Carlo e Licia

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giovedì 15 giugno 2017

Cultura, libri, società

E' chiaro che, senza la cultura e senza i libri, non ereditiamo niente, perciò non si può che provare un sentimento di dolore davanti alla suddivisione delle cose e della società che consiste nel lasciare i più in preda alla dittatura del tempo libero e dell' intrattenimento televisivo, e alla consapevolezza di saperlo privato del potente soccorso della cultura, della lettura e dei libri mediante i quali si diventa uomo. Questa separazione che scava tra gli uomini la privazione della cultura, dei libri, è dal punto di vista filosofico, politico, intollerabile perché separa l'uomo da se stesso e dal mondo. Si dirà: ma chi prova questo dolore, chi ne è soggetto? E si obbietterà: colui che vive senza i libri è come l'ignorante secondo Socrate, non sa ciò che ignora. Solo chi vive con i libri conosce ciò di cui gioisce e di cui l'altro è privato. Ma questo non è vero. Perché chiunque è “senza libro” o non ha l'uso dei libri e delle opere, poiché non può che vivere in modo imperfetto o incompleto, non può, in un certo qual modo, non esserne consapevole. Questo dolore può provarlo anche se non può dargli un nome. E' il sentimento o il presentimento terribile che”il vasto mondo comincia accanto”. Come dice una donna di casa citata da Pierre Bourdieu ne”La distinzione”: “Quando non si sa granché si resta un po' in disparte”. Come adattarsi a questa separazione, a questo vuoto, a questa finzione? E come trattarli? La questione ha diviso in modo grave coloro che comunemente vengono chiamati “intellettuali”, coloro cui non sono stati rifiutati i libri. Lottare contro questa ingiustizia? Accontentarsi? Il fatto stesso di chiamarla ingiustizia suscita alcune osservazioni. Dal momento che effettivamente bisogna ancora capire esattamente la natura di questa ingiustizia. Non si può paragonarla a nessun'altra. La mancanza di libri non fa morire il corpo, e nemmeno l'anima o lo spirito: impedisce soltanto di essere uomo, di diventare uomo. Ecco perché non possiamo indignarci davanti all'ineguaglianza culturale come ci indignamo davanti all'ineguaglianza sociale. Queste due forme di ineguaglianza, anche se spesso vanno di pari passo, non si rivolgono allo stesso modo di vivere. Non si può, non si deve fare paragoni fra questi due ordini diversi dell'ingiustizia, non solo per decenza, perché è evidentemente più grave morire di fame che aver fame di libri; ma anche perché questo paragone non sarebbe fatto che a spese della cultura. Nell'ordine delle rivendicazioni prime, primarie, il pane prevarrà sempre sui libri, o, come dice Hannah Arendt il richiamo della miseria prevarrà sempre sul richiamo della libertà. Ma c'è dell'altro. Se la questione è veramente quella della vita con le opere, e dunque del dolore della vita senza le opere, non si può fare dell'assenza di “cultura” la sola negazione di un diritto. Perché se essere persona colta è essere pienamente uomo, allora “coltivarsi” è un dovere, oltre che un diritto. E' il dovere di far accedere in sé “la vita” in una forma più alta affinché diventi pienamente una vita d'uomo. Ora un diritto può essere conquistato socialmente, politicamente: e ciò è effettivamente indispensabile. Ma un dovere bisogna volerlo, e può quindi essere rifiutato. Nessuno rifiuterà un diritto che gli viene accordato, ma si può rifiutare di piegarsi a un dovere, perché esso è una costrizione e una obbligazione a uno sforzo. La partecipazione alla cultura, ai libri, alle opere dell'immaginazione e del pensiero è rimasta per lungo tempo e quasi esclusivamente l'appannaggio di un piccolo numero. In questo senso essere colto è un privilegio: dal momento che è l'accesso ad un bene ingiustamente rifiutato dalla maggioranza. L'errore fatale, la trappola in cui sono caduti molti intellettuali è stato di credere che la soppressione di questo privilegio passasse dalla negazione dell'idea stessa di cultura e non dalla soppressione degli ostacoli che mantiene al di fuori la grande massa dei non possessori. E' in questo modo che un movimento di pensiero, scaturito dalla ricerca sociologica, si è impegnato da alcuni decenni a mettere in atto quello che dovremmo chiamare una impresa generale di deligittimazione della cultura, e che si riassume così: i giudizi di valore, in materia di cultura, non sono che il riflesso della posizione sociale di colui che li proferisce, la “cultura” e i “libri” hanno solo la legittimità che conferisce loro la “violenza simbolica” della Scuola. Le conseguenze sono disastrose. Il dolore della “vita senza libri”, il dolore di essere consapevoli delle innumerevoli vite lasciate senza il soccorso delle parole, senza il ricorso ai libri, della “cultura” e delle “opere” diventa allora senza oggetto. Non è dunque più una ingiustizia (anche se l'uso di questa parola può suscitare delle riserve) l'essere privato di libri e di cultura; e nemmeno un privilegio. Libri e cultura non sono altro che falsi valori che è bene demistificare: la cultura non è più che l'ultimo baluardo la cui distruzione contribuirà a cancellare una classe condannata dalla storia. Questa pericolosa teoria non ha sempre trovato la confutazione che meritava, al contrario, la Scuola e i media si sono visti sopraffare da perniciosi sofismi. Numerosi studi sociologici hanno ripreso ed ampliato questo tema, dandogli la garanzia scientifica che gli mancava, cancellando, almeno apparentemente, i fondamenti politici che li sottendevano, ricamando in fondo sullo stesso motivo: la cultura è una impostura; il gusto e la frequentazione delle opere non sono il momento dell'emancipazione, ma il puro riflesso del livello scolastico e
