Carlo e Licia

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giovedì 18 marzo 2021

“Io, forse perché sono lucchese...”.



Il testo soprastante, inedito (credo) del 1950 dimostra l'attaccamento di Carlo L. Ragghianti alla sua città natale Lucca, al suo territorio, alla sua storia e al mito della libertà repubblicana.

Questo scritto è anche un documento autobiografico di indubbia valenza, come mostra l'affettuoso legame alla propria famiglia, alla sua storia recente quale può essere quella di ogni “plebano” (termine lucchese da non confondere – come fece Geno Pampaloni – con “plebeo”).

Questa pagina, infine, può essere considerata un “addendum” al post su Francesco Burlamacchi del 24 novembre 2020.

Evidentemente il Bando fascista che lo esiliò sedicenne, fu più traumatico di quanto C.L.R. abbia in seguito dimostrato. Lo attestano i ricordi, suoi e quelli del coetaneo e amico Eugenio Luporini, raccontati sempre con sereno enfatismo, con allegria là dove ce ne fosse l'appiglio, durante tante delle decine di cene amicali in casa nostra, alle quali parteciparono sempre i coniugi Detti, altri talvolta, negli anni precedenti l'imbarbarimento sessantottino, regressivo fino a una fase “anale” della supposta rivoluzione.

Buona parte dei motivi che indussero mio padre a scegliere Lucca come sede della Fondazione Centro Studi sull'Arte si possono spiegare con questi sentimenti forti, primari, non tanto nostalgici 

quanto collegamento con radici ataviche qualificanti uno stabile ricongiungimento. D'altra parte, cinicamente, mi vien da dire: se si pensa a Firenze, qualsiasi altra località era più rassicurante; Pisa poi, basta ricordare l'adagio lucchese “meglio un morto in casa, che un pisano all'uscio”.


Oggi - 18 marzo - Carlo L. Ragghianti compirebbe 111 anni, meta che non avrebbe raggiunto comunque, stante la vita vissuta in prima linea, sempre esposta a venti e maree, a veleni e coltellate (metaforiche: che spesso fanno più male!). Solo il suo buon conoscente Gillo Dorfles, invece, è arrivato a 107 anni. Però, guarda caso, lo chiamavano “Gingillo”, cioè lontano dall'usura del vivere intensamente, drammaticamente, senza riguardi per le esigenze del proprio corpo che è, e deve sempre restare, al servizio della mente.

Purtroppo nell'usura mortale l'avere la coscienza pulita – serena vigilanza nel proprio essere – è d'aiuto per resistere, non ha però anticorpi nei confronti del deterioramento e dei colpi inferti o procurati (carcere duro per 45 giorni, per es.) dal destino e dalla propria vitalità.

F.R. (18 febbraio 2021)

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