Carlo e Licia

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domenica 13 febbraio 2022

Arte Moderna in Italia 1915-1935 - Testi dei Critici, 35. GIUSEPPE RAIMONDI (ROMAGNOLI, BERTOCCHI,COLLIVA,CORAZZA). Con Appendice 1946, del 16 febbraio 2022.

 


Post Precedenti:

1. RAFFAELE MONTI ( I ) - 16 giugno 2018
2. IDA CARDELLINI (LORENZO VIANI) - 28  settembre 2018 
3. UMBRO APOLLONIO (NATHAN, BIROLLI) - 19 settembre 2019
4. MARCELLO AZZOLINI (GUERRINI, CHIARINI, VESPIGNANI). 6 ottobre 2019
5/I. FORTUNATO BELLONZI (BOCCHI, D'ANTINO). 12 novembre 2019
5/II. FORTUNATO BELLONZI (MORBIDUCCI, SAETTI). 28 dicembre 2019
6. ALDO BERTINI (CREMONA, MAUGHAM C., PAULUCCI). 22 gennaio 2020.
7. ANNA BOVERO (BOSWELL, CHESSA, GALANTE). 5 febbraio 2020.
8. SILVIO BRANZI (SCOPINICH, BALDESSARI, NOVATI, SPRINGOLO, RAVENNA, KOROMPAY, ZANINI). 23 febbraio 2020.
9. GIOVANNI CARANDENTE (COMINETTI, MARINI). 4 marzo 2020.
10. ITALO CREMONA (REVIGLIONE). 7 maggio 2020.
11. ENRICO CRISPOLTI, I (BALLA, EVOLA, ALIMANDI, BENEDETTA). 2 aprile 2020.
12. ENRICO CRISPOLTI, II (COSTA, DIULGHEROFF, DOTTORI, FILLIA). 6 aprile 2020.
13. ENRICO CRISPOLTI, III (ORIANI, PANNAGGI, PRAMPOLINI, MINO ROSSO), 10 aprile 2020.
14. RAFFAELINO DE GRADA I (BOLDINI, ANDREOTTI). 22 giugno 2020.
15. RAFFAELINO DE GRADA II (BERNASCONI, CARPI, CARENA, FUNI). 6 luglio 2020.
16. ANTONIO DEL GUERCIO (MAZZACURATI, MENZIO, RICCI). 8 agosto 2020
17. TERESA FIORI (INNOCENTI). 1 settembre 2020.
18. CESARE GNUDI (FIORESI, PIZZIRANI, PROTTI). 2 ottobre 2020.
19. VIRGILIO GUZZI (MANCINI, CAVALLI, MONTANARINI, PIRANDELLO). 19 novembre 2020.
20. MARIO LEPORE (DEL BON, LILLONI). 21 dicembre 2020.
21. LICISCO MAGAGNATO (NARDI, PIGATO, FARINA, TRENTINI, ZAMBONI, BERALDINI, SEMEGHINI). 21 gennaio 2021.
22. CORRADO MALTESE (GERARDI). 4 marzo 2021.
23. FRANCO MANCINI (PANSINI, NOTTE, BRESCIANI, CRISCONIO, CIARDO, GATTO, VITI).  3 aprile 2021.
24. GIUSEPPE MARCHIORI, 1 (ROSSI, LICINI). 3 maggio 2021.
25. GIUSEPPE MARCHIORI, 2 (SEVERINI, SPAZZAPAN). 28 maggio 2021.
26. MICHELANGELO MASCIOTTA, 1 (LEGA, VENNA LANDSMANN, CALIGIANI, COLACICCHI). 7 giugno 2021.
27. MICHELANGELO MASCIOTTA, 2. (DE PISIS, PEYRON, LEVASTI, CAPOCCHINI). 18 giugno 2021.
28. GIAN LORENZO MELLINI. (VITTORINI, SALIETTI, SANI, DE JURCO, BUGIANI). 23 luglio 2021.
(Il numero 29 sarà prossimamente pubblicato).
30. ALESSANDRO PARRONCHI (CARLINI, MOSES LEVY). 14 settembre 2021
31. GIACINTO NUDI. (RAFFAELE CASTELLO). 16 agosto 2021.
32. GUIDO PEROCCO (CADORIN, MARTINI, MOGGIOLI, PELLIS), 1. 23 ottobre 2021
32bis. GUIDO PEROCCO (ZECCHIN, CAVAGLIERI, GARBARI, CAGNACCIO DI S. PIETRO), 2. 6 novembre 2021
33. AGNOLDOMENICO PICA (DEPERO, BOLAFFIO, MARTINI, SIRONI, D'ALBISOLA, GHIRINGHELLI, USELLINI). 16 dicembre 2021
34. ATTILIO PODESTA' (MERELLO, RAMBALDI, SACCOROTTI). 24 gennaio 2022

