Carlo e Licia

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giovedì 29 aprile 2021

“Gautier e il teatro come visione” di C.L. Ragghianti. Appendice con iconografia, poesie, critica.

Questo secondo contributo di scritti sul teatro di Carlo L. Ragghianti – come segnalato nel precedente post I Goncourt e il teatro dell'11 marzo 2021 – avrebbe dovuto essere il primo secondo l'autore. Ciò non è avvenuto per la momentanea irreperibilità in Archivio dell'edizione originale del saggio, pubblicato in “Letterature moderne”, rivista fondata e diretta da Francesco Flora.

Ebbi il piacere e l'onore di incontrare casualmente e conoscere l'illustre storico e critico nel 1961 (l'anno prima della sua morte) a Bologna, dove avevo portato il babbo per incontri con i compagni socialisti locali. Essendo irreperibili Gnudi e Cavalli, mio padre decise di portarmi a cena nel più rinomato ristorante della mia città natale (Il pappagallo?). Qui trovammo in solitaria abbuffata Flora alle prese ancora con gli antipasti. Ci invitò a mangiare con lui e, saltando gli antipasti, mi associai alla sua serena voracità con particolare entusiasmo; mio padre, come sempre fu parco commensale. Professore vocato com'era, Flora riuscì tra un boccone e l'altro a inondarmi di domande retoriche cui si rispondeva ed altre risposte spiazzanti, spesso facete, dando giudizi anche stravaganti, mai maldicenti. Ebbe solo un momento di mestizia quando mi domandò se da buon goliardo conoscevo e frequentavo in facoltà Andrea Margheri. Certo che lo conoscevo, era anzi il leader nazionale dell'UGI, cui aderivo e rappresentavo nell'Organismo studentesco di Firenze; ignoravo però il legame familiare che li univa (Andrea aveva “sedotto”, parola di Flora, sua nipote lasciandole la conseguente prole). Racconto ciò perché questo ricordo ha rievocato la memoria di Rodolfo Margheri – pittore, incisore e padre di Andrea – e provocato il post che pubblicherò a breve.

Nel citato post sui Goncourt consideravo anche l'importanza e la mole di interventi nel teatro nel pensiero di C.L.R. con l'intenzione di riproporre almeno una parte. In questo saggio le riflessioni di R. dimostrano l'importanza del poeta e romanziere Gautier nello sviluppo della concezione del teatro forma espressiva in senso “visivo”, di fenomeno autonomo non “identificato” nel passato. Scrittori come Gautier, cioè che “in senso proprio” non furono drammaturghi, né coreografi ma contribuirono a intuizioni e sviluppi avvenuti nel Novecento.

Come nel caso precedente dei Goncourt, riporto una documentazione collaterale, che può anche essere non pertinente col teatro ma che è appropriata allo scrittore. Il quale è uno dei grandi poeti del suo tempo, come sostiene il noto storico e critico Gustave Lanson (1857-1934), la cui imponente Storia della letteratura francese (prima ed. 1894) mio padre suggerì d'acquistare piuttosto impositivamente e di conservare in biblioteca, dove tuttora si trova nell'edizione voluta da Leo Longanesi e da cui riproduco le pagine direttamente riguardanti Théophile Gautier. Circa la sua poesia riporto una pagina “divulgativa”, scritta dal giovane G. per il “Musée des Familles” (Janvier 1842).

Della documentazione che ritengo opportuno mostrare propongo inizialmente una serie di ritratti di questo caro personaggio dalla testa leonina, dal corpo di un barilotto di birra, con sogni di spadaccino abile e seduttore.