del posto che si occupa nell'apparato produttivo. Pertanto, dalla constatazione della separazione culturale si possono trarre due opposte conseguenze: assolutamente inconciliabili. La prima consiste nel deplorare che l'ineguaglianza sociale si raddoppi quasi sempre con una ingiustizia culturale: nel deplorare che una ingiusta ripartizione delle ricchezze offra agli uni Alla ricerca del tempo perduto mentre la grande massa è condannata a Noi due, a Confidenze e alle sacre serate televisive. Perciò la partecipazione alle opere superiori della cultura e dello spirito sono riservate ad un piccolo numero di eredi. Ne consegue l'obbligo di militare perché sia esteso a tutti o almeno al maggior numero, e in particolare dalla Scuola, ciò che è riservato ad alcuni. La seconda è, al contrario, quella del nichilismo culturale: i pretesi valori della cultura non sono che valori mediante i quali si tradisce ( o si rivendica) la propria appartenenza di classe. Luogo dove si riflette e si riproduce la divisione della società in classi, la cultura non è che un segno, un marchio di distinzione degli strati superiori della società. Non avendo più legittimità la rivendicazione per una ripartizione ed una estensione della “cultura colta”, la lotta contro i “privilegi culturali” ormai non ha più come fine di rendere a tutti un bene comune, che un esiguo numero confiscava indebitamente, ma di dimostrare che la cultura gode essa stessa di un privilegio esorbitante e immeritato, allorquando essa ottiene di essere considerata come un valore. Questa posizione può conciliarsi con l'egualitarismo democratico. Essa offre a ciascuno la soddisfazione che si augura nella capacità di cui egli può fare prova di afferrare oggetti di cultura eguali e intercambiabili. La lettura non dipende dall'opera, ma da ciò che sono capace di metterci. Una felice diversità democratica concede così alla dattilografa de trovare in “Violata la sera delle sue nozze” il nutrimento spirituale che altri ricevono da Anna Karenina. L'elogio delle differenze e della creatività si trasforma inevitabilmente in consenso alle disuguaglianze. La cultura colta finisce dunque per essere annoverata in ciò da cui tendeva a staccarsi: la cultura in senso antropologico del termine. Come dice Alain in uno stile un po' vecchiotto:”Una élite che non si preoccupa di istruire è più ingiusta di un benestante che vive dei suoi dividendi”. Una delle questioni più enigmatiche e più preoccupanti del nostro secolo è purtuttavia quella dell'accanimento degli intellettuali contro la cultura, altrimenti detto, quella del tradimento dei sapienti.... Chi è un saggio che tradisce? E' un uomo di lettere che non crede al loro valore emancipatore e che si adatta alla loro ripartizione ineguale tra gli uomini. Come si è arrivati sin qui? Come spiegare che l'intellettuale nato dai Lumi, successore di coloro che lo chiamarono il “Filosofo”, abbia potuto rompere a tal punto con il triplice ideale del XVIII secolo europeo: strappare l'uomo da tutte le forme di sudditanza, emanciparlo dal peso della natura, degli idoli e degli dei, e non accontentarsi più della diseguaglianza culturale e dell'ingiustizia sociale? Si coniugano parecchi motivi. La colpevolezza, di cui siamo stati tutti vittime, il rifiuto di essere un “cane da guardia” dei valori borghesi, la vergogna di essersi salvato solo lui, la paura di aver tradito i propri e abbandonato i poveri. Il terzo-mondismo che, completato dal motivo del relativismo culturale, del rispetto delle culture e delle differenze, ha capovolto la superiorità coloniale in ammirazione per le culture degli sfruttati. Leszek Kolakowski lo ha denunciato in una formula perfetta come “l'aberrazione alla quale sono inclini gli intellettuali una volta che sono riusciti a persuadersi che la solidarietà con le classi oppresse esige che essi ammirino e non che correggano ciò che è la più grande disgrazia di queste classi: la loro incapacità di partecipare allo sviluppo della cultura spirituale” (Lo spirito rivoluzionario). Gli ultimi decenni hanno così visto emergere una certa classe di intellettuali, di un nuovo “partito intellettuale” avrebbe detto Péguy, per cui la cultura non è più un difetto – errore dei populisti, ma errore generoso – senza essere purtuttavia ridiventata un valore, una possibilità che bisognerebbe offrire ai più: è rimasta alla peggio una illusione da abbattere, al meglio un oggetto da studiare. Eruditi, esperti in scienze umane, politologi, e persino specialisti in letteratura che attingono nei libri un sapere e non una lezione, uomini di cultura libresca che non hanno provato in se stessi il valore emancipativo dei libri, che spesso usano la cultura e i libri per assicurarsi delle “posizioni” nella stampa e nell'università, si sono rassegnati alla perdita di ciò che forse non avevano mai sperimentato: che la cultura e specificatamente le Lettere sono il luogo dove si opera il sottrarsi da sé, dalle proprie determinazioni, dalla vita ordinaria, dalla spenta ripetizione dei giorni e delle incombenze. Se ne vanno così, tradendo la loro missione educativa e nel resto del tempo vegetano nel quotidiano e nei passatempi. Più niente impedisce loro oggi di ignorare baldanzosamente l'esperienza dei libri e questa breccia da cui si apre il mondo, e la possibilità di diventare altro. Di conseguenza, se l'uomo dei libri non lo dice e non lo prova, chi lo farà al suo posto? L'adolescente delle periferie?
estratto da: LE DON DES MORTS di Daniele Sallenave

