Carlo e Licia

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mercoledì 22 gennaio 2020

Arte Moderna in Italia 1915-1935 - Testi dei Critici, 6. Aldo Bertini. (CREMONA, MAUGHAM C., PAULUCCI).



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1. RAFFAELE MONTI ( I ) - 16 giugno 2018
2. IDA CARDELLINI (LORENZO VIANI) - 28  settembre 2018 
3. UMBRO APOLLONIO (NATHAN, BIROLLI) - 19 settembre 2019
4. MARCELLO AZZOLINI (GUERRINI, CHIARINI, VESPIGNANI). 6 ottobre 2019
5/I. FORTUNATO BELLONZI (BOCCHI, D'ANTINO). 12 novembre 2019
5/II. FORTUNATO BELLONZI (MORBIDUCCI, SAETTI). 28 dicembre 2019


Aldo Bertini (1906-1977)

Per noi figli Ragghianti è stato lo “zio” Aldo, un personaggio singolare, mite e categorico, talvolta divertente per la sua trascuratezza nel vestire. Per me è stato persino il quinto nome attribuitomi all'anagrafe del Comune di Bologna: Francesco. Alberto (i nonni), Benedetto (Croce), Cesare (Gnudi), Aldo (Bertini).

Lo zio Aldo è presente nel nostro “lessico” familiare con numerosi aneddoti gustosi, dalla “squisita pasticceria”, che faceva con le sue mani la mamma per le feste natalizie, di cui divorava con tranquilla ingordigia - conversando col babbo e la mamma – un paio di vassoi nel giro di mezz'ora (venne apposta a Firenze da Torino un paio di volte), al mitico “sai Carlo sono dei saggi” (detto con un sacco di erre – aveva infatti il rotacismo -, la mamma sosteneva che riusciva a mettere la erre anche pronunziando “la Vallée d'Aosta”) riferendosi agli omosessuali alla fine di una lunga diatriba contro il matrimonio, che costoro, allora, non potevano fare. Era capace di fare gaffes tremende per involontaria “ferocia”. Per questo motivo, essendo tutto sommato affermazioni confidenziali che potrebbero ferire la memoria di qualcuno/a, non riporto quelle che ricordo. Una, forse, la posso raccontare, se non altro perché si riferisce ad una novantina di anni fa. Alla fine degli anni Venti – prima dell'obbligo della tessera fascista – studente universitario eminente, Aldo Bertini partecipò ad una cena goliardica il cui ospite d'onore era il Federale fascista di Torino. Alla fine del banchetto, lo zio Aldo (già noto politicamente per i suoi legami parentali e politici con Piero Gobetti) andò a sedersi accanto al Federale e con aria confidenzialmente serafica gli disse.” Lei mi deve scusare, sa, ma devo proprio dirglielo: lei è uno stronzo!”. Ebbe molta fortuna: si imbatté nell'unico Federale, forse nell'unico fascista, dotato di “spirito”. Non fu sanzionato (bastonate comprese), nemmeno successivamente.
Vorrei avere la penna di Rabelais, o almeno di J. K. Jerome per raccontare l'epico viaggio da Parma a Busseto, con pantagruelica abbuffata presso i celebri Cantarelli di Sanboseto – allora (1961) forse i cuochi più rinomati d'Italia – e ritorno a Parma. Il tutto ospiti di Lallo Quintavalle, che però era in un'altra automobile, ma forse ricorderà l'episodio della dentiera smarrita. C'era col babbo e me, invece, Cesare Molinari, che se è (come gli auguro di tutto cuore) ancora vivo, ricorderà benissimo quelle circostanze di comicità irresistibile. Parenteticamente ricordo anche che per Cesare quello fu un pomeriggio molto fortunato, grazie agli affreschi della cupola del Correggio in Parma.




Aldo Bertini con Carlo L. Ragghianti divenne amicissimo, ragion per cui dopo la guerra si fermò spesso a trovarlo a Firenze, talvolta con una enorme borsa da medico piena di fotografie di dipinti che sottometteva al parere dell'amico. Tra il'47 e il '50, li ricordo in camera da pranzo dopo il pasto occupati in certami attribuzionistici nei quali R. indicava prevalentemente autore o scuola o ambito o “cerotto” a B. bofonchiante in modo spassoso. Però il motivo della mia presenza era la curiosità per questo aspetto dell'attività di mio padre, il quale allora per motivi alimentari era ancora costretto a praticare consulenze ed expertises, il meno possibile e con antiquari autorevoli. Comunque – impressione strettamente personale confermata nel tempo – penso che la “passione” dello zio Aldo per expertises, per la connaisseurship fosse una sorta di “violon d'Ingres”, coltivato per cocciutaggine.
Non riporto dati professionali, biografici e bibliografici di Aldo Bertini perché la sua vita e la sua attività sono ampiamente ed oculatamente in Wikipedia (caso raro) riportate con doviziosità. 