Quindi tre pagine di Adolphe Boschot dal “Suplément artistique” di “Le Figaro”, di cui ho smarrito la data (primi anni Venti?). Tra gli studiosi e accademici “francesisti” italiani riporto per primo lo scritto La Maupin di Arrigo Cajumi (1899-1955), giornalista, saggista, antifascista gobettiano, amico di Salvatorelli, di Pannunzio e di tanti altri collaboratori de “Il Mondo”. Carlo L. Ragghianti fu ammiratore, talora seguace, talora allievo o amico dei più vecchi, amico dei coetanei e, con tutti loro, aveva condiviso studi, interessi, passioni intellettuali nei confronti dei giganti, o comunque originali antesignani, dell'Esagono, quali per citarne solo qualcuno Flaubert, Hugo, Zola e Anatole France, Tallemant des Reaux … Però, nonostante molti cari e illustri amici e colleghi in comune, tra Cajumi (fiero antipatizzante di Benedetto Croce) e Ragghianti ci fu soltanto reciproca conoscenza, un contatto diretto e uno indiretto. Il 24 gennaio 1942 R. da Modena scrive a C. proponendogli di partecipare alla propria gestione di “Emporium”. Nel marzo 1949 Umberto Segre scrive due volte a R. . circa l'avere da parte di C., già direttore e proprietario della testata “La Cultura”, il consenso perché R. possa intitolare la propria nuova rivista (sostitutiva di “La Critica d'Arte”, che Sansoni non voleva cedergli) “La cultura artistica”. Quanto al resto per Cajuni mio padre era troppo crociano e hegeliano, mentre la sua formazione proveniva da David Hume e dal pragmatismo britannico. Per Ragghianti il Cajumi era un eclettico, colto ma sostanzialmente inconcludente. In comune avevano una sconfinata ammirazione per Camillo Cavour, non credo – però – per gli stessi motivi. Vittorio Santoli (1901-1971), dalla fine della guerra per alcuni anni molto vicino a mio padre (passammo non a caso – mitiche per noi bambini – le estati 1948-1950 a Bellavalle -Pt-, dove i Santoli erano la famiglia più importante della comunità), come presentatore del libro emblematico di Cajumi Pensieri di un libertino (1950) scrive: “Scrittore aforistico e frammentario, egli infatti è estremamente deciso e preciso nelle sue reazioni. E' questa caparbia coerenza, che così spesso finisce nella chiusura, a irritare ma anche ad attirare il lettore; a dare incisività al suo giudizio e nerbo al suo stile: acre, virile. / Scritti sul tramonto (come ora vediamo) di una ricca stagione di critica letteraria e anzi di un'intera civiltà, questi Pensieri ci ripropongono il presupposto e l'essenza di ogni vera critica: un gusto educato e preciso, coraggioso nel giudizio”.








Personalmente non posso condividere l'anticrocianesimo viscerale e un po' snobistico, però mi trovo ad agio nello stile e nella “aggressività” della forma mentis di Cajumi. Ritengo perciò di allestire un post di e su Cajumi nel prossimo futuro.

L'altro contributo italiano, conciso e chiaro, è l'articolo Gautier. Il mago perfetto delle lettere francesi (“La Repubblica”, 4 aprile 2004), scritto da Daria Galateria (1950), studiosa accademica di precoce e meritata fama anche tra i “profani” come il sottoscritto. Qualche anno fa apprezzai molto la postfazione al libro L'Ussaro sul tetto di Jean Giono (1895-1970), formidabile racconto con radici nel romanzo storico ottocentesco, dimostrandosi degno erede del Capitan Fracassa di Théophile Gautier e de I Tre Moschettieri di Alexandre Dumas père.

Concludono il post due Etudes Poétiques dal “Musée des Familles” (1841) e alcune poesie della Anthologie de la poésie lyrique francaise, curata nel 1950 per Sansoni editore da Tommaso Landolfi e da Mario Luzi.

F.R. (19 marzo 2021)

lunedì 19 aprile 2021

Tono Zancanaro, 4/I - C.L. Ragghianti: Parlamento per Tono, 1. Testo e illustrazioni di Gibbo e con altri soggetti fino al 1975.