Prima di trasferirsi a Bologna nel 1939, non so se Carlo L. Ragghianti conoscesse Giuseppe Raimondi (1898-1985) di persona. Certamente gli era nota l'attività di scrittore e di critico d'arte locale, onorato dalla grande amicizia di Giorgio Morandi fin dalla loro giovinezza. La corrispondenza di C.L.R. con G.R. mi risulta iniziata nel 1945 (8 - ? - maggio) con la cordiale richiesta, quale direttore delle Edizioni U(omo) di Firenze, di pubblicare un libro di saggi progettato nel 1942. La piuttosto corposa corrispondenza tra i due studiosi si svolse fino al 1967 e fu interrotta perché il pittore Sughi, promosso dal critico bolognese, non aveva vinto il Premio Marzotto 1967, di cui C.L.R. era presidente della giuria. Questo incidente, dovuto a permalosa considerazione di sé, è documentato anche nella seguente nota redazionale dedicata al pittore Giovanni Romagnoli. Vedasi in calce a questa nota redazionale le sette lettere che ho scelto come indicative del loro rapporto. Ricordando questo carteggio ho notato che nel nostro Archivio mancano 5 lettere spedite da C.L.R. (26 dic. 1953; 4 apr. 1953; 30 sett. 1954; 9 feb. 1956 e 14 lug. 1957) che mi auguro siano invece presenti nell'Archivio della Fondazione Ragghianti di Lucca, oppure sopravvivano tra le carte di Raimondi, di cui ignoro la sede di conservazione.

Raimondi era un patito, un malato del pettegolezzo letterario, attività che ad alto livello dei protagonisti si può considerare uno strumento utile per gli storici. Era, tutto sommato, un epigono dei fratelli Goncourt, con orizzonti culturali e temporali più vasti e variegati.

Le non poche volte che da ragazzino ho avuto l'occasione di frequentare Raimondi rimanevo basito ascoltatore, perché nonostante la giovane età e la naturale ignoranza, certi nomi e cognomi di personaggi viventi o di personalità ormai storicizzate li conoscevo comunque. Ricordo in particolare un incontro a Bologna e alcune occasioni a Firenze nelle quali in Palazzo Strozzi quando ero presente mi accodavo ad Alfredo Righi, segretario dal 1946 del babbo, il quale veniva spesso incaricato di "spupazzare" certi ospiti, mentre il "capataz" (da Totò; così, persino in mia presenza – anche se non l'ho mai detto a C.L.R. – tra loro l'Alfredo, il Federici, Santini e poi Lo Vullo, con altri assidui frequentatori dello Studio Italiano di Storia dell'Arte e de "La Strozzina", così chiamavano C.L. Ragghianti) svolgeva altre attività più urgenti ed importanti. Con Emilio Greco, ad esempio, vidi per la prima volta la Garbo interprete della spia Mata Hari. Con altri personaggi la "missione" risultava spesso istruttiva e rilassante da Donnini o alle Giubbe Rosse, con altri ancora però poteva essere anche noiosa e imbarazzante per Alfredo. Così con Raimondi, sempre infervorato e di tutti curioso (cosa fa Rosai? E Santi? e...) la faccenda mi sembrava asfissiante e il povero Alfredo stava al gioco fino allo sfinimento e quasi alla maleducazione.