Riproduco invece, perché meno noto ma di notevole importanza il sintetico profilo di lui che fu pubblicato in Una lotta nel suo corso (1954), a cura di Licia Collobi Ragghianti e Sandrino Contini Bonacossi:



Sono meravigliato (però potrebbe essere ignoranza da parte mia) che nessuno studioso abbia ancora esplorato la, se non enorme, certo rilevante corrispondenza tra Bertini e Ragghianti. Forse dipende dal fatto che buona parte delle missive è manoscritta, quindi assente nelle carte del mittente. Però l'Archivio della Fondazione Ragghianti di Lucca (e in minor misura anche il nostro) dovrebbe dare un quadro esauriente di questa corrispondenza tra i due importanti storici dell'arte e tra due cittadini impegnati e, soprattutto, il raro quadro di un rapporto anche confidenziale tra individui tutto sommato straordinari.
Per quanto riguarda questa Mostra d'Arte Moderna in Italia 1915-1935, dalle poche carte a suo tempo da me salvate dalla dispersione e distruzione dell'Archivio della Strozzina, implicata tramite la persona di Nino Lo Vullo nella realizzazione della Mostra, ho recuperato il seguente documento riguardante Aldo Bertini:
Come si può notare, la lettera esplicita il singolare stile ed il carattere dello zio Aldo: un tono sostenuto, cioè, con qualche punta polemica, però conciliante nella sostanza. Due note: la segnalazione di Angelo Dragone dimostra la magnanimità di Bertini, pronto a rinunciare ad un incarico a favore di altri. (Non a caso Dragone, vent'anni dopo, fu tra i membri della Commissione che realizzò il Catalogo/Mostra “Arte in Italia 1935-1955). Seconda nota: riguarda l'appunto manoscritto (Raffaele Monti) a piè di pagina. Si configura un piccolo mistero: le schede pubblicate nel Catalogo furono 3, quelle inviate da Bertini 4. Quest'ultima, eccedente dovrebbe essere stata poi o revisionata e pubblicata come “Red.” oppure assegnata alla Bovero, a Cremona, a qualche altro Commissario o, addirittura, l'artista implicato è stato depennato dalla Mostra. Concludo ricordando che Aldo Bertini è stato un eccellente professore (prima dell'Accademia Albertina di 
Torino, poi della Facoltà di Lettere dell'Università di Torino, dove egli ha impostato una scuola valida, tuttora attiva tramite l'insegnamento di Gianni Carlo Sciolla.
Tornando a note familiari e concludendo, rammento ancora come fosse oggi il rammarico, lo sconforto dei coniugi Ragghianti di non essere stati in grado di presenziare alle esequie dell'amico carissimo per seri motivi di salute di Carlo. Devo anche, ancora una volta, deplorare il mio comportamento, perché declinai l'opportunità di rappresentare la famiglia Ragghianti al funerale di Bertini, privilegiando una giornata di incontri fiorentini (già stabilita) d'ambito editoriale – agevolata da una mia amica, trasferitasi da qualche anno a Firenze e bene introdotta – tesi a trovare un'alternativa occupazionale decente e quella dell'asfittica e deprimente Vallecchi, dove ho sprecato dieci anni di vita.


F.R. (23 settembre 2019)












