Questo
artista, perché tale è senza dubbio, fu un personaggio che non ha
interessato un'indagine approfondita da parte di Carlo L. Ragghianti
a causa dell'ambiguità della costruzione mediatica speculata su di
lui e intorno alla sua pittura. Non è da escludere la sua curiosità
intellettuale e il rispetto, la cautela indagativa con cui R.
considerava le complicate distorsioni alienanti della psiche “malata”
ma non per questo incapace di esprimere anche arte. Tramiti certi
sono stati la frequentazione dell'antico amico Mario Tobino e
quella più recente con Franco Basaglia, col quale ebbe rapporto
intellettuale certo, di cui però io ignoro le circostanze
(probabilmente grazie agli amici friulani e triestini e ai lunghi
soggiorni a Roma a causa dell' ADESSPI che presiedeva). Ricordo, tra
parentesi, che anche Indro Montanelli nell'articolo Quadri di
lucida Follia (“Il Giornale”,
4 settembre 1984) sottolinea gli aspetti extra artistici creati
intorno all'artista. Aggiungo che C.L.R. attento ai fenomeni naifs
autentici (e persino al
cosiddetto Art Brut,
di cui ha sempre seguito le pubblicazioni della “Collection de
l'Art Brut” edite dall'omonimo museo di Losanna) era infastidito
dalla mediatica sovraconsiderazione dei motivi extra artistici e di
moda legata anche a speculazioni economiche. Insomma, Ligabue è
stato sostanzialmente innocente del clamore mediatico che lo ha
investito. Anche se l'artista in qualche modo si adeguò alla
situazione lo ha fatto senza malizia, col tocco della propria follia. La campagna di promozione economica sull'opera
del pittore, della quale
non penso egli abbia tratto particolari vantaggi, è stata vistosa e
bene orchestrata. Fatto sta che la narrazione di episodi, fatterelli,
storielle – sostitutiva delle analisi formali e culturali delle
opere d'arte – è stata massiccia, reiterata. Ragion per cui
Ligabue è tuttoggi uno dei più “celebri” artisti italiani.
Perfino lo scrittore Marco Malvaldi, che ha rallegrato e rallegra mia
sorella Rosetta e me con la sua penetrante vena umoristica sempre di
buon livello che lo associa a Jerome e Woodhouse, tanto per far nomi,
ha messo al centro del suo romanzo Negli occhi di chi
guarda (2017) un dipinto di
Ligabue con una invenzione fantastica impensabile e paradossale.
Anche
negli anni Ottanta si cercò ancora una volta di “pompare” un
mediocre professionista Gino Covili ( 1918-2005) discutibile
fenomeno anch'egli emiliano. Tuttavia, pur con le riserve espresse
nella scheda della mostra, fu proprio Ragghianti che impose la
presenza di Ligabue nell'esposizione di Palazzo Strozzi. Questa
considerazione positiva di R. si può desumere e contrario
anche dal fatto che nel successivo Catalogo/Mostra “Arte in Italia
1935-1955” (tutto sommato con un Comitato Scientifico e con Pier
Carlo Santini coordinatore in prosecuzione ideale e concettuale con
la Mostra 1915-1935). Ligabue non è stato accolto, nonostante che
proprio all'inizio degli anni Cinquanta egli si era
espresso al meglio e con notevole continuità qualitativa.
F.R.
(7 marzo 2019)
Già
la scheda del 1966, qui sopra, è indicativa dell'opinione che Carlo
L. Ragghianti aveva sulla arte di Antonio Berti (1904-1990). Opinione
che deriva dai precedenti giudizi espressi dal critico da quello –
drastico – pubblicato nel 1939 su “La Critica d'Arte” (La
terza Quadriennale d'arte italiana,
p.6, del n. 1, f.XIV, gen.-mar.) che dice:
Successivamente nel 1956 su “seleArte” (n. 27, nov.-dic. pp. 58-61) a proposito del Monumento a De Gasperi in Trento il giudizio di R. è anche quasi sconsolato già nel titolo Umiliati e offesi e lo riproduciamo dopo questo testo redazionale. Ciò nonostante i rapporti personali tra Berti e C.L.R. furono cordiali, dato il carattere duttile e pacioso, nonché prudente (come sapevano essere i mezzadri toscani), dello scultore, il quale agiva in perfetta buona fede ricercando effetti collaterali, descrittivi dell'espressione artistica, come spiega lucidamente nello scritto del 1971 Giovanni Colacicchi. In conclusione se Antonio Berti non si può considerare un vero artista, quindi originale, è indubbiamente un eccellente artigiano, per certi versi inimitabile.
Anche lo scritto affettuoso della figlia Cecilia (frequentatrice di un corso al British Institute e “amica” d'autobus con mia sorella Anna) qui di seguito riprodotto dimostra la natura patriarcale di Berti, equilibrata quanto premurosamente coinvolgente, che metteva a proprio agio l'interlocutore.
Appresi
molti anni fa, e credo che sia veritiero, che quando una persona
vanesia, contorta ma di notevole intelligenza ed appeal
come François Mitterand veniva a soggiornare – spesso, pare - a
Firenze, incontrava sempre Berti confidenzialmente. Anche nel caso
dello scultore di origine mugellana riproduciamo la sequenza delle
opere, la scheda del Catalogo/Mostra Arte inItalia
1935-1955 redatta da Raffaele De
Grada. Mi piace terminare ricordando che non tutti i monumenti
scolpiti da Antonio Berti sono disastrosi iperrealismi come quello di
Trento dedicato al povero De Gasperi, uomo schivo e colto sarebbe
rimasto certamente orripilato di fronte a quel suo ritratto. Ugo
Foscolo in Santa Croce e il
Giuseppe Mazzini
nell'omonimo viale di Firenze sono opere nella tradizione – non
esaltante - ottocentesca, forse meno pompose di tante altre sculture
risorgimentali, certo riflettono una disinvoltura che però non
offende con i dettagli statici della statua di Trento. Non sono arte,
ma nemmeno obbrobri retorici e bolsi.
F.R. (16 maggio 2019)
Pittore
controverso, di notevole operosità, Pompeo Borra (1898-1973) ha
avuto un iniziale successo internazionale sulla scia di Funi e della
moda sui “primitivi” o comunque artisti ritenuti tali.
Successivamente ha declinato le stesse formule espressive sempre più
appassionato nel colore e nel tratto. Nel dopoguerra, a mio avviso,
la sua formula esressiva è coincisa con l'iniziale pop art
internazionale, però con ritmo
spento, fortuito. Se Luciano Anceschi (1911-1995), letterato più che
critico d'arte, ha scritto su Borra frasi di entusiasta encomio, però
lo ha fatto su di un organo improprio, cioè sulla bellissima rivista
“Ferrania” (marzo 1953) di fotografia e di fotografi, dove lo
stile di B. è totalmente estraneo. D'altra parte vedo che se
Pompeo Borra non avesse scritto il 21 settembre
1966 la lettera (che riproduciamo) piuttosto risentita per non essere
stato invitato per la Mostra 1915-1935 nonostante la sua carriera,
C.L. Ragghianti, con la consueta generosià, non volle umiliare
l'anziano pittore dedito con passione al proprio dipingere e
riconoscendone i meriti culturali nella vita artistica dell'inizio
del Novecento, lo accolse con critica redazionale interpretandolo in
maniera piuttosto riduttiva. Il Comitato Scientifico del
Catalogo/Mostra 1935-1955 addirittura non ha preso in considerazione
perché inidoneo ad essere illustrato e ricordato, nonostante
l'imponente curriculum.
F.R. (16 maggio 2019)
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