Post precedenti:

1. Finalmente Tono Zancanaro. 1. La Divina Commedia.

2. Tono Zancanaro, 2 – Pisa 1964: Montella, Ragghianti, Santini.

3. Tono Zancanaro (3) e Antonello da Messina.


Con questo quarto nostro intervento sull'opera di Zancanaro, Carlo L. Ragghianti conclude col saggio Parlamento per Tono il suo percorso analitico di interpretazione e di ricostruzione del fare dell'artista. Nei successvi scritti, che riproporremo, lo storico preciserà ed approfondirà l'operato dell'amico artista. Questo Parlamento riguarda soprattutto le origini e la lunga, nonché assolutamente originale stagione del Gibbo (e – aggiungo – coraggiosa dati i tempi del contesto operativo di Tono: fine del regime, Repubblica Sociale fascista) ma indaga anche le successive tappe espressive. Quindi vedremo disegni e incisioni sugli altri temi cari a Tono, da Levana alle mondine, dalla caruseria siciliana al rock&roll, ecc. fino al folgorante e fortunato incontro con la litografia a colori. Questa intensa attività avverrà esclusivamente presso il litografo Busato di Vicenza, magistrale aiuto prima poi coadiuvatore nella complessa preparazione per l'esecuzione, cosa che Tono affrontava in prima persona, persino abbarbicato alla macchina – come raccontava talvolta – per realizzare gli effetti e le sfumature ottenute dalle tante lastre di zinco necessarie. Tante perché l'attività frenetica di Tono richiedeva l'uso di un alto numero di lastre, se si fosse ricorso al metodo classico di una pietra per ogni colore ci sarebbero stati tempi e spese insostenibili. La foga, l'impeto di Tono ne fanno uno dei non numerosi artisti della litografia autenticamente autori del risultato finale. Si ricordi che negli anni Settanta si scoprì ufficialmente che molti pittori e scultori consegnavano un bozzetto e poi, a tiratura finita, ricomparivano per firmare l'operato degli artigiani. In conclusione Tono è stato l'autore indiscutibile delle proprie litografie e delle proprie incisioni.

Il saggio di Carlo L. Ragghianti fu concepito per la monumentale monografia Il Gibbo (Galleria La Loggetta, Ravenna e Edizioni Bora, Bologna, 1971), di cui sono fiero di essere stato il redattore dell'imponente catalogo dei disegni. All'epoca avevo vari impegni editoriali ("Critica d'Arte", Editore Casini per l'Arte in Italia, soprattutto) perciò fui coinvolto nell'impresa "Gibbo" per alcuni entusiasmanti mesi di lavoro tra quei 2002 fogli di carta di misure differenti, di colore dal bianco del foglio Fabriano, al grigiastro, a diverse sfumature di avorio, ecc. E, benché ormai "veterano" della catalogazione di disegni, fui onorato in modo particolare di questo lavoro e ancora sento gratitudine nei confronti dell'amico Tono per la fiducia riposta nei miei confronti. Non è cosa da poco aver consegnato un patrimonio consistente (senza inventari seppur sommari, senza assicurazione) quella caterva ingombrante e disordinata di opere uniche, quali sono i disegni, per di più per un lungo periodo di tempo. La mia, per altro ampia, stanza di casa era diventata un laboratorio, un'orificeria cartacea nella quale le esigenze di conservazione del materiale prezioso convivevano con le 

centinaia di libri preesistenti e gli altri incartamenti. Insomma un caos pulito con cartelle e cartelline in continuo smistamento. E la custodia! Persino le indispensabili pulizie del letto e del bagno ad opera della esperta e precisa Pina avvenivano soltanto in mia presenza. Come uscivo dalla stanza la chiudevo a chiave, così anche la notte mentre dormivo chiudevo dall'interno. In camera per tutto quel tempo non fumai nemmeno una sigaretta, lo facevo nel bagno.

Misurare i disegni, trascriverne i titoli e le battute estemporanee di Tono, costituì un susseguirsi di sorprese e, ai pasti, di risate dei familiari contagiati dal mio racconto. Ero anche sopraffatto dall'abilità fantastica di Tono che risultava originale anche in soggetti ripetuti molte volte, alcuni dei quali a prima vista sembravano copie ma non lo erano perché sempre almeno un dettaglio, un quid di differenza rendevano il foglio assolutamente originale e imprevedibile.

