Carlo e Licia

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giovedì 3 ottobre 2019

Traversata di un trentennio, postilla.

Senza avere certamente la pretesa di accostare a Niccolò Machiavelli il cittadino e politologo Carlo L. Ragghianti, rilevo una analogia tra ciò che Alberto Asor Rosa ebbe a dire sull'autore de Il Principe e mio padre là dove ha scritto:
“...dunque è un signore che sta profondamente confitto nella realtà del suo tempo e ricerca anche le più elaborate teorizzazioni politiche da un'esperienza profondamente vissuta...è uno sconfitto...Arriva ad elaborare...sull'Italia, e poi sul governo, sulla politica, da una esperienza di sconfitta...che poi diventa una disfatta e poi una catastrofe” (da Machiavelli. La catastrofe italiana. Forum de “L'Espresso “ n. 13, p. 54 del 24 marzo 2019).
Per inciso, sono anche convinto che l'affermazione categorica di Geno Pampaloni a proposito della Traversata (che ricordo è ripubblicata 
integralmente in questo blog a partire dal 13 novembre 2017), è un'opera profetica, derivasse da un ragionamento analogo a quello che svolge su Machiavelli Asor Rosa. Ho ripescato questa postilla, stesa di getto dopo aver letto l'intervento dell'ormai anziano storico e critico letterario, già operaista, nel Forum de “L'Espresso”, perché si collega alla nota redazionale anteposta all' Intervista per la “Voce repubblicana” del 28-29 aprile 1984 a Carlo L. Ragghianti curata da Paolo Bonetti. In questo post del 3 agosto 2019, oltre all'intervista sono pubblicati una lettera di Ragghianti su Benedetto Croce e l'intervento Ragghianti e il tempo del disinganno che il filosofo di Fano tenne al Convegno su C.L.R. (Cassino, 21-22 ottobre 2001), pubblicato poi negli Atti editi nel 2004 da Franco Angeli col titolo Ragghianti critico e politico.




Bonetti sottolinea in questo testo il disincanto di R. per quella che lui stesso già nel 1946 (e prima del “tragico” congresso del Partito d'Azione), soleva definire la sconfitta della Resistenza, nonostante la vittoria sul campo. Questa certezza non era umorale, era basata su una lucida analisi della situazione italiana. A cui voglio accennare con parole mie anche per dare sfogo alla amarezza da lui patita per le incomprensioni e per i “tradimenti” (dico io) e per la mia indignazione di fronte a quel terribile aborto che è stato il Partito d'Azione, dilaniato da personalismi di alto livello ma anche di basso e bassissimo standard come quello di certi ”fiorentini”, magari anche illustri collaboratori dell' “autore” dei codici fascisti, in parte ancora vigenti oggidì. Nel 1946, dopo il referendum del 2 giugno, la situazione politica si può delineare anche come segue. Nei fatti emerse la D.C., soggetta soprattutto a Pio XII, e ancorata a concezioni retrive contenute a fatica da De Gasperi. Quindi non si poteva contare sui cattolici per una democrazia socialliberale. Il P.S.I. con una classe dirigente ridicola (al livello delle donzelle e dei faccendieri del cerchio magico) stava per scindersi da un lato nel P.S.D.I. di Saragat e minoranza di dubbia cultura socialista, dall'altro lato seguaci di Nenni abbagliati dal potere ottenuto da un patto di unità d'azione col P.C.I., totalmente asservito a Mosca e insieme tatticamente complice del mantenimento dei Patti Lateranensi del Duce nella Costituzione repubblicana. Il P.L.I. di Benedetto Croce (era forse l'unico che lo credeva idealista) conteneva una accozzaglia borghese di individui talmente egoisti da non essere stati nemmeno fascisti (o meglio fascisti “credenti”). C'era poi la destra vera e propria: circa un quarto dell'elettorato composto dai Qualunquisti di Giannini (una sorta di grillini di destra non fascisti per snobismo) che scalarono anche il P.L.I. di Croce. I fascisti – amnistiati e proteti come alibi per fare partire la “rivoluzione” comunista - veri e propri e non pentiti, anzi, si associarono nel M.S.I.; i monarchici (che non ci vuol molto a capire quanto fossero fedeli alla Repubblica italiana) esplosero soprattutto tra le plebi retrive ed analfabetiche meridionali. I repubblicani del P.R.I., che accolsero il grosso dell'ala socialistaliberale del P. d'Azione, 
erano divisi tra “progressisti” e democratici favorevoli alla nuova Costituzione e patriottardi ottocenteschi, massoni per lo più, quindi tiepidi verso uno Stato sociale e la difesa costituzionale. Perciò è evidente che la situazione era disperata per chi era animato da certi ideali e da certe convinzioni sociali progressiste. L'Italia si salvò da una deriva iberica e da una “rivoluzione” comunista non per lo “stellone” ma soltanto per gli osceni patti di Yalta e per la fermezza statunitense di non farsi sfuggire l'occasione di divenire la prima potenza del globo.
E' per questi motivi, implicitamente denunciati e descritti nel libro, che la Traversata fu rifiutata e ignorata generalmente dai politici e dai politologi che non avevano nessuna intenzione di lasciare il “compromesso storico”, così comodo, così spartitorio, così congiungente nel saccheggiare le risorse della collettività, e, soprattutto, esimeva dal far fronte alle proprie responsabilità pregresse e all' impegno per il futuro. Il libro era consapevole e denunciante tutto ciò fornendo proposte operative con suggerimenti alternativi per una seria soluzione riformista. R., comunque, non calcò la mano nella parte destruens.
Però la parte construens è ancora lì, in attesa di essere considerata, di non finire nell'utopia in seguito a reale “demokratura” o peggio; oppure di rimanere in un limbo in attesa che il “pendolo” vichiano risvegli la Traversata, la vivifichi novella, si fa per dire, Biancaneve.
Un'ultima considerazione: è chiaro che da una situazione politica del genere sopradetto in termini sommari ma realistici, C.L. Ragghianti non poteva che lasciare l'attività politica diretta e dedicarsi alla propria vocazione interiore di insegnante e di studioso, necessariamente rivolta agli altri. Certo si riservò la possibilità di realizzare la propria eticità sociale nei casi di effettiva e cogente necessità. Quindi C.L.R. nel 1946 non è stato – come sperato e sostenuto – costretto alla emarginazione dall'azione vincente di quei noti “...”. Ragghianti si è appartato dall'attività politica perché così voleva e poteva svolgere attività costruttive, innovative, culturali. Perché C.L. Ragghianti credeva nel futuro dell'Umanità.

F.R. (18 luglio 2019)

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