Nelle mie visite con soggiorno alla "nonna" Rosina e a "zio" Cesare Gnudi a Bologna – imposte dallo stato di salute della mamma – Cesare mi portava spesso in giro: a visitare la Casa del Carducci; a salutare la mia tata 1940-42, l'indimenticabile Rina, morente per un cancro lungo e doloroso; a parlare (lui) con Morandi all'Accademia e persino in via Fondazza. Il Maestro era sempre contento e gentile con me, giacché – penso – sono stato l'unico bimbo che Morandi abbia frequentato dal giorno dopo la sua nascita (avvenuta dopo le 20) e visto abbastanza spesso anche a Firenze. Cesare mi portava anche a vedere film che reputava adatti alla mia età (ma non lo erano, io vedevo volentieri western, storie di guerra, Totò), con l'assistenza del caro Giancarlo Cavalli. Il Momi Arcangeli, che ricordavo benissimo perché tipo insolito, era sempre malato. Al punto da farmi ora sospettare che le beghe longhiane investissero anche la mia allora insignificante (persino di statura) persona. Infine lo zio mi portava con sé anche in ufficio, alla Soprintendenza, comunicante con la Pinacoteca Nazionale, nella quale ho percorso in lungo e in largo le sale da solo e molto felice. Capitò persino nel 1948 o inizi 1949 che zio Cesare mi portasse a trovare Raimondi nel suo "mitico" negozio di stufe invendute ed invendibili (i modelli più recenti erano come

quelli "russi" presenti anche nella mia vetusta scuola elementare). L'ambiente dava davvero più l'impressione di un agreste museo antropologico (tanto cari allora ai comunisti, che inondarono le nostre campagne e città rurali con questi rifugi di smessi strumenti di lavoro e sopravvivenza) che di un negozio. Fatto sta che fui mollato lì per un paio di lunghe ore da Cesare, impegnato altrove, in compagnia di Raimondi e di una signora silente – non ricordo se moglie o dipendente. Non c'era la figlia, credo un po' più "vecchia" di me, di cui già conservavo una fotografia sul retro della quale il genitore (secondo una detestabile usanza dell'epoca) dedicava "a Cecchino" l'immagine della propria discendenza. Non la riproduco qui per non mettere in imbarazzo una ormai anziana signora, cui auguro d'essere in vita e in salute. Ne ho ricevute altre di foto di questo genere, guarda caso sempre di bambine, compresa una dell'incolpevole vittima figlia di Argan, ripresa nell'innocenza della nascita da poco avvenuta. Sono sicuro e, comunque, voglio credere che i miei genitori non abbiano mai partecipato a questa volgare pratica borghese divulgando mie e nostre fotografie.

Tornando al negozio-antro ordinato ma trascurato, quasi surreale e presenza culturale retroattiva fiocamente illuminata, salvo l'abat-jour sul tavolo di lavoro del proprietario, Raimondi mi fece un interrogatorio ininterrotto, "garbatamente" inquisitorio, su quando, come, con articolo di chi, con copertina illustrata o no, ecc., riguardante la prevista edizione della nuova serie di "La Critica d'Arte". Della quale, tra parentesi, ricordò d'esser sottoscrittore e d'essere di conseguenza preoccupato. Pidocchio! pensai già allora. Quindi volle sapere dello Studio di Storia dell'Arte, di Parronchi, di Federici, di Forti, di Righi e de "La Strozzina", di Rosai, di Capocchini, di Farulli e di altri molto dei quali conoscevo solo di vista, alcuni solo per sentito dire. Non tralasciò insistenti domande sui "progetti" (!) di C.L.R., sulle mostre del I° Piano di Palazzo Strozzi, persino sull'attività di Licia Collobi (la mia mamma) funzionario delle BB. AA. E di comuni conoscenti o amici quali Enrico Vallecchi, Maria Luigia Guaita, i Papi (di cui non sapevo l'esistenza in quanto tali, li consideravo Contini Bonacossi) di Sandrino e via spettegolando.

Meno male che sono sempre stato presente ed attento alle faccende non domestiche dei miei genitori, perché comunque – non saprei proprio nei dettagli dire come – ressi l'inquisizione piuttosto brillantemente. Avevo, ripeto, 8 o 9 anni appena compiuti!

Mi rendo conto che anche questo mio resoconto può sembrare un pettegolezzo, del quale però sono soltanto un testimone che – allora – aveva tanta memoria. D'altro canto ho tentato, per riequilibrare, di rileggere alcune pagine dei romanzi di Raimondi e qualche estratto degli articoli da lui pubblicati ne “Il Mondo” di Pannunzio. Però li ho trovati prevalentemente verbosi e soporiferi, letteralmente.

