Carlo e Licia

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giovedì 6 giugno 2019

Arte Moderna in Italia 1915/1935. Schede Redazionali 1 - NANNINI, BARILLI, MONTECECON, ROMANELLI, DANI, DREI, FRISIA.

Stante il fatto che sono rimasti da riproporre e commentare quasi soltanto gli artisti le cui schede sono state scritte da studiosi differenti da Ragghianti e, per quel che lo riguarda, devono essere postati soltanto artisti di “grosso calibro” come Morandi, Carrà ecc., ai quali in questa sede verrà dedicata una “monografia” (come nel caso del già pubblicato Luigi Bartolini, vedere post del 15 aprile 2018), mi pare opportuno cominciare a ricordare quei pittori e quegli scultori la cui scheda è stata scritta redazionalmente, usando un'apposita sezione caratterizzata anche dal diverso colore del logo iniziale.
Con questa prima serie di artisti, riportati in ordine cronologico come nel Catalogo della mostra del 1967, inizia la sequenza di post la sua scheda è firmata “Red.”, cioè redazione. 
Ricordo che questi testi sono stati scritti da Carlo L. Ragghianti e, per  
quanto riguarda i collaboratori, praticamente soltanto da Raffaele Monti, segretario generale della mostra, secondo le direttive metodologiche dello studioso lucchese. E' bene tenere presente, altresì, che in questa sezione non si trattano necessariamente artisti minori ma – anche artisti di cui nessun critico interpellato voleva assumersi la paternità di giudizio e casomai artisti trascurati dalla cultura contemporanea presente nei Comitati tecnico e di consulenza, composti da critici molto noti e qualificati, i quali sono talvolta anche troppo “specialisti” in determinati movimenti, in zone geografiche o in periodi cronologici. Per ciascun maestro, oltre alla scheda del Catalogo saranno riportate altre opere significative, documenti, eventuale corrispondenza con C.L.R. e quant'altro si è potuto scovare e ricordare di abbastanza poco noto, interessante o negletto.



MARIO NANNINI

Praticamente ignorato da molti repertori futuristi, lo sfortunato Mario Nannini quando è citato viene più o meno liquidato così: “Il meurt à l'âge de 23 ans sans avoir pu développer des dons évidents” (Le Futurisme et le Dadaïsme di José Pierre, Editions Rescontre, Lausanne). Nell'assai corposo ma scontato e dilatato catalogo Futurismo e Futurismi (per la Mostra in Palazzo Grassi di Venezia, Fondazione Fiat, 1986) addirittura Nannini non è nemmeno citato negli Indici. Questa operazione piuttosto pretenziosa e ricca di mezzi a disposizione fu curata da un certo Pontus Holten che per alcuni anni trovò in un'Italia provinciale e snobistica il paese di Bengodi.
Questo critico fu una sorta di anticipazione della recente replica sistematica sulle Sovrintendenze ed i Musei principali, opera di un ministro incompetente ma arrogante che si diletta a scrivere romanzi (si vede che al Ministero c'è poco da fare, nonostante i problemi in sospeso o irrisolti siano tanti e tanto grandi quanto urgenti). E' accaduto nelle BB.AA. (declassate a ufficio prefettizio) che in luogo di funzionari dirigenti spesso eccellenti ed efficaci nonché studiosi 


collaudati, siano stati nominati/imposti una ventina di personaggi – quasi tutti stranieri, strapagati rispetto ai predecessori – grazie ad una legge rottamatrice insolita ma mosca cocchiera di intenzioni e di concezioni sovranazionali da applicarsi ad altre amministrazioni, però non applicata in altri paesi europei (nelle BB.AA. nei grandi complessi sì, in certi paesi, ma non per chiamata discrezionale e politica). Viene il sospetto che la cleptocrazia politica che occupa il potere con questa legislazione voglia arrivare a sopprimere il controllo di merito sui compiti di verifica edilizia, urbanistica, artistica, compreso il mercato libero dell'arte. Perché se è vero che possono uscire capolavori è anche vero che ne possono entrare con eque e condivise regole, senza capestri discriminatori. Su questo giovanissimo pittore, suggerito con meritevole insistenza al Comitato esecutivo della mostra da Alessandro Parronchi (che ricordo come critico di facili entusiasmi ma anche di sinceri amori intellettuali) non so cos'altro poter dire di diverso da quanto scritto nella scheda.
F.R. (5 giugno 2018)





