Carlo e Licia

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mercoledì 11 novembre 2020

Postilla circa un viaggio a Urbino per Adolfo Paolucci.

Questo post è il naturale seguito ed anche la conclusione di quello del 7 novembre 2020, intitolato Adolfo Paolucci pittore e incisore urbinate.

Nel 1993, in settembre, invitato da Guido Pinzani, che vi aveva uno studio e vi stava realizzando un Museo d'Arte Contemporanea, feci un viaggio ad Urbino (dove non ero mai stato). Lo studio e il Museo erano all'interno del Convento di S. Bernardino (adiacente all'omonima famosa chiesa) e in quel luogo dominante pernottai. Sì dormii in un Convento abitato da frati francescani, per altro – salvo l ' “ortolano” – tutti colti, impegnati nel sociale e almeno due docenti nelle Università italiane. Dopo una cena collettiva più che parca, austera, dopo aver preso cuscino e lenzuola per farmi il letto da una grande madia sempre aperta, dormii in una antica cella riservata agli ospiti – solitamente clericali – ma contigua a quella dei frati. Comunque non fui il “diavolo in convento” di molte storie e nemmeno “un garibaldino in convento” (Vittorio De Sica, 1942) ma soltanto un ospite e donatore al Museo – con un paio di opere della mia personale raccolta – già in parte allestito in alcune celle libere tra quelle adibite a Biblioteca.

Ero andato ad Urbino per tre motivi: visitare lo studio di Pinzani dove egli lavorava a sculture lignee importanti nell'arco della sua attività; per vedere il Museo del Convento in corso di allestimento; per conoscere Alfonso, il figlio maggiore di Adolfo Paolucci del quale cercavamo di promuovere l'opera.

Avendo ormai una certificata dimestichezza nella catalogazione delle opere d'arte, volevo suggerire la realizzazione del Catalogo delle numerose incisioni dell'artista ed anche una mappa della dislocazione delle pitture di cui si conservava traccia dell'esistenza. Non fu facile, anche perché l'Alfonso, palesemente tra il lusingato e il sospettoso, menava il can per l'aia. Visitai anche nella Casa di Raffaello l'Accademia omonima, una scuola d'arte più pragmatica dell'Università Internazionale dell'Arte di 

Firenze, però meno prestigiosa ma più fattiva nell'assistenza agli allievi.

Pinzani, poi, in particolare insisteva per vedere una ringhiera in ferro battuto da un celebre fabbro contemporaneo, decantata anche da uno storico locale di cui non ricordo il cognome. Perciò entrammo in una minuscola chiesetta (praticamente uno stanzone disadorno) sita nel Corso principale nella quale pregavano le suore del convento retrostante. Incappammo in una messa già in corso, tenuta da un anziano, seccato e rubicondo sacerdote assistito da un maturo omosessuale veramente imbarazzante. Era presente, schierato in una fila di banchi laterali all'altare, il Coro delle suore “in alta uniforme”, formidabile! (Seppi poi che era assai rinomato). Noi tre, soli estranei, rimanendo al di qua del divisorio rappresentato dalla famosa ringhiera, assistemmo all'intera cerimonia. Essendo l'unico non credente, osservavo con particolare attenzione e, devo confessarlo, l'esperienza di quel coro “angelico”, che ebbe veramente momenti di sublime intensità, è tra i ricordi più vivi della mia esistenza.

La missione era sostanzialmente fallita, data la mancanza di elementi concreti. In precedenza, il 6 novembre 1992 scrissi a Pinzani a proposito di fare una Mostra di Paolucci presso la Fondazione di Lucca, con presentazione di Raffaele Monti. L' 11 dicembre 1992 scrissi direttamente a Santini, il quale però morì pochi mesi dopo senza aver impostato niente di concreto. Nel settembre 1993 scrissi al figlio di Claudio Varese, tra l'altro, di visitare le opere di Paolucci presenti a Urbino, dove lui insegnava. Infine l'8 ottobre 1993 scrissi a Giuliano Donini dell'Accademia Raffaello – che avevo conosciuto durante la gita con Pinzani – cercando di muovere le acque stagnanti riguardo alla faccenda Paolucci.

Riproduco le lettere citate, lasciando nell'oblio altre comunicazioni inerenti ma secondarie.

F.R. (1 luglio 2020)


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