Naturalmente mio padre qualche anno dopo considerò che il suo lungo testo conteneva tutti gli spunti e le indicazioni per risultare un excursus su tutti gli aspetti dell'opera di Tono fino al 1976. Decise quindi di farne un fascicolo speciale di "Critica d'Arte" (n.141-142, mag.-ago. 1975). Successivamente volendo l'editore ristampare il fascicolo della rivista perché esaurito e ancora richiesto da lettori e biblioteche, C.L.R. decise di farne un volume a sé stante, utilizzando tutti gli "impianti" della rivista. Come redattore aggiunsi un Indice dei nomi e un Indice analitico e il libro fu pronto; poi, rilegato con sovracoperta e testo di quarta di copertina, fu stampato e distribuito con le strenne natalizie del 1975. Mi risulta anche che fu un piccolo successo commerciale, ossigeno per la Nuova Vallecchi, da poco nata dal fallimento della gestione Montedison, ma come sempre già in difficoltà economiche.

In questo blog ripropongo il volume integralmente, però diviso in due postazioni, per motivi tecnici derivanti dal fatto che i post troppo lunghi sono spesso disturbati nella captazione dell'etere e risultano difettosi quando richiesti dall'utente di un computer.

La prima parte contiene il saggio di Carlo L. Ragghianti e gli Indici, ai quali in "Appendice" aggiungo la riproduzione del manoscritto di Tono Il sogno di Gibbo, tre pagine di getto che l'A. aveva consegnato a C.L.R. con i materiali documentari per poter scrivere Parlamento di Tono. Accludo, infine, anche la lettera manoscritta inviata il 9 febbraio 1976 a Ragghianti da Cesare Zavattini, un notissimo scrittore e personaggio in grado di apprezzare le "favole" di Tono e i ragionamenti e gli argomenti di Ragghianti. La seconda parte contiene le Tavole delle illustrazioni che rappresentano un percorso visivo dell'artista dalle origini (1931) al 1975.

F.R. (5 marzo 2021)



giovedì 15 aprile 2021

Licia Collobi Ragghianti e la “Mesoamerica,1” - culture di Tlatilco, olmeca e zapoteca.

Coniato nel 1943, col termine Mesoamerica si indica l'area geografica che comprende il Messico, il Guatemala, il Belize, l'Honduras, il Salvador fino al Costa Rica e le civiltà precolombiane ivi esistenti.

Licia Collobi, grazie a “SeleArte”, alla conoscenza delle lingue, alla solida metodologia e alla propria infinita curiosità scientifica, è divenuta una specialista autorevole della storiografia critica derivante dalle campagne archeologiche di quel complesso coacervo di stratificazioni avvenute nell'arco di un paio di millenni precedenti la genocida colonizzazione spagnola. La studiosa triestina ha anche indagato le civiltà preincaiche e il successivo “splendore” degli Incas e del resto dell'America Meridionale.

Mi pare opportuno cominciare a riproporre questi scritti di mia madre (nel caso specifico in collaborazione con mio padre Carlo L. Ragghianti, il quale diresse la scelta delle illustrazioni e suggerì alcune precisazioni sulle schede) con le analisi delle principali opere esposte al “Museo Antropologico di Città del Messico”, pubblicate in volume (1970) nella collana “Musei del Mondo”, coedizione internazionale concepita e stampata da Mondadori editore.

L'opera è importante perché innovativo per il pubblico messicano e per quello di altri paesi coinvolti nell'iniziativa è il metodo di analisi critica dei coniugi Ragghianti. Infatti l'impostazione è, se non proprio estranea, difforme da quella degli studiosi messicani, centrata sull'Antropologia (scienza che indaga i tipi e gli aspetti umani da un punto di vista morfologico, fisiologico, psicologico) disciplina ben lontana sia dall'archeologia che dalla critica e storia dell'arte, la quale è ricostruzione del fare dell'uomo come espressione visiva originale.

Carlo L. Ragghianti, direttore della collana “Musei del Mondo”, quando vide il materiale del Museo di Città del Messico, memore – come ricorda la moglie Licia nel contributo Mesoamerica a Palazzo Ducale (Critica d'Arte, V, n.8, 1988, p.32) – della grande impressione e stimolante occasione già nel 1962 fornita agli studiosi dalla mostra romana con 866 “oggetti precolombiani in missione di cultura” decise di riservare a loro la stesura dei testi del libro, dal quale li riproponiamo con le immagini corrispondenti.