ROMANO ROMANELLI

Ai miei occhi postrisorgimentali il fatto che in linea materna Romano Romanelli discendesse da Francesco Ferrucci, l'eroe martire di Gavinana rievocato dal Guerrazzi, me lo rende simpatico a priori. Carlo L. Ragghianti, però, ne La III Quadriennale d'arte italiana (1939) liquida la partecipazione dell'artista con le quattro righe seguenti: “Se ne vedono tracce nel Romanelli, e non solo come atteggiamento mentale e di gusto rispetto ai propri mezzi di espressione, ma anche come realizzazione, decisamente riduttive”.
Probabilmente questo artista (morto nel 1968) di formazione tradizionale per certi versi analoga a quella quattrocentesca, divenne progressivamente espressione dell'ideologia imperial-fascista, pur non essendone intellettivamente partecipe delle conseguenze ideologiche. Certo è che la sua personale operatività si espresse in costante discesa quanto ad originalità e impatto visivo. Qui riproduciamo il suggestivo Risveglio di Brumilde (1913), Giano e la vergine (1929-30), un cesareo Ritratto di Ardegno Soffici (esp. Biennale di Venezia, 1930), un Ritratto (ivi esp. Nel 1934) da anfiteatro anatomico e, del 1931, un Ritratto femminile e il bozzetto di un Monumento – non so se realizzato – a Giorgio Washington. Alla Seconda Quadriennale (1935) Romanelli è presente con un “neo?”classico Ercole che strozza il leone, mentre alla Terza (1939) presenta un Donna sdraiata con recuperi di vitalità espressiva. In questo arco di tempo Romanelli fu nominato niente “cacca” di meno che nella fascistissima Accademia d'Italia. Nel dopoguerra non fu naturalmente disturbato e, allineatosi alla pia ideologia emergente, riprese come se niente fosse accaduto l'attività, con una evidente involuzione stilistica retorica e di incerta derivazione come si vede nel Cristo Maestro del 1949. Nello stesso anno dettò per la conformista rivista “Arte mediterranea” (n.7/8, 1949) dei Pensieri sull'arte, con sprazzi interessanti seppur contraddittorii.
F.R. (11 novembre 2018)






FRANCO DANI


Se fosse stato un ciclista Franco Dani (1895-1983) sarebbe stato uno di quei gregari a cui di tanto in tanto è consentito vincere una tappa in pianura, un circuito secondario. Questo pittore a mio avviso perde lo slancio iniziale di autodidatta (v. Fiera di Fiesole) e percorre la lunga carriera con declinante operosità. Anch'io, vedo, sono severo con costui per motivi non inerenti all'arte, soggiaccio al pregiudizio di fascista che ha accompagnato l'artista. Comunque penso che salvo il dipinto Ragazza con la mandola del 1924 (che mi rammarico di non ricordare a colori e che mi sembra di alta qualità) e poche altre opere la sua pittura è sostanzialmente derivativa. Mi pare quindi che Carlo L. Ragghianti sintetizzi ottimamente ciò quando scrive: “Basterà non più che accennare all'innocuo Dani, bravo scolaro di Spadini e di Carena, e un po' torbido ed inspido come tutti i portatori di ottime pagelle” (La Terza Quadriennale, cit. “La Critica d'Arte”, a.V, n.1, f. XXIII, gen.-mar.1940). Plaudo e sottoscrivo.
Mi soffermo su Dani soprattutto per un motivo non artistico: cioè per la sua nomea molto, anche artatamente diffusa da colleghi e persone che non furono certo antifascisti, anzi. Comunque anche Dani aveva la coda di paglia quando scriveva alla Direzione della Mostra di Arte Moderna in Palazzo Strozzi in data 12 ottobre 1986 la seguente excusatio non petita:


Vicende intime mie mi costrinsero a cercare di lasciare l'Italia, di andarne e restarne lontano: antifascista schedato e perciò cittadino senza diritto a un passaporto; non ebbi altra scelta che partire per l'A.O.I. prima, e, poco dopo esserne ritornato, ripartire per l'Africa settentrionale. Da queste 'imprese' e dopo aver fatto cinque anni di prigionia in India, ritornai a Pasqua del 1946: ossia non tornai: ritornò un altro Dani, un Dani che aveva avuto tutto il tempo per rivedere tutte le sue idee.”
Ma io gli credo, anche se magari tanto antifa prima non era, però mi sembra più sincero di tante palinodie (penso a quella imbarazzante di Ottone Rosai) di gente collusa con il fascio (ossia il 95% degli adulti di ambo i sessi di cui la grande maggioranza anche fermamente convinta). Perciò il poveraccio, afflitto anche da un caratteraccio aggressivo ed insieme maniacal-persecutorio (come si vede nella sdegnata e plateale lettera a C.L. Ragghianti, R. Torricelli, R. Monti dell'8 febbraio 1967), s'è trovato nel torbido ambiente fiorentino ad essere se non il almeno un capro espiatorio per tutto il resto della lunga vita.

