Da “SeleArte”, n.12
(mag.-giu. 1956) riproponiamo questo scritto, un po' divertente,
molto amaro nella sostanza, il cui titolo originale sembrerebbe,
stando almeno ai dizionari ed a Internet, un neologismo di Carlo L.
Ragghianti. Cioè una parola nuova derivata, per analogia con
“rabdomante” a significare un indovino con la bacchetta, uno che
pretende di scoprire l'arte con mezzi divinatori. Concettualmente,
comunque parole in libertà.
Già Parole in libertà
è stato il titolo che lo storico dell'arte diede – in occasione
della pubblicazione su “Critica d'Arte”, se non sbaglio – ad
una lunga lettera metodologica indirizzata a Bruno Zevi nel 1950. In
seguito questo documento fu ripubblicato nella seconda edizione de
L'arte e la critica, Vallecchi, 1980 alle pp.111-116, con il
titolo Confusiologia dell'arte. Parole in libertà.
Perché questo vetusto
recupero da “SeleArte”? Perché – e non solo nella critica d'arte, specialmente contemporanea –
troppo spesso
gli scritti di analisi ancor oggidì abbondano di incomprensibili
“voli pindarici”, di banalità rese astruse, nonché di oscurità
concettuali non di rado artatamente gabellate per riflessioni
originali. Sarebbe bene che lettori e recensori invece di subire
questi “ermetismi” incomprensibili li denunciassero per quel che
sono: disprezzo della cultura delle singole persone, truffa
supponente e di conseguenza danno reale perché si configurano come
“circonvenzione”, aggravata perché commessa a danno di chi
esercita il diritto a farsi o a migliorare la propria cultura in
un'aspettativa di corretta informazione. In particolare non si
comprende perché editori e direttori (quando non siano mandanti di
fumisteria mistificatoria) non sanzionano quei loro collaboratori che
così si esprimono, se non altro lo dovrebbero fare in sede civili
per risarcimento di danno d'immagine.
F.R.
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