La scheda di questa rivisitazione dell'opera di Italo Cremona (1905-1979) forse ha uno sviluppo eccessivo in relazione ad altri artisti della sua caratura. Ciò avviene per due motivi: il primo riguarda l'uomo che è stato veramente poliedrico per il numero di attività che ha svolto con impegno e merito. Un suo aspetto importante – a cui teneva molto – quello di letterato e studioso - lo debbo sacrificare ricordando soltanto la sua prolifica collaborazione con Mino Maccari (anche lui “proteiforme”, fu persino redattore capo de “La Stampa” di Torino, Malaparte direttore) nel “Selvaggio”, negli almanacchi de “L'Antipatico”; quindi l'ottimo e corposo volume Il tempo dell' Art Nouveau (1964), per la Vallecchi, le collaborazioni per “La cultura artistica” (rivista ideata da C.L. Ragghianti ma non pubblicata a causa dell'incombente ripresa della “Critica d'Arte”) in parte dirottate su “Paragone” dei coniugi Longhi-Banti, fino ai testi, allora ancora inediti, pubblicati su ”seleArte” (IV serie, n. 3 e 4, 1991; vedere nel nostro blog i post del 5 e 19 novembre 2016).
Cremona fu anche un celebre “battutista”, ironico, surreale, di conciso humour, maestro del gioco di parole, coprotagonista dell'omologo Maccari e degno di reggere il confronto con il “mitologico” Mazzacurati. Altra intensa attività di Cremona fu quella di cineasta a Torino (capitale del cinema italiano fino a Cinecittà) e a Roma in tutte le varianti creative della “settima arte”, critico e teorico compreso (si veda il post del 28 ottobre 2018). Così a teatro fu sceneggiatore e costumista. Operò fotomontaggi satirici e – penso – fu l'ispiratore dell'adesione fattiva a questa forma di poesia visiva da parte di C.L. Ragghianti, giacché tutti quelli realizzati da mio padre che ho visto sono posteriori a quelli che egli vide o gli spedì Cremona.
Il pittore torinese fu anche disordinato ma costante nelle amicizie numerose e coltivate intensamente, nonché decisamente “birichino” nell'ostentato penchant femminile, pur restando legatissimo alla moglie Danila Dellacasa, pittrice invece piuttosto riservata sul proprio lavoro. Circa la pittura, il disegno, la grafica seriale Cremona fu molto attivo nella prima, elaborando una sorta di “surrealismo” originale in sé e nel panorama della pittura italiana. Però, benché in ottimi rapporti di amicizia personale e con amici anche fraterni di amici reciproci, Carlo L. Ragghianti non mi risulta abbia scritto alcunché su Cremona. Mi permetto di presumere che la “ripugnanza” conseguente alla visione delle opere in cui è inevitabile un tasso di volgarità espressiva surrealista sia il motivo di questa trascuratezza critica e che la consapevolezza di ciò abbia inibito Cremona dal chiedere una testimonianza qualsivoglia al critico d'arte. 
Ad ogni modo la loro consuetudine amicale si sviluppò negli anni immediatamente successivi alla guerra quando Cremona gravitò su Firenze anche con permanenze prolungate; si saldò anche per il reciproco sostegno in lecite operazioni di connaisseurship, dato lo stato di sicura indigenza di Ragghianti e quello di Cremona, meno cogente. Comunque l'artista torinese non doveva essere persona gradita a mia madre perché questo pittore è stato uno dei pochi amici del babbo a non aver mai messo piede in casa nostra. Per quel che mi riguarda ho visto e salutato varie volte Cremona – sicuro, elegante, snob – in Palazzo Strozzi (allora per me una specie di seconda casa pomeridiana) ma non ero in grado di afferrare le sue freddure né i discorsi “complicati” che – in attesa di incontrare il babbo – scambiava con Righi (di cui anni dopo a Torino divenne assiduo frequentatore), Parronchi, Federici ed altri variamente presenti.
In definitiva, Italo Cremona è stato un punto di riferimento di derivazione “surrealista” certamente in Piemonte (Abacuc, Alessandri) e in Italia, declinata però con un modus operandi attento alla poetica degli artisti del cosiddetto gruppo dei “sei di Torino”: Jessie Boswell, Gigi Chessa, Nicola Galante, Carlo Levi, Francesco Menzio, Enrico Paulucci delle Roncole, tutti presenti in questa storica Mostra del 1967.
Mi è grato concludere l'excursus su Cremona ricordando un testo affettuoso di Mino Maccari del 1968 (in Mostra Galleria “Dantesca”, a Torino) ed anche la presentazione che gli fece nel 1980 il suo grande e giovane amico Giovanni Arpino – eccellente scrittore che ebbi modo di conoscere per motivi professionali circa un progetto editoriale poi non realizzato – il quale scrisse:







Devo ammettere con rammarico che lo “zio” Aldo Bertini quando compilò le tre schede per il Catalogo della Mostra 1915-1935 si trovava sofferente di una crisi di depressione malinconica; oppure sopraffatto da abulia (e questo è poco giustificabile); oppure addirittura soverchiato da impegni da esplicare (il che non è giustificabile). Difatti lo scritto su Maugham Casorati è tirato via, insufficiente. Peccato perché questa signora dall'aspetto e, per quel che se ne può dedurre, da comportamenti tipicamente britannici, è una pittrice di autentica vaglia. Si può addirittura pensare che l'essere divenuta moglie di Felice Casorati l'abbia condizionata in una sorta di understatement persino nel suo lavoro. Artista di formazione e di esperienze internazionali, quale allieva volontaria ma già esperta, formata, più che aderire al linguaggio del marito ne accolse quel tanto da adattare alla propria personalità così da essere connotata pittrice comunque autonoma, originale.
Inoltre è stata sottostimata dal pubblico (all'inizio almeno) e dalla critica. Ho notato, tanto per fare un esempio, che nel Museo Civico di Torino/Galleria d'arte moderna (ed. 1968) Felice Casorati è presente con 14 dipinti, la Maugham con 2, uno dei quali da lei donato nel 1960. Il loro figlio Francesco Pavarolo Casorati (n. 1934) è presente con 1 dipinto, donato da collezionista privato. Inoltre tra le 200 opere acquisite nel Museo suddetto dalla Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris ed esposte nel 1986/87, Felice Casorati è presente con disegni ed opere grafiche da p. 111 a p. 129 del Catalogo, cioè centinaia di disegni e schizzi, nonché opere grafiche, la moglie Daphne ne è assente.
Come detto in precedenza l'autore della scheda della Mostra se la cava con un commento stringato, certo centrato, però sbrigativo. Nel Catalogo/Mostra 1935-1955 (1992) addirittura i qualificati critici non ritennero – sbagliando – di inserire nell'ampia panoramica la Daphne Maugham. Cercando poi qualche illustrazione a colori della pittrice di Pavarolo, residenza eletta, noto che il mercato è oggi più attento della critica nei confronti di questa artista che varrebbe la pena – penso – di essere indagata di nuovo riconsiderando criticamente, dopo quasi un secolo, le tappe formative e i relativi documenti visivi e quindi tutto un lungo percorso di lavoro assiduo, convinto,stilisticamente elevato. La cautela e la latitanza della critica si può anche spiegare con parole dell'attento e attivissimo cronista Raffaele De Grada, il quale della Maugham scrisse: “...svolge un'assidua partecipazione...alle vicende dell'arte italiana, con una presenza che la critica ha sempre riconosciuto anche se il carattere schivo dell'artista non ha mai forzato i tempi”.
Per documentarmi e fare il punto – se possibile – della considerazione della Maugham nel nostro panorama artistico ho cercato il Catalogo della Mostra Antologica del 2004, che al momento risulta esaurito o non disponibile (per un certo verso, sono dati positivi). Di conseguenza ho avuto un momento di costernazione circa la possibilità di reperimento di illustrazioni per questo post, dato che quelle ricavabili da vecchie fonti sono in b/n e pessime, comunque rare da reperire.
Poi vedo che qualcosa, in vero, è avvenuto come, ad es., l'elegante e accurata monografia Daphne Maugham Casorati, a cura di Leo Lecci e Daniela Laurian, edita da De Ferrari nel 2009, in occasione di una Mostra ad Imperia. Avendo acquistato il catalogo nel web posso dire che oltre le riproduzioni eccellenti delle opere (di cui molte qui riprodotte), i due saggi sono bene impostati, pertinenti e, insieme agli apparati, esaurienti. Questo libro può divenire una rampa di lancio per impostare future ricerche.
In un ritaglio del 2004 da “Venerdì”, leggo che il matrimonio della Maugham con Casorati non fu propriamente felice. Un dubbio al riguardo lo aveva avanzato anche mia madre nei primi anni Cinquanta notando che Casorati non portava con sé la moglie a La Spezia nei giorni di riunione della Giuria del Premio, molto distensivi e divertenti. Però lei stessa aggiunse che ciò probabilmente avveniva perché Daphne M.C. era anche lei pittrice, quindi, “conflitto di interessi”. Un comportamento oggi frequente con alterigia disatteso irridendo coloro che ne condividono e ne rispettano la funzione moralizzatrice dei costumi sociali. 
Nella monografia del 2009 leggo al riguardo che Casorati sulla consorte ha scritto alcune righe affettuose e riconoscenti che dimostrano l'esistenza di un autentico matrimonio:




Il figlio Francesco, pittore e docente all'Accademia Albertina di Torino, ricorda che Felice Casorati:


Ritornerò sull'argomento del Premio del Golfo di La Spezia soprattutto perché quelle circostanze furono per i Ragghianti “vacanze” più che gradevoli, al contempo importanti data la conoscenza informale ed approfondita con grandi personalità artistiche quali Carrà, Maccari, Casorati, Ciardo, solo per citare quelli che mi vengono in mente.
F.R. (8 novembre 2019)

P.S. Controllando il montaggio del post soprastante in “Anteprima” per poi poterlo immettere in rete, mi accorgo di aver scordato una illustrazione di pessima qualità tecnica ma di notevole qualità compositiva. La aggiungo, perciò, alla fine della panoramica delle opere di Daphne Maugham Casorati. Il dipinto si intitola: Giuseppina e nel 1940 è stato esposto alla Biennale di Venezia. Anche In giardino donato dall'A. Al Museo d'Arte Contemporanea di Firenze (adesso Museo del Novecento) per distrazione non è stato inserito nell'impaginato già realizzato.




Enrico Paulucci delle Roncole (1901-1999), analogamente a Gabriele Mucchi, ha traversato con piglio deciso e sereno l'intero Novecento, secolo nel quale è stato uno dei protagonisti della pittura e dell'incisione. Quando nel 1955 vidi sue opere esposte a La Strozzina (Firenze, Palazzo Strozzi) per la prima volta, devo confessare che mi colpì più che altro il suo essere stato portiere titolare della Juventus nel Campionato di Calcio 1920-1921. Il fatto che fosse anche un nobile sabaudo – marchese – invece non mi fece impressione, vuoi per l'ascendenza nobiliare di mia madre, vuoi perché conoscenti ed amici di famiglia toscani titolati abbondavano – senza scordare personaggi come il conte Sforza, ad es. - vuoi infine per avere già nell'adolescenza riscontrato che l'ereditarietà di titoli e beni era totalmente insignificante per considerare una persona, anche e specialmente dal punto di vista etico, culturale, professionale. Il fatto poi che Paulucci fosse intimo amico, sodale di “zio” Aldo Bertini e benvoluto dal mio babbo, mi garantì sul fatto che fosse pittore valido, un maestro (da ragazzi la scala dei valori non è ancora consolidata dal prevalente ancoraggio alla propria costruzione morale e culturale).
Nel 1986 quando Paulucci consentì la pubblicazione del Diario di suo padre Paolo (1850-1940) aiutante di campo del re Umberto I, acquistai e lessi il libro (Alla corte di re Umberto. Diario segreto. Rusconi editore) per curiosità prima, poi con interesse e attenzione non appena mi resi conto di ciò che quel libro rappresentava. Da quelle pagine, infatti, si deduceva un ottimo esempio e una fonte (anche se non della entità del Diario di Domenico Farini, un membro della corte umbertina, analizzato da Adolfo Omodeo alle pp. 421-426 del libro Il senso della storia, 1955) per inserirsi in quel tempo nella fattispecie e – di conseguenza – di disporre, assieme agli strumenti critici ordinari, di una chiave valida per storicizzare meglio il periodo di riferimento. Infatti per capire la storia, per immedesimarsi bene in una epoca o in un accadimento, non sono sufficienti la conoscenza dei dati e delle date, della geografia, ecc. ecc. Bisogna penetrare, convivere con la specificità di costumi, arti, stato delle conoscenze culturali, sociali, tecniche se necessario e via elencando. Solo così si può iniziare un precedente storico di qualsiasi tipo. In soldoni: la storicizzazione consiste nel convivere con questi accertamenti, spesso disparati però essenziali per potersi fare una convinzione attendibile. Perciò si può rivivere il passato quale è stato – sia pure con una certa approssimazione – nell'esperienza di chi ci è vissuto. Quindi se ne può tramitare al nostro presente e al futuro una ricostruzione probabile, valida per la comprensione da parte di altri esseri umani. In conclusione questo tipo di libri è lettura indispensabile conoscenza da parte dello storico, al pari dei manuali, delle ricostruzioni “antiquarie”, cinema compreso (se sceneggiato secondo criteri storici filologici). La contemporaneità della storia (Benedetto Croce) si realizza particolarmente anche procedendo in questo modo.
