Carlo e Licia

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martedì 21 maggio 2019

Una visita a Manzù.

Personalmente ho conosciuto Giacomo Manzù nel 1985, dopo aver trasformato la frequentazione con Piero Pananti in amicizia. In vero incontrai per la prima volta questo gallerista ed editore quando gli chiesi dei clichés per illustrare il fascicolo monografico su Emilio Greco della “Critica d'Arte” (n.131/133, sett.-dic. 1973). Ma sempre Emilio Greco, che teneva una importante personale a Bari (nell'84, mi sembra) promossa da Piero e suggellata da mio padre, fornì l'occasione per cui quella trasferta aereotrasportata divenne confidenza e amicizia (lo sottolineo perché essa è una delle veramente poche su cui posso confortare la solitudine). Anche a Bari c'era Alfredo Righi, il quale una volta pensionatosi bene (giacché miracolato da una inaspettata seconda previdenza quale sindacalista del Movimento di Comunità, di Adriano Olivetti confluito nell' U.I.L.), dopo una vita di lavoro forse stressante, certo non faticosa, occupava il tempo in socialità di varia natura. Pananti con l'ausilio di Alfredo voleva chiedere non ricordo cosa a Manzù ed io fui coinvolto nella gita col ruolo di rappresentare il cognome come garante di serietà – previo consenso paterno da parte mia, anche se non richiesto.
Arrivammo a Roma in automobile in una splendida mattina domenicale d'agosto: mangiammo all'aperto in una strada di semi periferia, larga ben areata di edilizia borghese inizio secolo e dal lato in ombra. Altra differenza con il pasto nella Roma di Fellini fu che i tavoli, tanti, erano per 2/4 persone e i clienti non erano caciaroni perché non affiatati e in prevalenza turisti parcellizzati in piccole unità familiari. Del cibo non ricordo niente, però non fu sgradevole, il vino lo ricordo perché Righi impose il “Galestro”, un bianco di recente invenzione, veramente mediocre. Subito dopo attraverso una città semi deserta, con automobili rare e placide, insonora, sempre con una ventilazione leggera che annullava la calura bruciante, se toccavi con mano qualcosa. L'Eur assolata, desolata risultava più convincente di un De Chirico di spatola magra. Dopo i pini di Roma, la campagna pareva una sequenza di immobili miniature nitide. La villa di Manzù nei pressi di Ardea appariva come un fortilizio medievale, con attorno alla residenza patronale annessi e connessi di onesta rusticità.
Fummo ricevuti in un salotto assai spazioso e disadorno e insediati in ampie poltrone massicce, squadrate, con braccioli larghi un palmo, nelle quali un corpulento come l'Alfredo stava largo; Piero, alto e robusto sembrava a suo agio; io, allora ancora in peso forma, mi sentivo imbarazzato perché non trovavo un ubi consistam: o i piedi ben saldi a terra e la schiena lontana dallo schienale, oppure viceversa con la schiena appoggiata e i piedi quasi penzoloni, nonostante 172 cm. di altezza. Dopo qualche interminabile minuto in quel salone abbastanza fresco e molto luminoso, finalmente comparve il Maestro. Ahilui, niente carisma: tozzo, sciatto (l'Alfredo poi sostenne che aveva anche la patta dei pantaloni aperta) e, incredibile, con un cappellaccio in testa, Manzù sembrava la caricatura non riuscita di Tono Zancanaro particolarmente alticcio quando incedeva pour époter la bourgeois, con in mano un bastone, la camicia – rossa, di preferenza – fuori dalle braghe, sandali lisi dall'uso con ai piedi sgargianti calzini. Però la faccia, il visus di Tono sprizzava bonomia ironica, simpatica disponibilità, il suo procedere sbilenco, scazonte, suscitava benevola attenzione, cordiale aspettativa. Giacomo Manzù, al contrario, sembrava un villano rifatto, apprensivo e malevolo fattore di serie B.
Quando maldestramente mi alzai per salutarlo strinsi una mano paffuta e molliccia. Mentre gli riferivo i saluti di Carlo L. Ragghianti che tramite la mia voce gli chiedeva di dare benevolo ascolto ai signori con cui m'accompagnavo, Manzù prese ad agitare una mano per farsi vento ed io – sorpreso – dovetti sforzarmi di non rimanere ipnotizzato da quelle dita danzanti. Ero, lo ricordo come fosse ieri, basito dalla contraddizione dell'apparenza oziosa di quell'organo che con delicatezza ma anche – e non poco durante il suo lavoro – capace di grande forza, forse decisa brutalità se necessario. Una mano che plasmava splendide sculture, fini incisioni, disegni di ineguagliabile espressività. Perché è bene che lo chiarisca anche qui, Manzù è stato un artista di levatura eccezionale, uno di quegli artefici che sfiderà i secoli nonostante le turpi distruzioni di stati ed uomini mostruosi che preferirebbero la fine del mondo ad un argine del loro ego smisurato (in realtà meschino forse soltanto ìnvido). I posteri comunque avranno di Manzù una memoria, forse labile però motivata, degli egolatri che reggono il mondo forse neppure il nome sarà tramandato, perché dannato.