Nella consueta parte documentaria, perciò, riporterò soltanto tre scritti, due dei quali legati in qualche modo a mio padre.

Cronologicamente il primo, insistentemente richiesto, è Osservazioni sui Promessi Sposi, pubblicato su “Criterio” (n.5, maggio 1957), riguardo al quale mi par di ricordare un certo fastidio di Lara Vinca Masini, studi con De Robertis, nei confronti dell'autore. Il secondo documento è un articolo in occasione della morte di Raimondi, pubblicato dal poligrafo Giorgio Zampa ne “Il Giornale” di Montanelli (5 agosto 1985). Anche Zampa era un letterato col virus della letteratura partecipata in tutti i suoi aspetti, anche reconditi. Il suo testo riequilibra certamente le mie radicate sensazioni riduttive circa lo spessore della personalità di Raimondi. Il terzo scritto, pubblicato anch'esso in occasione della dipartita del letterato petroniano, è un breve saggio che Giancarlo Cavalli chiese di poter stampare in “Critica d'Arte” (n.6, 1985) riguardante il carteggio Morandi-Raimondi. Ad esso associo il ricordo del volume di Raimondi Anni con Giorgio Morandi (Mondadori, 1970), che non ho letto per scaramanzia circa l'alta opinione che nutro nei confronti del Maestro di Via Fondazza.

F.R. (8 gennaio 2022)





























Appendice 1946, del 16 febbraio 2022

Casualmente trovo le generose lettere, datate 18 novembre 1946, indirizzate da Carlo L. Ragghianti a Giuseppe Raimondi. La prima è rivolta personalmente allo scrittore, la seconda rappresenta una testimonianza da esibire in tribunale e da diffondere a mezzo stampa per difendere la onorabilità di Raimondi.

Risulta evidente che C.L.R. Era ancora considerato un capo dell'antifascismo militante, benché fosse da alcuni mesi soltanto un cittadino senza incarichi e responsabilità politiche. Mio padre allora era e fu per qualche anno un militante del Partito Repubblicano Italiano, al quale aveva aderito soltanto per sostenere il futuro politico di Parri e La Malfa.


Non ho idea di quale esito ebbe la faccenda a Bologna. Certo era un sintomo di restaurazione della mentalità gerarchica e fascista. Temo che tutto finì nel dimenticatoio, sia per la pusillanimità dilagante anche tra gli antifascisti, troppi dei quali borghesemente proni al queta non movere. Di lì a poco l'ineffabile Togliatti emanò l'amnistia che indusse i fascisti, oltre che "preti" e monarchici, a farsi anche comunisti. Il risultato si vede oggi con i loro nipoti che si allineano alle storture morali e legali dei nonni brigatisti neri.

F.R. (17 febbraio 2022)





Giovanni Romagnoli (1893-1976) è stato il più rinomato (secondo solo a Morandi) pittore operante a Bologna durante la prima metà del secolo scorso. A questa fama non corrisponde sul piano critico la stessa importanza, giacché quale pittore – pittore Romagnoli trovava il proprio limite in un linguaggio sostanzialmente statico e ripetitivo. Infatti sul piano critico, già nel 1936, Carlo L. Ragghianti osservava che: "Fra i più tradizionali ed espliciti è, per esempio, il Romagnoli con episodi di abilità spesso sorprendente, di mestiere elaborato, ma vuoto di scopo e di effetto artistico". (Indicazioni sulla pittura italiana contemporanea, in "Leonardo", n.3, marzo 1936, p.76).

A questo giudizio piuttosto limitativo e severo sul piano estetico, nel 1939 il critico ne fece seguire un altro, decisamente drastico, pubblicato in "La Critica d'Arte" (a. IV, n.1, f. XIX): "Romagnoli, industre riproduttore di gagliarde cicce femminee arrossate alle giunture per lo strofinio sui lenzuoli tartassati, di cui par di cogliere in faccia i rochi estivi sentori".