ERCOLE DREI

Anche per Ercole Drei (1886-1973), come per tutti gli scultori dell'epoca, il fascismo (dapprima con la gestione retorica dei caduti in guerra monumentati in ogni comune d'Italia, poi per i fasti del regime – soprattutto a Roma ) fu “manna”. Una ricca occasione, cioè, di attività insperata dopo l'esaurimento dell'orgia retorica risorgimentale a sostegno di un regno largamente estraneo alle popolazioni, specialmente nel sud borbonico.
Carlo L. Ragghianti prende in considerazione l'opera di Drei ne La III Quadriennale d'arte italiana (“La Critica d'Arte”, a.V, n.1, f. XIX, gen.-mar. 1939, pp.5,6) in termini riduttivi, anche se non severi, scrivendo: “Il Dani si esemplifica in queste massime: esecuzione finita (la 'bella materia' o 'il mestiere', sui quali tanto si mulina), disegno, armonia delle proporzioni, fantasia della composizione, naturalezza dell'espressione. Dichiara egli stesso che questa pallida ricetta accademica dell'operare artistico può essere chiamata a giusto titolo 'scolastica'; è agevole rendersi conto che l'unica simbiosi condegna


con sani e ben stagionati precetti come quelli espressi, è solo possibile ad altri come questo: 'l'arte deve diventare popolare, cioè comprensibile ed accessibile al popolo”. E a p.6 prosegue: '...alle smanie saccenti alle preziosaggini pretenziose degli scaltri, alla pesante vacuità dei meri mestieranti e fabbricatori di statue, per esempio il Drei...”.
Le opere che riproduciamo vanno dal 1913 al 1952 e confermano il giudizio, al quale aggiungerei che come in altri colleghi dell'epoca l'adesione al fascismo – più o meno sincera che fosse non muta la sostanza – rappresentò un evidente regresso a fronte degli esordi e dell'attività precedente. Nel 1940, inoltre, con le imbambolate chiorbe di re sciaboletta e del truce, Drei mostra il peggio di sé. Lo scultore praticò anche la pittura durante tutta la vita, con accentuazione nel dopoguerra. La sua vena è autentica, priva di ridondanze retoriche, anche se non all'altezza dei Maestri accertati dalla critica; fu ed è comunque degna di osservazione e conservazione.
F.R. (12 novembre 2018)

DONATO FRISIA

Donato Frisia fu persona schiva, inquieta, per certi versi avventurosa, legata profondamente alla famiglia ma anche a “amanti che gli concedevano i nudi più arditi”. Forse davvero un personaggio un po' contraddittorio nella vita ma assolutamente coerente nell'arte. Salvo Borgese e pochi altri, la critica ufficiale non se n'è occupata granché, molti i commenti laudativi di scrittori poligrafi come Vergani, molti i commentatori locali o poco autorevoli. Tutti positivi gli scritti e le osservazioni dei tanti colleghi pittori, soprattutto lombardi, compresi i notissimi Carlo Carrà e Ennio Morlotti.
Secondo Carrà (1932): “Così si potrebbe affermare che per il Frisia la dottrina – cioè la scienza pittorica – è una forza istintiva che si manifesta come un atto di volontà e di passione”. Per Aldo Carpi (1938) “egli è instancabile cercatore della verità pittorica, e non bada a fatica, a lavoro, a rischio, pur di arrivarci. Però la sua ricerca non sbanda mai”. Per Mario Radice, artista quanto mai lontano da Frisia stilisticamente, due giorni dopo la morte il collega “era un pittore nato: le emozioni che suscitavano i suoi dipinti nascevano da toni 


particolari che andava scovando nel registro sempre aperto e sempre nuovo di madre natura...Le sue emozioni erano di natura pittorica, non letteraria”.
Come ho sottolineato nel post Misconosciuti dal catalogo arte moderna in Italia 1915-1935 (postato l'11 novembre 2018) sono stati tantissimi gli artisti che, nonostante l'ossigeno respirato durante l'esposizione in Palazzo Strozzi, sono ripiombati nell'oblio o in una conoscenza locale. In parte questo non è il caso di Frisia perché l'artista nel 1991 è stato ricordato con una imponente monografia (testo di Marina Pizziolo, presentazione di Franco Passoni, Bolis editore). Certo questo libro può non essere sufficiente a sostenere la presenza dell'artista per quanto abbia ottimo apparato illustrativo e documentario.
Nella scelta delle illustrazioni, siccome quest'artista mi pare degno di considerazione, ho cercato di mostrare gli aspetti tematici ricorrenti nel pittore. E' trascurato il paesaggio urbano e campestre purtroppo a causa di una minore resa qualitativa delle riproduzioni disponibili.

F.R. (13 novembre 2018)

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