Non rammento cosa volessero Piero e Alfredo durante l'oretta di conversazione. Avevo la testa altrove, compreso il fatto che con quel caldo non ci fosse offerto niente da bere; però pietoso pensai che dipendesse dal fatto che il Maestro non dovesse dissetarsi per motivi medici. A un certo punto fece la sua comparsa, con incedere deciso, teutonico, quasi minaccioso (meno male che era stata una danzatrice!) Inge, la moglie, che con fare indifferente e sostenuto gli ricordò che doveva prepararsi per un impegno. Non salutò, nonostante ci fossimo alzati all'unisono, e dopo le poche parole voltò le terga (interessanti, a dire il vero) e scomparve. Per quel che avevo potuto notare, oltre al sedere, si vedevano ancora nella ex ballerina ed ex modella le vestigia di una bellezza penetrante, coinvolgente; l'incarnato era ancora nettamente rimarcabile e l'andamento comunque elegante. Però 
l'opacità un po' bovina, statica e dura del volto induceva a distogliere lo sguardo, lo charme riflesso nelle sculture non c'era più: era soltanto una donna piuttosto alta e corpulenta, la cui presenza impositiva risultava soltanto fastidiosa. Comunque Manzù, che ebbe il buon gusto di non notare l'imbarazzo intervenuto, prima di congedarsi definitivamente ci raccomandò di sostare al suo Museo, sito a piè della collina su cui troneggiava l'abitazione, e che avrebbe avvertito perché ci aprissero nonostante il giorno festivo. Nel contempo ci mostrò dal di fuori alcune delle dépendances e, dopo aver aperto il portone, la semioscura officina dove nel 1962 operò la mia (oggi) Danzatrice (vedere nel blog il post del 31 ottobre 2016), alla quale dette un'impronta unica, ineffabile, quella che – come constatai a Lucca nella mostra di scultura dell'ottobre 1982 – fu ammirazione incondizionata di tutti gli illustri scultori che la videro e così dei critici d'arte che sono passati da casa Ragghianti. Ai piedi della collina era incuneato il moderno edificio piano terra nel quale un solerte custode ci fece entrare permettendoci poi di visitarlo in santa pace. Ci rimanemmo per oltre un'ora e, almeno per quel che mi riguarda visitai ogni angolo, ammirai ogni bacheca. Però alla fine ero sfinito, quasi confuso da una massa di capolavori e di opere comunque notevoli. Ho capito, poi, che la quasi solitudine, cioè il non essere distratto dall'umanità circostante m'aveva indotto una specie di sindrome, anche se – come mio padre – non amo indulgere agli psichismi. Di certo devo ammettere che il bilancio di quella “abbuffata” d'opere d'arte fu, e tutt'ora nell'analisi permane, negativo.
Per quanto ben allestito un percorso museografico non riesce a rendere completamente un'idea di sviluppo organico della personalità e dell'opera di un artista perché mancano le pause, i riferimenti culturali e tecnici che possono invece essere forniti da una monografia. Nel cenotaffio monotematico considerazioni e riconsiderazioni sono troppo incombenti, troppo immediate, spettacolari anche ma non critiche. Insomma l'idea di un contenitore di tutte le fattispecie, le sfumature, i ripensamenti, i mutamenti di un solo artefice risulta sostanzialmente indigeribile perché acritica. Sono un monumento di egocentrismo statico in cui è assente lo stimolo dialettico che consente distinzioni ed intuizioni.
Sarebbe stata soluzione migliore da parte di Manzù donare nuclei organici del proprio operare a varie sedi, le più prestigiose possibile (cosa che nel caso di un genio come lui non sarebbe certo stata di difficile realizzazione dovunque). In questo caso la lettura critica – in tutti i suoi aspetti – sarebbe possibile e comunque l'esperienza intellettuale del visitatore non si concluderebbe in disorientamento da un lato, dall'altro non risulterebbe un'esperienza di saturazione (fino alla monotonia che segue alle emozioni eccessive) come nel contenitore di Ardea.
Le considerazioni suddette a mio parere volgono per tutti gli artisti, da Burri a Città di Castello fino a Pio Fedi (che non ho capito se sloggiato o coabitante con una tipografia) nell'oltrarno fiorentino, solo per citare due espressività praticamente antitetiche. Probabilmente lo stesso vale per il Canova di Possagno (che purtroppo non ho visitato), giacché mio padre sembra più entusiasta delle vibrazioni “vitali” dei gessi, che della sistemazione museografica. Persino, anche se meno marcatamente, per il Morandi che vidi musealizzato all'ultimo piano del Palazzo Comunale di Bologna.
Alla fine della full immersion nell'opera di Manzù iniziammo il viaggio di ritorno verso Roma praticamente tacendo forse anche perché l'inizio del secondo pomeriggio estivo rendeva il paesaggio rurale e poi urbano strepitoso. Effetto colori e pomentino di Roma. Piero Pananti puntò per il centro dicendoci che si era ancora in tempo per fare una visita a Fazzini nel suo studio di via Margutta. Nel post del 15 agosto 2018 ho ricordato questo incontro nel quale il Maestro – secondo un rituale evidentemente collaudato – solo da un lato del grande tavolo che falegname disegnava o operava su piccole sculture ritocchi strumentali. Al contempo pontificava bonariamente con amici, famuli, i soliti faccendieri dell'arte (quel giorno anche Pananti e Righi), il solito giornalista Rai (sono ed erano così tanti – e poco affaccendati – a Roma che si incontravano dovunque) e visitatori occasionali come me schierati sugli altri tre lati del tavolone. Fu questa un'oretta piacevole il cui costrutto evidentemente tornava utile a Piero Pananti.
Non c'è dubbio che la differenza di personalità e di comportamento tra due artisti autentici come Giacomo Manzù e Pericle Fazzini è evidente, quasi stridente, epperò ancora una volta conferma che non c'è nessun rapporto tra il dono della creatività, la sua effettiva applicazione e il singolo essere umano. Uno può essere un genio ed essere un farabutto, eppure per altre componenti della sua personalità un individuo creativo; invece uno può essere angelico ma inespressivo come un ciottolo. Entrambi i suddetti scultori erano indubbiamente datati della capacità di esprimere manufatti d'arte, di grande arte; ognuno di loro era però radicalmente diverso: non c'era nessun nesso d'altra natura che potesse spiegarne l'unicità creativa.
Poi con il consueto macchinone status simbol, di cui soltanto e spesso cambiava il marchio, dell'amico gallerista (non ancora “astista”) partimmo diretti a Firenze lungo l'Autosole, sulla quale stava avvenendo l'ultimo tramonto, abbacinante.

