i giudizi di valore, in materia di cultura, non sono che il riflesso della posizione sociale di colui che li proferisce, la “cultura” e i “libri” hanno solo la legittimità che conferisce loro la “violenza simbolica” della Scuola. Le conseguenze sono disastrose. Il dolore della “vita senza libri”, il dolore di essere consapevoli delle innumerevoli vite lasciate senza il soccorso delle parole, senza il ricorso ai libri, della “cultura” e delle “opere” diventa allora senza oggetto. Non è dunque più una ingiustizia (anche se l'uso di questa parola può suscitare delle riserve) l'essere privato di libri e di cultura; e nemmeno un privilegio. Libri e cultura non sono altro che falsi valori che è bene demistificare: la cultura non è più che l'ultimo baluardo la cui distruzione contribuirà a cancellare una classe condannata dalla storia. Questa pericolosa teoria non ha sempre trovato la confutazione che meritava, al contrario, la Scuola e i media si sono visti sopraffare da perniciosi sofismi. Numerosi studi sociologici hanno ripreso ed ampliato questo tema, dandogli la garanzia scientifica che gli mancava, cancellando, almeno apparentemente, i fondamenti politici che li sottendevano, ricamando in fondo sullo stesso motivo: la cultura è una impostura; il gusto e la frequentazione delle opere non sono il momento dell'emancipazione, ma il puro riflesso del livello scolastico e
del posto che si occupa nell'apparato produttivo. Pertanto, dalla constatazione della separazione culturale si possono trarre due opposte conseguenze: assolutamente inconciliabili. La prima consiste nel deplorare che l'ineguaglianza sociale si raddoppi quasi sempre con una ingiustizia culturale: nel deplorare che una ingiusta ripartizione delle ricchezze offra agli uni Alla ricerca del tempo perduto mentre la grande massa è condannata a Noi due, a Confidenze e alle sacre serate televisive. Perciò la partecipazione alle opere superiori della cultura e dello spirito sono riservate ad un piccolo numero di eredi. Ne consegue l'obbligo di militare perché sia esteso a tutti o almeno al maggior numero, e in particolare dalla Scuola, ciò che è riservato ad alcuni. La seconda è, al contrario, quella del nichilismo culturale: i pretesi valori della cultura non sono che valori mediante i quali si tradisce ( o si rivendica) la propria appartenenza di classe. Luogo dove si riflette e si riproduce la divisione della società in classi, la cultura non è che un segno, un marchio di distinzione degli strati superiori della società. Non avendo più legittimità la rivendicazione per una ripartizione ed una estensione della “cultura colta”, la lotta contro i “privilegi culturali” ormai non ha più come fine di rendere a tutti un bene comune, che un esiguo numero confiscava indebitamente, ma di dimostrare che la cultura gode essa stessa di un privilegio esorbitante e immeritato, allorquando essa ottiene di essere considerata come un valore. Questa posizione può conciliarsi con l'egualitarismo democratico. Essa offre a ciascuno la soddisfazione che si augura nella capacità di cui egli può fare prova di afferrare oggetti di cultura eguali e intercambiabili. La lettura non dipende dall'opera, ma da ciò che sono capace di metterci. Una felice diversità democratica concede così alla dattilografa de trovare in “Violata la sera delle sue nozze” il nutrimento spirituale che altri ricevono da Anna Karenina. L'elogio delle differenze e della creatività si trasforma inevitabilmente in consenso alle disuguaglianze. La cultura colta finisce dunque per essere annoverata in ciò da cui tendeva a staccarsi: la cultura in senso antropologico del termine. Come dice Alain in uno stile un po' vecchiotto:”Una élite che non si preoccupa di istruire è più ingiusta di un benestante che vive dei suoi dividendi”. Una delle questioni più enigmatiche e più preoccupanti del nostro secolo è purtuttavia quella dell'accanimento degli intellettuali contro la cultura, altrimenti detto, quella del tradimento dei sapienti.... Chi è un saggio che tradisce? E' un uomo di lettere che non crede al loro valore emancipatore e che si adatta alla loro ripartizione ineguale tra gli uomini. Come si è arrivati sin qui? Come spiegare che l'intellettuale nato dai Lumi, successore di coloro che lo chiamarono il “Filosofo”, abbia potuto rompere a tal punto con il triplice ideale del XVIII secolo europeo: strappare l'uomo da tutte le forme di sudditanza, emanciparlo dal peso della natura, degli idoli e degli dei, e non accontentarsi più della diseguaglianza culturale e dell'ingiustizia sociale? Si coniugano parecchi motivi. La colpevolezza, di cui siamo stati tutti vittime, il rifiuto di essere un “cane da guardia” dei valori borghesi, la vergogna di essersi salvato solo lui, la paura di aver tradito i propri e abbandonato i poveri. Il terzo-mondismo che, completato dal motivo del relativismo culturale, del rispetto delle culture e delle differenze, ha capovolto la superiorità coloniale in ammirazione per le culture degli sfruttati. Leszek Kolakowski lo ha denunciato in una formula perfetta come “l'aberrazione alla quale sono inclini gli intellettuali una volta che sono riusciti a persuadersi che la solidarietà con le classi oppresse esige che essi ammirino e non che correggano ciò che è la più grande disgrazia di queste classi: la loro incapacità di partecipare allo sviluppo della cultura spirituale” (Lo spirito rivoluzionario). Gli ultimi decenni hanno così visto emergere una certa classe di intellettuali, di un nuovo “partito intellettuale” avrebbe detto Péguy, per cui la cultura non è più un difetto – errore dei populisti, ma errore generoso – senza essere purtuttavia ridiventata un valore, una possibilità che bisognerebbe offrire ai più: è rimasta alla peggio una illusione da abbattere, al meglio un oggetto da studiare. Eruditi, esperti in scienze umane, politologi, e persino specialisti in letteratura che attingono nei libri un sapere e non una lezione, uomini di cultura libresca che non hanno provato in se stessi il valore emancipativo dei libri, che spesso usano la cultura e i libri per assicurarsi delle “posizioni” nella stampa e nell'università, si sono rassegnati alla perdita di ciò che forse non avevano mai sperimentato: che la cultura e specificatamente le Lettere sono il luogo dove si opera il sottrarsi da sé, dalle proprie determinazioni, dalla vita ordinaria, dalla spenta ripetizione dei giorni e delle incombenze. Se ne vanno così, tradendo la loro missione educativa e nel resto del tempo vegetano nel quotidiano e nei passatempi. Più niente impedisce loro oggi di ignorare baldanzosamente l'esperienza dei libri e questa breccia da cui si apre il mondo, e la possibilità di diventare altro. Di conseguenza, se l'uomo dei libri non lo dice e non lo prova, chi lo farà al suo posto? L'adolescente delle periferie?
estratto da: LE DON DES MORTS di Daniele Sallenave

