Stante il fatto che sono
rimasti da riproporre e commentare quasi soltanto gli artisti le cui
schede sono state scritte da studiosi differenti da Ragghianti e, per
quel che lo riguarda, devono essere postati soltanto artisti di
“grosso calibro” come Morandi, Carrà ecc., ai quali in questa
sede verrà dedicata una “monografia” (come nel caso del già
pubblicato Luigi Bartolini, vedere post del 15 aprile 2018), mi pare
opportuno cominciare a ricordare quei pittori e quegli scultori la
cui scheda è stata scritta redazionalmente, usando un'apposita
sezione caratterizzata anche dal diverso colore del logo iniziale.
Con questa prima serie di
artisti, riportati in ordine cronologico come nel Catalogo della
mostra del 1967, inizia la sequenza di post la sua scheda è firmata
“Red.”, cioè redazione.
Ricordo che questi testi sono stati scritti da Carlo L. Ragghianti e, per
quanto riguarda i
collaboratori, praticamente soltanto da Raffaele Monti, segretario
generale della mostra, secondo le direttive metodologiche dello
studioso lucchese. E' bene tenere presente,
altresì, che in questa sezione non si
trattano necessariamente artisti minori ma – anche artisti di cui
nessun critico interpellato voleva assumersi la paternità di
giudizio e casomai artisti trascurati dalla cultura contemporanea
presente nei Comitati tecnico e di consulenza, composti da critici
molto noti e qualificati, i quali sono talvolta anche troppo
“specialisti” in determinati movimenti, in zone geografiche o in
periodi cronologici. Per ciascun maestro, oltre alla scheda del
Catalogo saranno riportate altre opere significative, documenti,
eventuale corrispondenza con C.L.R. e quant'altro si è potuto
scovare e ricordare di abbastanza poco noto, interessante o negletto.
MARIO
NANNINI
Praticamente
ignorato da molti repertori futuristi, lo sfortunato Mario Nannini
quando è citato viene più o meno liquidato così: “Il meurt à
l'âge
de 23 ans sans avoir pu développer des dons évidents” (Le
Futurisme et le Dadaïsme
di José Pierre, Editions Rescontre, Lausanne). Nell'assai corposo ma
scontato e dilatato catalogo Futurismo e
Futurismi (per la Mostra in Palazzo
Grassi di Venezia, Fondazione Fiat, 1986) addirittura Nannini non è
nemmeno citato negli Indici. Questa operazione piuttosto pretenziosa
e ricca di mezzi a disposizione fu curata da un certo Pontus Holten
che per alcuni anni trovò in un'Italia provinciale e snobistica il
paese di Bengodi.
Questo
critico fu una sorta di anticipazione della recente replica
sistematica sulle Sovrintendenze ed i Musei principali, opera di un
ministro incompetente ma arrogante che si diletta a scrivere romanzi
(si vede che al Ministero c'è poco da fare, nonostante i problemi in
sospeso o irrisolti siano tanti e tanto grandi quanto urgenti). E'
accaduto nelle BB.AA. (declassate a ufficio prefettizio) che in luogo
di funzionari dirigenti spesso eccellenti ed efficaci nonché
studiosi
collaudati, siano stati nominati/imposti
una ventina di personaggi – quasi tutti stranieri, strapagati
rispetto ai predecessori – grazie ad una legge rottamatrice
insolita ma mosca cocchiera di intenzioni e di concezioni
sovranazionali da applicarsi ad altre amministrazioni, però non
applicata in altri paesi europei (nelle BB.AA. nei grandi complessi
sì, in certi paesi, ma non per chiamata discrezionale e politica).
Viene il sospetto che la cleptocrazia politica che occupa il potere
con questa legislazione voglia arrivare a sopprimere il controllo di
merito sui compiti di verifica edilizia, urbanistica, artistica,
compreso il mercato libero dell'arte. Perché se è vero che possono
uscire capolavori è anche vero che ne possono entrare con eque e
condivise regole, senza capestri discriminatori. Su questo
giovanissimo pittore, suggerito con meritevole insistenza al Comitato
esecutivo della mostra da Alessandro Parronchi (che ricordo come
critico di facili entusiasmi ma anche di sinceri amori intellettuali)
non so cos'altro poter dire di diverso da quanto scritto nella
scheda.
F.R. (5 giugno
2018)
ROMANO
ROMANELLI
Ai
miei occhi postrisorgimentali il fatto che in linea materna Romano
Romanelli discendesse da Francesco Ferrucci, l'eroe martire di
Gavinana rievocato dal Guerrazzi, me lo rende simpatico a priori.
Carlo L. Ragghianti, però, ne La III
Quadriennale d'arte italiana (1939)
liquida la partecipazione dell'artista con le quattro righe seguenti:
“Se ne vedono tracce nel Romanelli, e non solo come atteggiamento
mentale e di gusto rispetto ai propri mezzi di espressione, ma anche
come realizzazione, decisamente riduttive”.
