Il fatto di disprezzare e
detestare una persona, per quanto motivato sia, non deve – e non
dovrebbe – esimere dal riconoscerne pregi e talenti, là dove
sussistano. Di conseguenza la mia repulsione nei confonti di Ranuccio
Bianchi Bandinelli (varie volte espressa anche in questo blog) non mi
dispensa dal riconoscere il suo indubbio e importante, per certi
versi determinante apporto nella definizione metodologica di cosa
rappresenti l'archeologia nell'ambito di una ricerca storia moderna,
consapevole da un lato delle interrelazioni tra ambiti differenti e
dall'altro di come essa sia distinta ma congiunta con la storia
dell'arte. Non è quindi un caso che Carlo L. Ragghianti accettasse la
con-redazione della rivista "Critica d'Arte" di R.B.B. come
copertura "indispensabile", voluta da Federico Gentile
(Editore e direttore per gli aspetti legali), sul piano
dell'ortodossia politica (fascista).
La collaborazione tra
Ragghianti venticinquenne disoccupato perché senza tessera fascista
e Bandinelli trentacinquenne professore universitario, latifondista
(si veda la casa dove abitava), fascista (accompagnerà in divisa
Hitler nelle visite ai musei romani!), la collaborazione – dicevo –
fu tutt'altro che distesa, amichevole, anche se non si avverte
palesemente nella lettura della rivista. Non era possibile che un giovane dinamico, consapevole della propria levatura di studioso e di
innovatore metodologico come C.L.R accettasse le continue, insistenti
querule lamentele, ipocritamente ricattatorie del satollo gerarca
accademico, incurante – forse irridente – delle enormi difficoltà
in cui si dibatteva il giovane lucchese.
A proposito delle
querimonie del R.B.B. esistono ancora – e sono inedite del tutto –
un gruppo di lettere da lui inviate a C.L.R., alle quali praticamente
mio padre non rispondeva quasi mai. Esse sono, tra l'altro di una
pedanteria e sordità umane deprimenti. Non le ho ancora consegnate
all'Archivio di Lucca perché temo la solita longa manus
mistificatrice espressione o complice delle bande settarie degli
adepti ancora viventi (cui invio cordiali accidenti) e dei loro
beneficiati tuttora settari. Temo anche astuti resoconti che
coll'apparenza di esporre fatti secondo R. trovano il modo di
denigrare, beh diciamo, inficiare la sua ricerca (vedasi – ad es. -
un articolo su Mondrian di qualche anno fa). Per concludere questa
parentesi devo dire che non ho ancora deciso se distruggere questa
corrispondenza unilaterale (sì, proprio!) o come vincolarne la
salvaguardia affinché non soddisfi pettegolezzi e distorsioni. Sì enormi, lo ribadisco perché l'ho saputo
non solo da mio padre – per altro en passant,
ma soprattutto dal mio mancato maestro Delio Cantimori, col quale
ebbi un brevissimo discepolato prima della sua morte sciagurata ed
improvvisa. Era notorio che il "Micio" Cantimori nella
tarda mattina tendesse a rilassarsi, a divagare "slacciando"
la corazza difensiva della propria riservata timidezza. Accadde, dopo
un seminario assurdo, surreale, concepito ad evidentiam per
scoraggiare i discenti (Ci faceva leggere il Manifesto di Karl Marx
in tedesco, incurante del fatto che nessuno di noi sapesse quella
lingua. Io, poi, allora "per principio" – e glielo dissi:
sorrise e continuò – mi rifiutavo di praticare la lingua nella
quale si era espresso il Nazismo). Mentre seduti a tavolino bevevamo
aperitivi al Bar d'angolo tra Piazza S. Marco e Via Cavour, Cantimori
rievocò gli anni romani e mi raccontò di mio padre e di come egli
si ingegnasse per trovare scuse per non offendere l'orgoglio di Carlo
invitandolo a mangiare a sue spese, raccontò di come Gino Parenti
gli confidasse che R. non poteva reggere a lungo bevendo solo acqua
per scongiurare i morsi della fame...Rievocò anche il Maestro
qualche aneddoto divertente come quello (noto, credo) in cui lui e
C.L.R. ascoltarono a casa sua una consultazione psicoanalistica del
coinquilino Servadio attraverso una porta e un'eco inedebita, ma
soprattutto delle tese vicende redazionali della "Critica
d'Arte", per le quali R. appariva scostante e inaffidabile ( non
si recava a Firenze dall'editore per banali beghe editoriali: certo
che no; con che soldi?), che qualche volta ritardava la consegna di
un testo per chiudere il numero della rivista (certo, ma il perché
stava nel fatto che R. doveva completare la stestura di una tesi a
pagamento – ne ricordo una sulle patate! - procurate dal solerte
faccendiere ed amico Gino Parenti garante del reciproco anonimato tra
"negro" e abbiente candidato dottore). Beh, il vecchio mite
Cantimori a un certo punto si commosse talmente da dover andare il
bagno con urgenza per celare la propria commozione. Io, francamente
imbarazzato, ero furioso: avrei peso a cintolate quel ..., cicerone
di Hitler, gerarca accademico, riciclato da comunista (!), Direttore
Generale della Pubblica Istruzione/Belle Arti nel 1945, barone di
Togliatti Palmiro, sedicente "pentito" borghese.
Come dicevo all'inizio,
il R.B.B. qualche dote l'aveva e, così come per tanti "conoscenti"
o "collaboratori" di R., lo ricordo con la riproposta di questo suo scritto pubblicato ne "La Critica d'Arte" (a.I, f.V,
giu. 1936, pp. 259,260).
F.R.
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