Personalmente, possedendo una blanda tendenza contenutistica, nei confronti del nudo femminile, tenderei a sottolineare gli "episodi di abilità" professionale. Escluderei senz'altro anche intenti erotici compiacenti orientati verso quella forma di illustrazione semipronografica che all'epoca – ancora esistenti le case chiuse – veniva definita postribolare, abbastanza diffusa (anche se ora parrebbe scomparsa, rintanata forse in collezioni semiclandestine), con derivazioni nella pubblicità e nella propaganda includenti l'osceno Boccasile o simili lordure.

Comunque ho già più volte ricordato la Nota postuma a p. 101 de Il caso De Chirico, nella quale C.L. Ragghianti riconosce e spiega certi suoi eccessi critici. In definitiva indicherei Romagnoli come il più vistoso pittore bolognese tra quelli presenti nella mostra di Palazzo Strozzi del 1967. 


Si verificò in Segreteria, che fungeva anche da Redazione, un modesto caso riguardante Romagnoli, aggravato dall'atteggiamento di Giusepe Raimondi. Nella sezione critica affidata a Cesare Gnudi (post del 2 ottobre 2020) si ricordava che due delle sue tre schede erano siglate G.R. (Giuseppe Raimondi). 

Ciò avvenne perché il letterato bolognese propose testi impubblicabili, se non altro per la loro lunghezza esorbitante. Anche nelle due schede riguardanti Romagnoli si verificò questo inconveniente. La prima scheda (p.55) fu riscritta una prima volta da C.L. Ragghianti, poi successivamente Raimondi accettò di presentare un nuovo testo osservante le direttive redazionali (però, non so perché, anche questo nuovo testo in Catalogo compare senza sigla d'autore). Ciò, ovviamente, ebbe la conseguenza di togliere il testo riparatorio di Ragghiani. Il quale non so se se la prese a male conservando tra le sue carte questo intervento, che io ora pubblico come primo tra i documenti che seguono questo redazionale. Al contempo osservo che questa circostanza fu dal Raimondi mal digerita e che essa è stata alla base del suo assurdo atteggiamento e della non presenza alle ultime riunioni della giuria del Premio Marzotto 1967, la cui preparazione coincise cronologicamente a quella della Mostra Arte Moderna in Italia 1915-1935. Noto, oltresì, che dopo la lettera di C.L.R. del 6 gennaio 1967 a Raimondi, costui interruppe definitivamente i rapporti epistolari ultraventennali con Ragghianti. Noto, infine, che per dimostrare agli amici bolognesi che lui non aveva mai provato risentimento nei confronti dello scrittore, mio padre pubblicò in "Critica d'Arte" l'articolo di Giancarlo Cavalli concernenete il carteggio Raimondi-Morandi, che viene riprodotto nella precedente scheda riservata a Giuseppe Raimondi.

Come molti artisti figurativi della prima metà del Novecento, oltre che scultore Romagnoli è stato anche persona colta che si esprimeva in versi, corretti ma non particolarmente ispirati. Ne riproduciamo due esempi.

Su questo artista si sono espressi diversi critici, soprattutto emiliani, stanti le difficoltà di comunicazione visiva e mediatica precedenti la facilitazione offerta dalla tecnologia a ogni mezzo di comunicazione. Riporto, pertanto, alcuni interventi di Stefano Bottari, ordinario di Storia dell'Arte all'Università di Bologna; di Renzo Biasion, pittore, incisore, critico d'arte di varie testate giornalistiche; di Giuseppe Raimondi; di Mario De Micheli, noto e capace critico militante, uno dei non molti considerati da Ragghianti; di Franco Solmi, critico locale del P.C.I. e quindi direttore dei Musei Civici Bolognesi dal 1975 al 1987.

F.R. (9 gennaio 2022)


Opere di Romagnoli


Nonostante la laurea in ingegneria civile, poco ma esercitata, come dimostra la Villa Olga (costruita su suo progetto nel 1928), Bertocchi è, come indica Raimondi nella scheda, “venuto al lavoro della pittura per...una propensione nativa”, cioè fu autodidatta con evidente passione per l'interpretazione del paesaggio, mediato dall'osservazione di Cézanne soprattutto, tanto da affermare: “Il paesaggio ora è stupendo, e io, a volte, mi sorprendo a benedire Dio di averci dato questa facoltà meravigliosa di intendere il suo richiamo, attraverso le forme e i colori”. Scrisse anche: “Vivo solo perché la luce in certe giornate, lassù, è così bella da far patire”. E non ha torto Beatrice Buscaroli Fabbri a sottolineare che questo atteggiamento “è la sostanza profonda della sua vita d'artista, è il suo testamento, l'eredità che ha voluto lasciare” e che perseguirà per tutta la sua esistenza. Sono suggestive e di composizione eccentrica anche le nature morte floreali di Bertocchi.