Probabilmente
questo artista (morto nel 1968) di formazione tradizionale per certi
versi analoga a quella quattrocentesca, divenne progressivamente
espressione dell'ideologia imperial-fascista, pur non essendone
intellettivamente partecipe delle conseguenze ideologiche. Certo è
che la sua personale operatività si espresse in costante discesa
quanto ad originalità e impatto visivo. Qui riproduciamo il
suggestivo Risveglio di Brumilde
(1913), Giano e la vergine
(1929-30), un cesareo Ritratto di
Ardegno Soffici (esp. Biennale di
Venezia, 1930), un Ritratto
(ivi esp. Nel 1934) da anfiteatro anatomico e, del 1931, un Ritratto
femminile e il bozzetto di un Monumento
– non so se realizzato – a Giorgio
Washington. Alla Seconda Quadriennale
(1935) Romanelli è presente con un “neo?”classico Ercole
che strozza il leone, mentre alla Terza
(1939) presenta un Donna sdraiata
con recuperi di vitalità espressiva. In questo arco di tempo
Romanelli fu nominato niente “cacca” di meno che nella
fascistissima Accademia d'Italia. Nel dopoguerra non fu naturalmente
disturbato e, allineatosi alla pia ideologia emergente, riprese come
se niente fosse accaduto l'attività, con una evidente involuzione
stilistica retorica e di incerta derivazione come si vede nel Cristo
Maestro del 1949. Nello stesso anno
dettò per la conformista rivista “Arte mediterranea” (n.7/8,
1949) dei Pensieri sull'arte,
con sprazzi interessanti seppur contraddittorii.
F.R. (11
novembre 2018)
FRANCO DANI
Se
fosse stato un ciclista Franco Dani (1895-1983) sarebbe stato uno di
quei gregari a cui di tanto in tanto è consentito vincere una tappa
in pianura, un circuito secondario. Questo pittore a mio avviso perde
lo slancio iniziale di autodidatta (v. Fiera
di Fiesole) e percorre la lunga
carriera con declinante operosità. Anch'io, vedo, sono severo con
costui per motivi non inerenti all'arte, soggiaccio al pregiudizio di
fascista che ha accompagnato l'artista. Comunque penso che salvo il
dipinto Ragazza con la mandola del
1924 (che mi rammarico di non ricordare a colori e che mi sembra di
alta qualità) e poche altre opere la sua pittura è sostanzialmente
derivativa. Mi pare quindi che Carlo L. Ragghianti sintetizzi
ottimamente ciò quando scrive: “Basterà non più che accennare
all'innocuo Dani, bravo scolaro di Spadini e di Carena, e un po'
torbido ed inspido come tutti i portatori di ottime pagelle” (La
Terza Quadriennale, cit. “La Critica
d'Arte”, a.V, n.1, f. XXIII, gen.-mar.1940). Plaudo e sottoscrivo.
Mi soffermo su Dani soprattutto per un motivo non artistico: cioè per la sua nomea molto, anche artatamente diffusa da colleghi e persone che non furono certo antifascisti, anzi. Comunque anche Dani aveva la coda di paglia quando scriveva alla Direzione della Mostra di Arte Moderna in Palazzo Strozzi in data 12 ottobre 1986 la seguente excusatio non petita:
“Vicende intime mie mi costrinsero a cercare di lasciare l'Italia, di andarne e restarne lontano: antifascista schedato e perciò cittadino senza diritto a un passaporto; non ebbi altra scelta che partire per l'A.O.I. prima, e, poco dopo esserne ritornato, ripartire per l'Africa settentrionale. Da queste 'imprese' e dopo aver fatto cinque anni di prigionia in India, ritornai a Pasqua del 1946: ossia non tornai: ritornò un altro Dani, un Dani che aveva avuto tutto il tempo per rivedere tutte le sue idee.”
Ma io
gli credo, anche se magari tanto antifa
prima non era, però mi sembra più sincero di tante palinodie (penso
a quella imbarazzante di Ottone Rosai) di gente collusa con il fascio
(ossia il 95% degli adulti di ambo i sessi di cui la grande
maggioranza anche fermamente convinta). Perciò il poveraccio,
afflitto anche da un caratteraccio aggressivo ed insieme
maniacal-persecutorio (come si vede nella sdegnata e plateale lettera
a C.L. Ragghianti, R. Torricelli, R. Monti dell'8 febbraio 1967), s'è
trovato nel torbido ambiente fiorentino ad essere se non il
almeno un
capro espiatorio per tutto il resto della lunga vita.