Ricordo che, come in altre occasioni di collaborazione col coniuge (ad es. in “SeleArte”), la scrittura dei testi e il loro coordinamento è di Licia Collobi. Il contributo di C.L.R. è presente in alcune schede che richiedevano particolare definizione storico-critica. Personalmente non mi sento in grado di indagare; spero – ma lo reputo improbabile – che in Mondadori esistano ancora le pagine dattiloscritte dai Ragghianti separatamente. Ripeto però che è più verosimile che tutto il dattiloscritto sia di Licia che ingloba le osservazioni di Carlo.


In questa prima parte, dopo l'Avvertenza degli autori che indica i criteri e i problemi cronologici inerenti, e successivamente le due tavole sinottiche con le popolazioni e i luoghi, si riporta la prima sezione del Museo: Le culture di Tlatilco, olmeca e zatopeca (1110 a.C. - 200 d.C., pp. 17-44).

Il Messico era idealmente caro ai miei genitori perché prima e durante la guerra Mondiale fu antifascista e democratico. Per mio padre poi di prima formazione socialista non leninista il Messico era speciale accanto ad altri speciali avvenimenti. Egli infatti fu precoce ammiratore di Rosa Luxemburg, dei moti rivoluzionari germanici, del socialismo anarchico della “Commune” di Parigi, della rivoluzione russa in chiave trotzchista. [Fu perplesso sui moti armati di Torino – Gramsci – perché leninisti e immaturi]. Fin da bimbetto seguì l'epopea di Pancho Villa e quella di Emiliano Zapata, stigmatizzò il bieco imperialismo francese che impose al Messico uno strampalato impero cui si contrappose il mitico indigeno Benito Juàres. Nel 1948 con la mamma mi portò in un dopocena estivo in un cinema all'aperto (grande novità!) di Via Faenza a vedere Pancho Villa con Wallace Beery. Il Messico sostenne e accolse i profughi della Repubblica di Spagna, i combattenti apolidi e spagnoli franchisti rifugiati in Francia e lì campoconcentrati e liberati (1941) dallo sfacelo del Paese. Leo Valiani fu tra loro: in Messico scritte la Storia del socialismo del XX secolo, che mio padre fece stampare dopo la guerra dalle Edizioni U(omo) di Firenze, di cui era il direttore editoriale.

Infine un aneddoto inedito: negli anni Sessanta, per l'amore del Messico, per la simpatia riconoscente C.L.R. sequestrò una grande bandiera del Paese, quella con l'aquila ad ali aperte che uccide il serpente (in vigore dal 1916 al 1968). All'esterrefatto astante Pier Carlo Santini dichiarò: “Questa deplorevole sede (una mostra alla Triennale di Milano) non è degna di contenere la presenza di un simbolo nobile come questo!”. Rosetta ed io tuttora conserviamo il cimelio con sacro rispetto.

F.R. (21 marzo 2021)




domenica 11 aprile 2021

"Andrea del Sarto" di Raffaele Monti. Precisazioni, note e recensione di Carlo L. Ragghianti.

A differenza dei volumi precedenti in collana – curati con attenzione e rispetto dei tempi – di Ida Cardellini (Desiderio da Settignano, 1962; vedere il post del 24 dicembre 2020) e di Decio Gioseffi (Giotto architetto, 1964; vedere i post del 15 ottobre 2017 e del 24 aprile 2019), il libro Andrea del Sarto (1965) di Raffaele Monti fu pubblicato quale ottavo ed ultimo della serie "Saggi e documenti di Storia dell'Arte" dell'Università di Pisa, dopo traversie e sospensioni, invece che come primo, come inizialmente previsto.

In questo post dopo la documentazione del volume di Monti, riporto gli appunti e le note (quelle che ho rinvenuto nel mio Archivio) scritte da C.L.R. a Monti a proposito del suo studio. Probabilmente ci furono (e, forse, sono altrove) altre indicazioni del genere. Fatto sta che nell'esistenza "incasinata" di Lele alla fine degli anni Cinquanta – con lunghi soggiorni alternati tra Firenze, Milano, Pisa – una attenzione continuativa e costante non fu possibile da parte dell'A., attivo ma disperso in mille rivoli. Ricordo ancora il rush finale con gli amici che gli battevano a macchina le parti ancora manoscritte, e che essi – ed anche io con l'ufficio di C.L.R. - portavano via via gruppi di fogli alle PP.TT. perché a Milano fossero messi in bozze, che tornate rileggevamo per l'aspetto editoriale: correzione di refusi, segnalazione all'A. di incogruenze o lacune evidenti. L'impresa finalmente si concluse in questa ottima monografia.