Il pittore si distinse contemporaneamente come scrittore e critico d'arte fin dal 1920, quando ventenne scrisse il primo intervento su Luigi Bertelli (1833-1916), quindi nel 1939 e poi nel 1946 sempre indagando sulla pittura decisamente paesaggistica di quell'artista, che gli servì da chiave per rivalutare la pittura di paesaggio in Italia durante l'Ottocento.

Spinto dai debiti, dal 1930 inizia a scrivere sistematicamente e divenne così critico impegnato e presente in temi sempre di carattere artistico. L'allineamento al conformismo vigente, con la debita osservanza delle direttive collegate alla propaganda, lo compromisero col regime fascista. Tanto che Bertocchi nel 1946 fu epurato: però, come tutti o quasi, reintegrato nel 1948 dalla carità pelosa dell'amnistia di Togliatti. Fu amico e critico di Manzù prima che il team della Galleria del Milione chiedesse a C.L. Ragghianti di illuminare l'originalità dell'artista.

Nella documentazione seguente riporto l'articolo Cézanne e l'architettura nascosta (1938) e Temperamento emiliano (1946). Degli scritti su Bertocchi tralascio il lungo discorso commemorativo di Bargellini suo amico ed anche aiuto per certe difficoltà economiche; riporto invece se non altro perché scritti da autori umorali ma autorevoli, due brevi ricordi di Luigi Bartolini e Carlo Carrà. Concludo la breve rassegna su Bertocchi con Raffaele De Grada, il quale nel 1957 in La sua strada rievoca, e in un certo senso riabilita, il suo percorso pittorico.

F.R. (11 gennaio 2022)

Opere di Bertocchi


Nel “capitolo” del saggio Artisti italiani dedicato a Lea Colliva, pubblicato in “seleArte” (n. 63, mag.-giu. 1963, p. 12) Carlo L. Ragghianti conclude il suo intervento ricordando che Giuseppe Raimondi “ha richiamato più volte l'attenzione su questa appartata artista, e noi condividiamo il suo giudizio sulla validità poetica di quest'opera indipendente”. Mi ripropongo di riprodurre con le 2 illustrazioni l'intero scritto di C.L.R. in un post che indagherà i disegni di questa singolare pittrice bolognese.

Il motivo è che il disegno non si può certo considerare un'attività laterale o preparatoria nell'ambito dell'intero percorso creativo di Lea Colliva. Naturalmente tutti i pittori di sia pur minima formazione accademica (nel senso migliore del termine, cioè formativa per la professione) disegnano, però si possono definire disegnatori o incisori soltanto coloro che anche col disegno o tramite l'incisione si esprimono in maniera originale, autonoma, non sussidiaria.

Quindi se Lea Colliva è un'artista che si esprime con il disegno, non è da meno come pittrice, anche se nella affollata platea dei seguaci delle Arti figurative la sua presenza non ha lo stesso risalto di quello risultante nel mondo più ristretto dei disegnatori.

Benché nell'ambiente dei pittori e dei disegnatori ci siano state donne protagoniste in quasi tutte le epoche, specialmente dal Cinquecento in poi, nella prima metà del Novecento esse erano ancora una minoranza numerica vistosa, come si dimostrerebbe – ad es. – quantificando la presenza femminile nell'ambito di tutti gli artisti partecipanti alla Mostra Arte in Italia 1915-1935: una percentuale veramente bassa, irrisoria.

La considerazione di C.L. Ragghianti nei confronti di Lea Colliva è stata evidente, anche se modestamente espressa col citato scritto pubblicato in “seleArte”. Si tenga presente che a “La Strozzina” degli artisti bolognesi, ben noti a C.L.R. per via del soggiorno nella città dal 1939 al 1942, non furono invitati con mostre o presentati in “vetrine” – salvo Carlo Corsi e, ancora prima, Lea Colliva – nessuno di quelli citati o affidati a Gnudi e altri. Lo furono, invece, altri come Ciangottini, Mandelli, Minguzzi e altri che non ricordo, assenti all'esposizione 1915-1935 del 1967.