ERCOLE DREI
Anche per
Ercole Drei (1886-1973), come per tutti gli scultori dell'epoca, il
fascismo (dapprima con la gestione retorica dei caduti in guerra
monumentati in ogni comune d'Italia, poi per i fasti del regime –
soprattutto a Roma ) fu “manna”. Una ricca occasione, cioè, di
attività insperata dopo l'esaurimento dell'orgia retorica
risorgimentale a sostegno di un regno largamente estraneo alle
popolazioni, specialmente nel sud borbonico.
Carlo
L. Ragghianti prende in considerazione l'opera di Drei ne La
III Quadriennale d'arte italiana (“La
Critica d'Arte”, a.V, n.1, f. XIX, gen.-mar. 1939, pp.5,6) in
termini riduttivi, anche se non severi, scrivendo: “Il Dani si
esemplifica in queste massime: esecuzione finita (la 'bella materia'
o 'il mestiere', sui quali tanto si mulina), disegno, armonia delle
proporzioni, fantasia della composizione, naturalezza
dell'espressione. Dichiara egli stesso che questa pallida ricetta
accademica dell'operare artistico può essere chiamata a giusto
titolo 'scolastica'; è agevole rendersi conto che l'unica simbiosi condegna
con sani e ben
stagionati precetti come quelli espressi, è solo possibile ad altri
come questo: 'l'arte deve diventare popolare, cioè comprensibile ed
accessibile al popolo”. E a p.6 prosegue: '...alle smanie saccenti
alle preziosaggini pretenziose degli scaltri, alla pesante vacuità
dei meri mestieranti e fabbricatori di statue, per esempio il
Drei...”.
Le opere che
riproduciamo vanno dal 1913 al 1952 e confermano il giudizio, al
quale aggiungerei che come in altri colleghi dell'epoca l'adesione al
fascismo – più o meno sincera che fosse non muta la sostanza –
rappresentò un evidente regresso a fronte degli esordi e
dell'attività precedente. Nel 1940, inoltre, con le imbambolate
chiorbe di re sciaboletta e del truce, Drei mostra il peggio di sé. Lo scultore
praticò anche la pittura durante tutta la vita, con accentuazione
nel dopoguerra. La sua vena è autentica, priva di ridondanze
retoriche, anche se non all'altezza dei Maestri accertati dalla
critica; fu ed è comunque degna di osservazione e conservazione.
F.R. (12
novembre 2018)
DONATO
FRISIA
Donato
Frisia fu persona schiva, inquieta, per certi versi avventurosa,
legata profondamente alla famiglia ma anche a “amanti che gli
concedevano i nudi più arditi”. Forse davvero un personaggio un
po' contraddittorio nella vita ma assolutamente coerente nell'arte.
Salvo Borgese e pochi altri, la critica ufficiale non se n'è
occupata granché, molti i commenti laudativi di scrittori poligrafi
come Vergani, molti i commentatori locali o poco autorevoli. Tutti
positivi gli scritti e le osservazioni dei tanti colleghi pittori,
soprattutto lombardi, compresi i notissimi Carlo Carrà e Ennio
Morlotti.
Secondo
Carrà (1932): “Così si potrebbe affermare che per il Frisia la
dottrina – cioè la scienza pittorica – è una forza istintiva
che si manifesta come un atto di volontà e di passione”. Per Aldo
Carpi (1938) “egli è instancabile cercatore della verità
pittorica, e non bada a fatica, a lavoro, a rischio, pur di
arrivarci. Però la sua ricerca non sbanda mai”. Per Mario Radice, artista quanto mai lontano da Frisia stilisticamente, due giorni dopo la morte il collega “era un pittore nato: le emozioni che suscitavano i suoi dipinti nascevano da toni
particolari che andava scovando nel registro sempre aperto e sempre nuovo di madre
natura...Le sue emozioni erano di natura pittorica, non letteraria”.
Come
ho sottolineato nel post Misconosciuti
dal catalogo arte moderna in Italia 1915-1935
(postato l'11 novembre 2018) sono stati tantissimi gli artisti che,
nonostante l'ossigeno respirato durante l'esposizione in Palazzo
Strozzi, sono ripiombati nell'oblio o in una conoscenza locale. In
parte questo non è il caso di Frisia perché l'artista nel 1991 è
stato ricordato con una imponente monografia (testo di Marina
Pizziolo, presentazione di Franco Passoni, Bolis editore). Certo
questo libro può non essere sufficiente a sostenere la presenza
dell'artista per quanto abbia ottimo apparato illustrativo e
documentario.
Nella
scelta delle illustrazioni, siccome quest'artista mi pare degno di
considerazione, ho cercato di mostrare gli aspetti tematici
ricorrenti nel pittore. E' trascurato il paesaggio urbano e campestre
purtroppo a causa di una minore resa qualitativa delle riproduzioni
disponibili.
F.R. (13
novembre 2018)
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