F.R. (22,23 ottobre 2018)


Impronta della mano di Manzù e firma, 1962. - Manzù nello studio, 1981.


Nota al testo e alle illustrazioni – Questa è la terza occasione di attenzione su Giacomo Manzù e la sua opera nel nostro blog. I precedenti post sono stati: Ragghianti, Manzù e la Ballerina (Passo di Danza, 1961) del 31 ottobre 2016 e nella stessa data la traduzione, con illustrazioni diverse, in inglese: Ragghianti, Manzù and the Dancer (Dance Step, 1961); il 21 dicembre 2018 è stato postato L'Arte Moderna in Italia, 1915-1935 – 11. Quinto Martini, Manzù.
Le immagini che illustrano questo post sono prevalentemente tratte da due imponenti libri amorevolmente ideati e realizzati da Glauco Pellegrini. Si tratta di Manzù e la pace (Edizioni La Gradiva, Firenze 1976), con prefazione di Davide Lajolo e di Manzù un film (Editrice Gutemberg, Verona 1988) con prefazione del regista Carlo Lizzani e curatela di Arnaldo Bellini.

Questo secondo volume ci è particolarmente caro vuoi perché l'autore lo dedicò manoscritto alla famiglia che da poco aveva perso il proprio marito e padre, vuoi perché il volume nell'occhiello successivo al frontespizio è dedicato a stampa:  

Alla memoria e, insieme, alla
presenza di Carlo L. Ragghianti.
Alla sua lezione, al suo stile.


A Glauco Pellegrini (1919, Siena – 1991, Roma) ed a sua moglie e collaboratrice Vittoria Richter – divenuti amici personali negli anni Settanta dei coniugi Ragghianti – dedicheremo un apposito post per ricordare che lo scrittore e regista veneziano d'elezione nonché allievo di Francesco Pasinetti noto teorico del cinema ha tra l'altro realizzato molti documentari su artisti ed opere d'arte, tenendo conto della filmografia esemplare di Carlo L. Ragghianti, i critofilm.

Infine una parte delle illustrazione si riferisce alla scultura della Ballerina (Passo di Danza, 1961), sopra citata, mostrandola – oltre a già note immagini – nello stato precedente all'intervento correttivo che Giacomo Manzù effettuò dopo aver meditato sulle considerazioni dell'amico critico d'arte.
Passo di danza, 1957. - Passo di danza, 1956. - Manzù e un passo di danza.
Inge Manzù in posa per la scultura e Passo di danza, 1961, fotografato prima dell'intervento correttivo di Manzù.


Passo di danza di Ragghianti, 1961, dopo l'intervento correttivo di Manzù. 


La scultura del 1961 nello studio di C.L. Ragghianti.


Manzù con due bozzetti. - Testo di Mario de Micheli, 1971.

Manzù nello studio con gesso del 1976. - Testo di Carlo L. Ragghianti, 1956.


Guantanamera, 1970. - Ulisse e Penelope, inchiostro, 1976.
Manzù con Tebe seduta, 1986. - Manzù con la moglie Inge e i figli Giulia e Mileto, 1971.


Carlo L. Ragghianti nel suo studio illustra Passo di danza (Ballerina), 1961.


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