domenica 11 giugno 2017

Una corrispondenza Ragghianti-Baltrusaitis


Dopo la pubblicazione nel fascicolo n. 20 (1955) di “SeleArte” (pp. 7-17) del saggio-recensione “Anamorfosi” di Carlo L. Ragghianti, Jurgis Baltrusaitis inviò al critico la lettera sottostante. Questo studio è stato riproposto nel nostro blog, assieme a una precedente riflessione di Ragghianti, in data.. .

Nei primi anni di attività dell'Università Internazionale dell'Arte di Firenze, oltre i corsi esclusivamente destinati agli studenti iscritti, furono molti gli artisti e gli studiosi invitati a tenere un ciclo di conferenze o di laboratori talvolta aperti anche al pubblico colto. Queste iniziative, allora abbastanza inusuali in Italia, ebbe un rilevante e lusinghiero successo.

martedì 6 giugno 2017

{glossario} SUV



La vignetta, elegante, mostra il progredire del concetto estendendolo dall'automobile alla bicicletta; da questa, quando ai pattini e alle scarpe? Il SUV (acronimo di Sport Utility Vehicle, in realtà f.f. di fuoristrada) riflette generalmente nei suoi possessori una mentalità specifica: quella di chi vuole e non può o non ce la fa; raramente viene usato per le destinazioni progettuali, per le quali - per altro - ci sono mezzi più idonei e funzionali. Il SUV, quasi sempre acquistato come aggressivo strumento-minaccia di sopraffazione risulta una mania diffusa tra piccoli uomini che cercano in una protesi rassicurazione e così compensare le
proprie insufficienti prestazioni. Chissà se è ancora in commercio il fango spray che trent'anni fa veniva spruzzato per mostrare una illusoria pratica di impervi sentieri. Direi di no; questi SUV, specie quelli mastodontici, li vedo sempre lucidi, riflettenti deformata la realtà circostante.
I SUV sono macchine spropositate e sovradimensionate rispetto alle corrette esigenze; sono simboli di status coerenti con questa società impaurita e disorientata. Per di più i SUV, parcheggiati o circolanti, rompono quasi sempre quel che non si dice ma si pensa.
F.R.

