Carlo e Licia

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lunedì 28 giugno 2021

"Il Clandestino" di Mario Tobino (1962) letto da C.L. Ragghianti.


Innanzi tutto mi preme ricordare quanto sosteneva Licia Collobi, mia madre, riguardo alla preliminare necessità espressiva di Mario Tobino, cioè che lo scrittore con ogni sua opera intendeva estinguere un debito morale nei confronti di episodi della propria esistenza. Questa osservazione mi sembra molto pertinente e si addice a Il clandestino in particolar modo. Certamente, poi, non starò a chiosare il pensiero di mio padre espresso nelle pagine precedenti con chiarezza e vigore.

Mi pare invece opportuno riprodurre i testi che hanno prefato le altre edizioni del romanzo; vale a dire quanto scrisse Vittorio Sereni, poeta e funzionario Mondadori, nella collana che riproponeva tutti i Premio Strega (Tobino lo vinse nel 1962) e poi quanto scrisse Geno Pampaloni per gli “Oscar” Mondadori (1972). A questi due impegnativi studi seguirà una panoramica con i pareri della critica più diffusa, spesso autorevole, che reputo piuttosto desolante e ingiusta per quanto riguarda quest'opera di Mario Tobino, scrittore che considero non soltanto originale ma anche di una qualità stilistica incompresa o sottovalutata.

Per quel che mi riguarda, qualcosa posso e debbo dirla. Il ricordo, ormai un po' vago della prima lettura avvenuto quando ero a fine del secondo anno d'università (1962), due anni esatti dai gravi misfatti di Genova, Modena, Reggio Emilia, opera del primo rigurgito fascistoide della Democrazia Cristiana nostalgica, quando anche a Firenze ci fu molta tensione ed agitazione, tanta confusione da indurre – guarda caso – i superstiti partigiani e politici resistenziali a richiamare in “servizio” mio padre – il Presidente del CTLN – di poi coinvolto anche nel successivo riscatto popolare e mediatico. Nei mesi successivi, infatti, in tutta l'Italia del Nord si tennero manifestazioni e convegni, come al teatro Comunale di Bologna dove R. ammonì – nel generale visibilio – Spadolini, direttore de “Il resto del carlino”, filogovernativo, di ostinato rifiuto di rispettare i diritti in essere e quelli conculcati dalla interpretazione codina della Costituzione; come nel '61 a Reggio Emilia nel comizio di una manifestazione di piazza “monstre”, dove R. infiammò la massa comunista oscurando un livido P.P.P. - indovina chi? - con un comizio magnifico ed esaltante; come all'importante convegno di Torino con Parri, Lombardi e tutte le capitudini della Resistenza.

Ricordo anche i miei “dotti” spesso altezzosi compagni universitari (poi quasi tutti professori universtari, soprintendenti, dirigenti, onorevoli e talvolta ministri) storcevano il naso delicato per la ricostruzione d'orientamento comunista de Il clandestino versiliese: chi perché contrario, chi pciista ortodosso con riserve togliattiane. Della poesia, dell'afflato neopatriottico, dello scavo dell'animo dei personaggi così vari e diversi, nemmeno una parola sensata.

Da parte mia, per giovanile supponenza e baldanza, non riuscii a spiegarmi perché Tobino avesse sottolineato l'apporto comunista, quando proprio contemporaneamente sulle Apuane e in tutta la Lucchesia la Resistenza G.L. delle Brigate Rosselli rifulse in epiche imprese con Pippo Ducceschi; quando da Viareggio operava la mitica “Rosa”, Vera Vassalle, medaglia d'oro della Resistenza. Di lei, in verità a rilettura oggi del libro, l'autore ne tratteggia una protagonista analoga, giustamente non connotata politicamente ma moralmente. Allora però non me ne accorsi. Come non mi accorsi allora ma solo adesso ho capito: Tobino, con l'intuito del poeta, tratteggiando in senso comunista la presa di coscienza fino alla lotta armata redentrice della passata acquiescienza al fascismo, anticipa quello che fu il sentimento del popolo e determinò i successivi eventi, creando cioè il falso mito che la Resistenza fu guidata dal PCI. Esattamente il contrario della realtà, sì però la “storia” - enigmatica – non si svolge e si esprime necessariamente con la verità e la virtù.