Da essa riporto – oltre naturalmente alla Introduzione – a mo' di esemplificazione dei contenuti le parti riguardanti Il chiostro dello Scalzo di Firenze.




La Presentazione di Carlo L. Ragghianti precede il volume quale premessa esplicativa. L'articolo pubblicato dallo studioso lucchese su "La Stampa" di Torino il 4 maggio 1966 è recensione articolata della fatica dedicata da Raffaele Monti a Andrea del Sarto.

F.R. (8 marzo 2021)

mercoledì 7 aprile 2021

Alessandro Kokocinski.

Alessandro Kokocinski (1948-2017) è stato un pittore di vitale e vistosa passione per l'arte, esplicata anche in sculture e in scenografie. Nato in Italia, cresciuto in Argentina, di nuovo italiano fino alla morte, è stato uomo dalla vita per forza delle circostanze avventurosa ed è riuscito sempre a privilegiare e difendere la propria attività creatrice.

Al solito wikipedia fornisce un'ottica di parte dell'artista, trascurando del tutto il periodo italiano iniziale, quando “Koko” non sarebbe probabilmente uscito dall'indigenza e dalla marginalità senza le attenzioni dei fratelli Russo galleristi e la fraterna amicizia del pittore Riccardo Tommasi Ferroni più anziano di una dozzina d'anni alla cui maniera di dipingere per qualche tempo si è ispirato, pur conservando il proprio inconfondibile ductus dalla pennellata spesso “furiosa”. Ovviamente del volume con il saggio di Carlo L. Ragghianti fragoroso silenzio, come quando gli stronzi cadono nel water. Ovviamente non so se questo percorso biografico rispecchi la volontà di Kokocinski, anche se è presumibile che sia adeguata all'ambiente più recente del pittore. D'altra parte cercare negli artisti qualità umane e virtu sociali e morali differenti da quelle strettamente legate alla loro espressività è del tutto inutile, anche se ciò può fare...arrabbiare.

In questo post riporto soltanto il rapporto fugace però intenso tra Kokocinski e C.L.R., il quale estraneo all'ambiente abituale della Galleria dei Russo (rappresentantre, ad es. di Annigoni, di cui vidi nella loro sede di via dei Servi a Firenze un'orripilante esposizione riguardante le decorazioni affrescate della Chiesa di Ponte Uzzanese e i relativi studi e abbozzi) accettò di verificare di persona le opere dell'artista soprattutto perché questi risultò (ed era) aver avuto rapporti conflittuali, antagonisti con la giunta militare che in Argentina aveva imposto nuovamente una dittatura, ferocemente assassina. Perciò nel 1982 mia sorella Anna accompagnò in automobile nostro padre a Labro in provincia di Rieti dove, in una giornata esclusivamente dedita alla visita dello studio di Kokocinski, C.L.R. e K. ebbero un intenso scambio di opinioni, ricordi, considerazioni politiche e, soprattutto, di problemi e visioni artistici.

Voglio ricordare, tra parentesi, in questa circostanza un personaggio importante nell'infanzia lucchese di mio padre: zio Amilcare, un pampero – con sempre in testa il tipico cappello dei gauchos – italo-argentino che si esprimeva in un italiano primitivo e barocco, il quale aveva sposato, se non erro in seconde nozze, una delle sorelle del nonno mio omonimo.

Costui aveva a disposizione un angolo di spazio autonomo nel podere familiare di San Filipo alle porte di Lucca dove, quando si riposava dai blandi lavori d'orto e di pollaio, attingeva da un barilotto col coltello strisce di carne in una salamoia del Campinas brasiliano (nel quale da giovane aveva lavorato da migrante). Seduto, cerimoniosamente l'offriva poi anche al pronipote che la trovava squisita, infine saziato lo zio Amilcare si accendeva un sigaro toscano (della manifattura di Lucca) e raccontava al bambino storie di pampas, banditos, ecc. Ricordi mitici, “lessico familiare”.