venerdì 2 giugno 2017

Ragghianti e Pieraccini - Arte e politica


Come si vede nella riproduzione del dépliant-invito alla manifestazione, nella sede della Fondazione Ragghianti di Lucca il 19 Aprile di quest'anno è stato presentato il volume che il valente storico Maurizio Degl'Innocenti ha scritto sull'attività politica e sugli interessi e sulle promozioni dell'arte di Giovanni Pieraccini, già esponente di primo piano dell'ultimo vero (ci tengo a sottolinearlo) socialismo italiano. Per inquadrare la figura del quasi centenario compagno (allora anche chi sta scrivendo militava nel Partito Socialista Italiano) può anche bastare la biografia di Pieraccini che compare su Wikipedia, a differenza di quella colà di Carlo L. Ragghianti, men che mediocre e fuorviante. Però da quei dati biografici non può risultare a sufficienza l'oggettiva difficoltà di gestire, non solo diversamente dai democristiani, la “cosa pubblica” in ambiti importanti e delicati come il Ministero del Bilancio o quello dei Lavori Pubblici (e persino quello della Marina Mercantile, immagino assegnato per alchimie politiche contingenti) ma anche – con fatica similare a quella di Sisifo, penso – contrastare e resistere alla burocrazia e ai cosiddetti poteri forti, che allora lo erano davvero forti, radicati, e capaci di gestire i propri interessi (spesso non limpidi e combacianti con quelli della comunità nazionale). Anche come direttore de l' “Avanti!” Pieraccini si distinse positivamente, dato il ginepraio di voci dissonanti, degne del peggior Partito d'Azione, di militanze nel PSI vecchie (filo comuniste in buona parte) e nuove (spesso per tornaconto personale e con precedenti anche antitetici al pensiero della sinistra democratica): tanto è vero che per questo motivo, tra Carlo L. Ragghianti e il Direttore risultano incomprensioni e disattenzioni di questi – spiegabili soltanto con la necessità di mediare oltre i propri convincimenti – che non vengono taciute nel libro. A questo punto devo aprire una parentesi: non possiamo 

accettare la valutazione che lo storico dà dello screzio con Pieraccini (pp. 72,73), specialmente quando scrive “Il giudizio di Ragghianti era ingeneroso, e per certi versi, come abbiamo visto, infondato”. Nei paragrafi precedenti ho riconosciuto la difficoltà incontrata da Pieraccini, che al di là dei propri convincimenti, doveva gioco forza – stante la situazione generale del  partito – mediare. Però quello che non viene riconosciuto a Ragghianti è il giusto rammarico, il sacrosanto sdegno di essere considerato sullo stesso piano di ex-fascisti senza pentimento, senza palimodia che si accostavano al PSI perché al momento considerato co-detentore del potere (e quindi delle prebende) con la DC (già al completo), però carente di quadri qualificati per la bisogna (un po' come oggi capita ai “grillini”). Gente senza principi, incoerente, pronta – come, con altri, fecero più tardi – a “correre in soccorso” del PCI, quando sembrò che i comunisti condividessero l'accesso alla “stanza dei bottoni”. Quanto poi al libro su Mondrian e l'Arte del XX secolo (nota a p. 73) l'accostamento ai “nani” autori di altri studi convenzionali sull'artista, per Carlo Ludovico Ragghianti allora, come per noi oggi, è non solo inaccettabile ma offensivo. Il volume di R., infatti, rappresenta un'esperienza metodologica esemplare, eccezionale (come fu persino riconosciuto dalla Giuria del Premio Viareggio), un'interpretazione – certo anche “formalista”, e ci mancherebbe non lo fosse – ma storicamente originale, di quelle che fondano il futuro. La “storia” non si valuta sui contributi della cronaca, la quale va presa in considerazione per completezza di indagine, non comparata o contrapposta all'originalità e alle intuizioni che possono cambiare o sconvolgere i dati considerati acquisiti. Ad ogni buon conto qui di seguito riproduciamo la lettera del 20 Febbraio 1963 con la quale Ragghianti manifestava il suo disappunto.