Questo libro mi pare indubitabile va oggi (ma anche domani) ascritto alla migliore “letteratura” riguardante la Resistenza europea; è, insomma, un capolavoro che rappresenta poeticamente l'epica di giovani uomini e donne che maturarono la propria coscienza contro l'oppressione della libertà fino ad organizzare in clandestinità la necessaria rivolta col tentativo di conquistare assieme a quella sociale la libertà di coscienza per sé e, col loro esempio, per gli altri.

F.R. (17 maggio 2021)


Panoramica critica

Ripetendo che in generale i romanzi di Mario Tobino non credo siano stati apprezzati equamente – e in particolare proprio Il clandestino – propongo una breve panoramica critica da storie generali, antologie e dizionari.

Nei sedici volumi in 4° della Storia generale della letteratura italiana (2004) gli ineffabili Nino Borsellino e Walter Pedullà (là, là) riescono a liquidare l'intera attività di un poeta e scrittore come Tobino in 19 righe tra le pp. 619-620 del quattordicesimo volume. Concludono la demolizione con queste frasi: “Tobino nel piccolo del suo mondo sa essere un grande narratore al quale non è riuscita l'impresa di un romanzo di complessa architettura. Il clandestino è l'opera più nota ma forse è la meno bella di uno scrittore che è autore di un paio di piccoli capolavori, come Pea, il leggendario creatore di Moscardino”.

Per Ghidetti-Luti (uti, uti) – Dizionario critico della letteratura italiana del Novecento, Editori Riuniti, 1997 – “...con Il clandestino (1962), che narra alcuni eventi della Resistenza in Versilia, Tobino amplia notevolmente lo spazio della sua ricerca, affrontando più decisamente, anche se con timbro assai diverso, il problema dei suoi rapporti con il romanzo”.

In Storia letteraria delle regioni d'Italia, Sansoni 1968, ben 888 pp. dei professoroni Walter Binni e Natalino Sopegno (curatore dei testi Enrico Ghidetti), Walter Binni a p.386 scrive: “...o il viareggino Mario Tobino, autore di Le libere donne di Magliano e del Deserto della Libia, in cui pietà umana e foga fantastica si uniscono in un'arte interna e sicura...”. Tutto qui.

Gianfranco Contini (Letteratura dell'Italia Unita 1861-1968, Sansoni 1968) dà il seguente giudizio, sostanzialmente limitativo (non credo proprio che Mario Tobino abbia apprezzato di essere considerato nel gruppo dei “primitivi toscani”): “Ha cominciato come poeta in versi, ma col Figlio del farmacista (1942) ha avviato la sua carriera letteraria verso una prosa, anche quando di apparenza narrativa, sostanzialmente autobiografica e non di rado esplicitamente lirica. Nella ricca serie di suoi volumi [...] ha avuto fama soprattutto il romanzo (tuttavia nel senso accennato) Il clandestino (1962), sulla Resistenza in Versilia, ma i punti di maggior rilievo sono probabilmente toccati in parte dalla Gelosia del marinaio (1942) e specialmente nella Brace dei Biassòli (1956), egregia rievocazione di vicende familiari. […] La carica lirica distingue Tobino entro il gruppo (uno fra i più consistenti nella letteratura contemporanea) dei “primitivi” toscani, che almeno idealmente costituiscono la scuola di Tozzi”.

A questo punto ho preferito non approfondire con altre verifiche, le quali temo saranno conformi all'imperante “sinistrismo” nel senso catastrofico del termine, naturalmente).

Vittorio Sereni, 1962.



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