Dalla succinta corrispondenza scritta, che ritengo sia integrale, è esplicito un rapporto simpatetico tra le loro personalità; rilevo anche che il telegramma con cui R. informa di non poter presenziare all'inaugurazione della Mostra di K., non rappresenta una scusa, giacché la sua salute era in quel periodo soggetta a violente crisi broncopolmonari, avvisaglie dei vicini disturbi finali. La lettera di R. a tal avv. Ciantelli, invece, è un esempio del consueto, se così si può dire, defatigante iter per ottenere l'attenzione di piccoli personaggi politici parolai e vanesi su faccende serie, importanti, sociali e intellettuali cui erano preposti negli Enti culturali nei Comuni ecc. ecc. Ciò ieri come oggi. Parassitismo di regime, ostacolo alla competenza, veicoli di corruzione delle persone alle fondamenta della democrazia. Energie spese invano per una sacrosanta esposizione a “La Strozzina nuova”, paralizzata da impotenti veti incrociati.

L'articolo di Paloscia, cronaca onesta, lo riporto perché temo rappresenti l'unico riscontro mediatico del passaggio a Firenze e in Toscana di un artista originale, non banale, drammatico e ironico, con una visione “scenografica” al di là della liliale natura morta di zonali coevi pittori locali.

Il dipinto che segue questa nota redazionale fu dono spontaneo ed affettuoso di Kokocinski a Carlo L. Ragghianti. Purtroppo la fotografia domestica fatta con mezzi di fortuna ad un'opera ingombrante, posta subito sotto il soffitto, che noi vegliardi non siamo in grado di spostare, non rende piena giustizia all'arte di Kokocinski. Se ne intravedono comunque le qualità cromatiche e stilistiche, la composizione su piani paralleli emergenti. Ma anche così “sacrificata” la lettura del dipinto lo mostra opera importante nel panorama dell'artista, quadro di impatto franco e diretto, da osservare in sede se non proprio museale, di evidente alto livello culturale.

F.R. (8 febbraio 2021)

sabato 3 aprile 2021

Arte Moderna in Italia 1915-1935 - Testi dei Critici, 23. FRANCO MANCINI (PANSINI, NOTTE, BRESCIANI, CRISCONIO, CIARDO, GATTO, VITI).

  


Post Precedenti:

1. RAFFAELE MONTI ( I ) - 16 giugno 2018
2. IDA CARDELLINI (LORENZO VIANI) - 28  settembre 2018 
3. UMBRO APOLLONIO (NATHAN, BIROLLI) - 19 settembre 2019
4. MARCELLO AZZOLINI (GUERRINI, CHIARINI, VESPIGNANI). 6 ottobre 2019
5/I. FORTUNATO BELLONZI (BOCCHI, D'ANTINO). 12 novembre 2019
5/II. FORTUNATO BELLONZI (MORBIDUCCI, SAETTI). 28 dicembre 2019
6. ALDO BERTINI (CREMONA, MAUGHAM C., PAULUCCI). 22 gennaio 2020.
7. ANNA BOVERO (BOSWELL, CHESSA, GALANTE). 5 febbraio 2020.
8. SILVIO BRANZI (SCOPINICH, BALDESSARI, NOVATI, SPRINGOLO, RAVENNA, KOROMPAY, ZANINI). 23 febbraio 2020.
9. GIOVANNI CARANDENTE (COMINETTI, MARINI). 4 marzo 2020.
10. ITALO CREMONA (REVIGLIONE). 7 maggio 2020.
11. ENRICO CRISPOLTI, I (BALLA, EVOLA, ALIMANDI, BENEDETTA). 2 aprile 2020.
12. ENRICO CRISPOLTI, II (COSTA, DIULGHEROFF, DOTTORI, FILLIA). 6 aprile 2020.
13. ENRICO CRISPOLTI, III (ORIANI, PANNAGGI, PRAMPOLINI, MINO ROSSO), 10 aprile 2020.
14. RAFFAELINO DE GRADA I (BOLDINI, ANDREOTTI). 22 giugno 2020.
15. RAFFAELINO DE GRADA II (BERNASCONI, CARPI, CARENA, FUNI). 6 luglio 2020.
16. ANTONIO DEL GUERCIO (MAZZACURATI, MENZIO, RICCI). 8 agosto 2020
17. TERESA FIORI (INNOCENTI). 1 settembre 2020.
18. CESARE GNUDI (FIORESI, PIZZIRANI, PROTTI). 2 ottobre 2020.
19. VIRGILIO GUZZI (MANCINI, CAVALLI, MONTANARINI, PIRANDELLO). 19 novembre 2020.
20. MARIO LEPORE (DEL BON, LILLONI). 21 dicembre 2020.
21. LICISCO MAGAGNATO (NARDI, PIGATO, FARINA, TRENTINI, ZAMBONI, BERALDINI, SEMEGHINI). 21 gennaio 2021.
22. CORRADO MALTESE (GERARDI). 4 marzo 2021.