Danièle SALLENAVE: Le don des morts, riassunto


Da secoli i libri sono il lascito delle generazioni scomparse, il dono che ci fanno i morti per aiutarci e vivere.
Nella nostra cultura, vivere senza i libri è dunque una privazione, un tormento che non ha paragoni.
Senza i libri ogni vita è una vita ordinaria. Non avere esperienza letteraria non impedisce né di conoscere né di sapere,e nemmeno di essere “persone colte”: alla vita usuale vissuta manca soltanto di essere una vita peculiare, perché le lettere sono il nostro linguaggio metamorfosato; sono parole nostre: ed ecco 





che, nel singolare colloquio del libro con il suo lettore, si aprono l'esperienza ampliata, e il pensiero, e il sogno, e la possibilità di essere se stessi, per davvero, nella società. 
L'esperienza dei libri non è dunque, nella nostra vita, la parte di un sogno, un lusso gratuito, un passatempo superiore o un segno di distinzione. E gli intellettuali si ingannano profondamente quando si adoperano a denunciarne l'elitarismo invece di far in modo che alla maggioranza si apra il regno emancipatore del pensiero tramite i libri.

Notizia Biografica 


Nata ad Angers nel 1940, compie gli studi secondari nel Liceo di Angers ed entra nella classe preparatoria al Liceo Fénelon a Parigi. Nel 1961 è ammessa alla Scuola Normale Superiore delle giovani fanciulle di Sèvres (boulevard Jourdan) e nel 1964 alla aggregazione in Lettere Classiche, poi diviene professoressa al Liceo di Beauvais. Nel 1968 diventa assistente all'Università Parigi X Nanterre, quindi libera docente nel 1973. Comincia allora una tesi sotto la guida di Roland Barthes ed indirizza il suo insegnamento verso la poetica del racconto in letteratura e nel cinema. Nel 1975 pubblica il suo primo racconto Paysage des ruines avec personnages e nel 1980 riceve il premio Renaudot per Les portes de Gubbio.E' autrice di una trentina di opere, romanzi, saggi, racconti di viaggio, opere teatrali. Nel 1988 ha ricevuto il premio del giovane teatro dell'Académie Française, nel 2005 il gran premio dell'Académie per l'insieme della sua opera ed il gran premio Jean Giono, e nel 2008 il premio di letteratura europea Jean Monnet. Dal 1976 al 1990 ha assicurato la sua


collaborazione artistica presso Antoine Vitez. E' stata redattore capo di varie riviste, tra cui il Messagger Européen e Temps modernes, e collabora regolarmente con vari giornali. Sulla sua opera sono stati organizzati due convegni internazionali, nel 1999 dall'Università di Angers e nel 2015 dall'Università Parigi III. Fino al 2014 ha tenuto una cronaca settimanale su France Culture. Dal 2013 presiede l'Alto Comitato per le commemorazioni nazionali ed è membro della giuria di vari premi, tra cui il premio Foemina, il premio Simone de Beauvoir per la libertà delle donne, il premio della città di Brive per la lingua francese e il premio per il romanzo storico degli Appuntamenti di storia di Blois. Anima un festival letterario annuale a Savennières, vicino ad Angers, dove insegnavano i suoi genitori. Partecipa regolarmente ad interventi sulla letteratura nelle scuole, ed ha fondato ed anima l'associazione Silence, on lit! per promuovere un momento di lettura quotidiana nelle collettività. Eletta il 7 aprile 2011 all' Académie Française, subentrando nel seggio di Maurice Druon.

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