Colliva avrebbe dovuto esporre ancora una volta a “La Strozzina” i propri lavori recenti nel 1962 o '63; mostra che non si poté allestire per ristrettezze economiche impreviste e perché la “guida direttiva” di Ragghianti in quel periodo fu ostacolata da Piero Bargellini – assessore alla cultura di Giorgio La Pira sindaco di Firenze – il quale, clericale con alle spalle “Frontespizio”, rivista a discara su C.L.R. perché in essa denunziato come non fascista, era di orientamento e gusti ben lontani dalla vorticosa espressione pittorica della Colliva (grata comunque a C.L.R., come si ricava dalle lettere del 8.12.1962 e del 28.3.1964 indirizzate a Nino Lo Vullo, segretario generale della pubblica Galleria d'arte “La Strozzina” di Firenze.

Ancora al fido Lo Vullo, nel 1968 Colliva il 22 gennaio spedì una lettera di solidarietà nei confronti di C.L.R., infamato da un collaboratore di “Paragone”, l'organo di Roberto Longhi. La riproduco nei documenti che seguono nella trascrizione dattilografica che ne fece lo stesso Lo Vullo. Rendo nota altresì la lettera che la pittrice scrisse il 7 maggio 1967 a Ragghianti, al quale in precedenza aveva dato telegrafica adesione (“ringrazio graditissimo invito”) del dono di un dipinto per il costituendo Museo d'Arte Contemporanea di Firenze (finalmente realizzato attorno al Duemila con il nome di Museo del Novecento), ideato quale morale risarcimento dei beni artistici danneggiati o perduti in seguito all'alluvione del 4 novembre 1966. Questa opera non fu esposta nella manifestazione inaugurale di Palazzo Vecchio perché non pervenuta in tempo, né si poté riprodurla sul Catalogo/libro che curai (gratuitamente) per l'occasione.

Fortunatamente recuperato, il Catalogo della esposizione dell'aprile 1952 presso “La Strozzina” è riprodotto integralmente. Le immagini di questo opuscolo mi fanno ricordare che non è stato facile reperire immagini di dipinti per illustrare la consueta sezione di documentazione visiva pubblicata nei post di questo blog.

In tutti i libri su Lea Colliva sono riprodotti grosso modo quasi sempre gli stessi soggetti (come , d'altronde, in quasi tutti i casi di monografie di artisti), così è anche sul magro panorama recuperabile nel web. Nel caso di Lea Colliva, la quale ha dipinto e disegnato numerosi autoritratti di forte impatto, e di particolare espressività, per sopperire alla scarsità di soggetti individuati ho preferito inserirli nella sequenza documentaria anziché prima della nota redazionale, come avviene di norma. Subito prima di questo testo, dopo la scheda di Raimondi ho riprodotto un ritratto di Lea Colliva (1930) inciso dal cognato Nino Bertocchi. Insieme ho pubblicato quattro fotografie dell'artista, abbondando più del consueto perché il tipo emiliano della pittrice ricorda la “modestia un po' guerriera” della nostra resdaura carpigiana Maria Landi (1954-1968), indispensabile presenza nella vita della famiglia Ragghianti di quegli anni, così lontani, così felici (nel ricordo!).

Dalla ristretta bibliografia – rispetto ad altri artisti più ordinari – ho estrapolato la documentazione critica di Nino Bertocchi (Potenza e solitudine), di Giorgio Ruggeri (Furore e poesia, 1970) e una pagina del 1979 di Francesco Arcangeli (Momi, come lo chiamavano gli amici e chiamavo io nel 1941-'42, giocando con lui) nel giardino di casa Gnudi.