Prima della guerra, non conoscendo ancora di persona il pittore, Carlo L. Ragghianti così lo tratteggia in tre righe su “Leonardo” (n.3, 1936, p.77) nell'articolo Indicazioni sulla pittura italiana contemporanea: “Paulucci che si è intriso dell'esperienza del miglior filone impressionistico ed è giunto a una fresca personalizzazione pittorica”.
Successivamente nel 1938 su “Critica d'Arte” (n. 4-6, f. XVI-XVIII, pp. 33-37) recensendo la nota mostra a New York della collezione “La Cometa”, Ragghianti così si esprime: “ Del Paulucci, talora un po' epidermico e facile, ma sempre madido, cantato, ventilato, sempre di un contegno urbano e socievole, di piglio aperto e vivo, sorretto da un gusto di cui si avverte la finezza di selezione, era esposta una Baia ligure”. Poi Enrico Paulucci divenne amico di Carlo L. Ragghianti nel 1952 (come si deduce dalla lettera del 1° gennaio qui riprodotta) quando si tenne a La Strozzina la prima esposizione dell'artista (una “Vetrina”). Però si conoscevano almeno dal 1947 quando il pittore partecipò al catalogo edito da C.A.D.M.A. (Commissione Assistenza Distribuzione Materiali Artigianato, presieduta da C.L. Ragghianti) per una mostra da tenersi nei Grandi Magazzini Macy (una sorta di enorme Rinascente) a New York e altre località degli Stati Uniti d'America. Tennero un'esposizione – ancora a La Strozzina – e così poi nel 1963 Paulucci vi espose (presentato da Italo Calvino) una personale. Poi Paulucci nel 1950-51 fu invitato a partecipare alla importante mostra di arte italiana in Germania (anch'essa itinerante), promossa dal Comune di Firenze e realizzata da C.L.R. con il suo Studio Italiano di Storia dell' Arte. 
Quindi nel 1955 l'artista e i suoi allievi dell'Accademia di Torino Balla, Lanza, Mosso, Perino tennero un'esposizione – ancora a La Strozzina – e così poi nel 1963 Paulucci vi espose (presentato da Italo Calvino) una personale cui le vetrine di Spinosa e Pone fecero da contorno. Carlo L. Ragghianti pubblicò su “seleArte” varie volte opere di Paulucci.
La lettera di Paulucci datata 15 settembre 1952 sottolinea l'entusiasmo suscitato dal primo fascicolo di “seleArte” in lui. Questo sentimento caloroso fu espresso e manifestato anche da tantissimi altri artisti noti e meno noti.
Ragghianti volle anche Paulucci presente con un'incisione nelle due raccolte “storiche” che concepì e realizzò coi torchi de “Il Bisonte” di Maria Luigia Guaita: “Galleria grafica contemporanea”, 50 incisioni originali, pro Associazione Nazionale Assistenza agli Spastici, Firenze 1964 e “Cinquanta incisioni originali di Maestri Italiani” pro Università Internazionale dell'Arte, Firenze 1977. Con queste presenze, R: intese dimostrare la sua considerazione e l'apprezzamento per l'indubbio – ma meno noto – talento incisori o di questo artista.
E' però nella gouache (guazzo; tempera) che Enrico Paulucci esprime la propria predilezione per i paesaggi nautici con continuativi risultati di felice espressività e di coerenti, originali soluzioni figurali, creando un “ciclo” evocativo dalle declinazioni morandiane. Aldo Bertini (1966) così si espresse in un testo dedicato appunto ai guazzi:



Come molti artisti della sua generazione Paulucci si esprime anche in altre attività collaterali alla vocazione principale, non esclusa la critica (nel 1929, ad es., scrisse su Casorati architetto; mentre invece Edoardo Persico si occupò di Paulucci arredatore).
Infine mi sembra opportuno concludere la panoramica su questo artista con tre altri giudizi, scelti non soltanto perché espressi da cari amici, ma perché molto calzanti e le loro considerazioni ed osservazioni risultano testimonianze pertinenti e sincere. Nell'ordine si tratta di “zio” Aldo Bertini, Pier Carlo Santini (lo conobbi nel 1947, mi aiutò nella scelta della prima bicicletta da uomo nel 1953, fu amico ed anche fratello maggiore fino alla sua prematura morte nel 1993), Alfonso Gatto (col quale nonostante le enormi differenze di carattere ebbi una consuetudine amicale dal 1967 fino alla tragica morte per banale incidente d'auto – 1976 – che privò l'Italia del suo “poeta civile”, come lo interpellava Carlo L. Ragghianti).
F.R. (18 ottobre 2019)













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