L'architetto Franco Mancini (n. 1930) divenne titolare della cattedra di Scenografia (Venezia, dove fu determinante l'intervento di R. – da documento con lettera del 7.12.1963 – e Napoli dove nel 1984 diventa Direttore) ed è stato un prolifico studioso e operatore culturale, come ci mostra la sua dettagliata Biografia ufficiale (www.scenotecnica.com). L'esordio è brillante, non a caso a Napoli si svolse a lungo l'insegnamento di Emilio Greco e, soprattutto, quello di Vincenzo Ciardo, i quali non credo fossero estranei alla scelta metodologica di vicinanza di Mancini con Ragghianti, allora molto attivo e presente tramite la IFAS, i critofilm, nel mondo dello spettacolo visivo. In seguito Mancini si limiterà a essere una presenza costante nell'ambiente culturale ed artistico napoletano grazie ad una attività intensa ma circoscritta. Fu collaboratore di “Critica d'Arte”, ricordando nella propria bibliografia il saggio Scenografia: un rapporto da precisare (n. 62, maggio 1964) e con Un'esperienza scenografica. L'Isola di Arturo (n. 69, marzo 1965), che riproduciamo in questa sede, il secondo specialmente perché riguarda un film (da un libro di Elsa Morante, che mio padre mi indicò quale suo capolavoro) di Damiano Damiani, opera meno fortunata di quel che meriti sia all'epoca, sia tanto più oggi. Nella nostra rivista Mancini partecipò con altri articoli di storia della scenografia romantica. Riporto anche la lettera del 4 aprile 1968, nella quale C.L.R. coinvolge M. nella trasformazione della sezione 

“Spettacolo” di “Critica d'Arte”. Nel 1966, nell'ultimo fascicolo di "SeleArte" (n. 77-78) fu pubblicata la recensione al libro di Mancini Scenografia napoletana dell'Età Barocca (pp.50-51).  Questo progetto non ebbe poi pratica esecuzione giacché il redattore Cesare Molinari nel frattempo colse le sirene del '68 e si inconchigliò nell'Università di Firenze. Questa lettera risulta essere l'ultima del carteggio con lo scenografo.

Lo studioso ed operatore culturale, forse a causa anche della “freddezza” intervenuta nei rapporti tra Morisani e C.L.R., ma soprattutto perché imbozzolato nella “napoletaneità”, illustre e già “nobilissima” ma certamente dopo Benedetto Croce precipitata “assai” di livello. Vedo, infatti, più con sorpresa che con rammarico, che la partecipazione di Franco Mancini alla “Mostra Arte moderna in Italia 1915-1935” non è nemmeno citata nelle 5 fitte pagine della ricordata Biografia. Nella sezione “collaborazioni a cataloghi” vedo: “1966, un pretesto e qualche idea in “Il Presepe Ciciniello”, cui segue: “1970, La produzione nel periodo borbonico in figure presepiali...”. Ora: tacere, anzi nascondere, di aver collaboratoto in un consesso nel quale erano praticamente presenti i più illustri critici e storici dell'arte moderna, in una Mostra definita generalmente originale e innovativa, è un fatto inspiegabile...triste.

F.R. (4 febbraio 2021)