Fino a tutti gli anni Cinquanta, ritengo che la difficoltà di reperire visivamente opere di Lea Colliva – come quasi sempre avviene – sia dovuta alla dispersione non sufficientemente documentata (anche da parte dei galleristi) delle opere acquisite e collezionate da privati. Costoro, sempre di più, comprano e vendono in semiclandestinità, per aggirare una fiscalità complessa e incoerente, assurdità quali il diritto di seguito, e inoltre, per evitare la pratica – esercitata dallo Stato in maniera aberrante – della notifica, la quale di fatto svaluta l'opera d'arte colpita. Dei dipinti “tardi”, quelli dell'ultimo quindicennio di attività di questa pittrice bolognese, temo che il fatto che essi siano poco documentati dipenda anche da un giudizio critico e commerciale limitativo della loro qualità espressiva. Quindi da un sostanziale disinteresse. Se così stessero le cose, ritengo che questo atteggiamento sia errato.

Da quel che ho dedotto dai pochi dipinti osservati, penso che in questo caso l'astrazione figurale e il ductus informale, un po' “CoBra”, insistito e ispessito, siano una scelta consapevolmente drammatica frutto di un percorso culturale collegato a convinzioni e visioni pessimistiche del mondo e del suo futuro. Un indizio può essere il titolo dell'ultimo dipinto riprodotto nella nostra sequenza: Composizione spaziale, 1972.

Si è trattato, direi, di un percorso interiore analogo a quello di Raffaele Castello, nel quale il cambiamento compositivo di natura “informale” si sviluppa su una base non figurale, decisamente astratta.

In Lea Colliva è presente anche una componente di disperazione, di sgomento che – proprio perché si tratta di una artista veramente originale – non cerca efficaci suggestioni già esperite da altri. Il suo orientamento innovativo si manifesta in una sorta di dissolvimento, il quale non è caotico, né regressivo: è suo, è originale e resta espressivo ma ineffabile.

F.R. (15 gennaio 2022)






Opere di Lea Colliva


Franco Solmi inizia il suo voluminoso saggio – edito nel 1971 da Tamari di Bologna – monografico su Nino Corrado Corazza (1897-1975) così: “Di parole su Corrado Corazza, critico e pittore d'ormai lunga presenza, se ne son scritte in buona quantità, anche da persone di non scarsa misura; e tuttavia non riesco a togliermi l'impressione che da tanta letteratura spesa per lui, questo riverente e irriverentissimo testimone di giorni passati e presenti non abbia voluto trarre gran frutto”. Impressione esatta, anche se dalla penna di Ojetti o Borgese, ecc., c'è stata prevalentemente propaganda e quindi ben poca fonte di ispirazione vera e propria. Soprattutto, almeno io, noto un costante declino del pittore, evidente negli anni successivi al 1967 della Mostra di Palazzo Strozzi. La fede, qualsiasi fede ideologica, soprattutto estremista e totalitaria come fu il fascismo, non è altro che propaganda e genera artisti del tipo di Boccasile e dei suoi epigoni.

Delle illustrazioni che sono riuscito a reperire, ho scelto di riprodurre le più espressive, non solo per il periodo 1915-1935, ma anche per i 40 anni di successivo decadimento qualitativo ho riproposto poche opere, le meno deludenti.

In Corazza, infatti, si assiste ad uno scadimento illustrativo, insistito nelle figurazione sportive e ulteriormente declinato nelle rappresentazioni religiose, che non penso si possano definire arte sacra, anche se il soggetto lo afferma. Alla fin fine la chiave di lettura dell'opera di Corazza è quella di un pittore di buona formazione, il quale dal 1935 è in evidente, incontrovertibile declino, come si nota anche dalla conclusione del saggio citato. 


Scrive, infatti Franco Solmi: “Corazza ha ormai affondato nel buio della più profonda sconfitta il mondo delle speranze, dei ricordi, delle illusioni. L'aspirazione spirituale ora s'invera in un misticismo rovesciato e non privo di disperazione … Io penso che Corazza covi in sé tutto il risentimento di chi ha profondamente creduto e ancora crede, ma anche il fatalismo di chi s'è accorto che Pietro non rinnega più Gesù soltanto perché l'ha completamente dimenticato”.

Tutto ciò è condivisibile, resta però il problema dell'originalità, della creatività e della capacità espressiva che non sono sorde o grigie. Non sono come le aule parlamentari così definite dal regime nel quale Corazza ha aderito e partecipato. Insistere nel dipingere per puro mestiere è triste, deprimente per chi guarda; ingiustificabile per chi è competente.

F.R. (10 gennaio 2022)

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