Nel 1968 io
ero un uomo quasi maturo, comunque responsabile, lavoratore “della
mente” e cosciente dei miei diritti (molti dei quali allora
– come oggi – disattesi dalla Repubblica) e dei miei doveri
(molti dei quali allora come adesso disattesi dai concittadini), nel
'68 aspettavo ragionevolmente il 1969.
Carlo L.
Ragghianti nel 1968 era suo malgrado un Cincinnato tradito negli
ideali, era l'uomo che di lì a poco (1978) avrebbe scritto
Traversata di un trentennio. Testimonianza di un innocente;
continuava ad essere un intellettuale engagé,
un esempio di vita pratica e di studioso integerrimo: manifestava
sobriamente la “costruzione morale di sé”, quella di sempre,
quella iniziata consapevolmente durante le infinite notturne
conversazioni di lui adolescente con Eugenio Montale, cioè quel fil
rouge di sempre, impostosi con
consapevolezza fin dalla prima giovinezza.
Per
questa sua peculiare coerenza (parola che non significa non
cambiare opinione – motivatamente – ma essere conformi ai propri
principi ideali) già in questo sciagurato anno
1968 fu coinvolto come vittima designata, come ostacolo vistoso e
testimone imbarazzante delle ambizioni smodate, dei risentimenti
ingiustificati, dei tradimenti più o meno smaccati, dei masochismi
compiaciuti, alle rivendicazioni oggettivamente assurde, ecc.
ecc.
Il
'68 fu propedeutico a quella che forse è stata la
più colossale orgia trasformistica, col tradimento sostanziale delle
radici (fragili), della democrazia di Montesquieu, dell'Inghilterra,
delle Rivoluzioni Americana e Francese. Contribuì, quell'anno
orribilis
ad consolidamento – per fortuna provvisorio – del totalitarismo
sovietico e del caudatario Maoismo; favorì la diffusione delle
perversioni intellettuali dei Marcuse, delle psicologie e psichiatrie
assolutorie, consentendo l'accettazione sociale dell'irresponsabilità
personale e del relativismo becero e cinico.
Il
'68 fu compiaciuta regressione culturale, equiparò l'illecito al
lecito, promosse la volgarità contro l'educazione, per non dire di
quei comportamenti che venivano definiti “signorilità” e che
nulla avevano ed hanno a spartire con il predominio di classe sugli
altri esseri umani. L'aggressività fece aggio sulla mitezza; il
sesso fu svilito a consumo confuso, banalizzato nell'immediatezza, ne
fu offesa la reciprocità consapevole e doverosa.
Il
'68 fu determinante per la distruzione di tanti valori,
in particolar modo di tutto ciò che riguarda l'onestà
individuale e collettiva, spalancando il baratro dell'attuale
“cleptocrazia” (governo dei ladri), diffusa su scala planetaria
senza validi contrappesi.
Il
'68 non fu una rivoluzione, fu R I V O L T A N T E.
L'intemerata che ho fin qui scritto rappresenta ciò che penso da cinquant'anni
ed è il risultato di lunghi meditati rammarichi e
risentimenti. Non mi importa se adatta o meno, non lo è per
introdurre l'argomento. Adatta mi pare, invece, questa breve nota che
pubblico in esergo al post, cioè un testo di R. che, in luogo di
altre sue ponderate e motivate analisi sull'argomento, risulta la
pacata (forse un tantino ironica) considerazione dettata proprio per
non dare troppa importanza alle negatività, tuttora permanenti degli
indotti effetti neo-fascisti del 1968.
Il
'68, per concludere, è sostanzialmente il volano, la base di
partenza di quel tragitto economico che dai benemeriti Keynes, F.D.
Roosevelt e Lord Beveridge accantonati dalla “scuola” di Chicago
si attua pienamente oggi nell'incredibile mostruosità
per cui la ricchezza di poche decine di privilegiati equivale a
quella di oltre 3 miliardi e mezzo di esseri umani.
Trovo
quindi che C.L.R. provi soprattutto compassione per il fenomeno '68 e
gli innumerevoli soddisfatti individui che ne cercarono e
ottennero – troppo spesso! – i deleteri
ingiusti vantaggi. In queste parole credo si possa intravedere la
statura morale di Ragghianti, la freddezza dello storico, la
tristezza del filosofo.
F.R.[10
gennaio 2018]
P.S.
- Dopo la certa virulenza che a rilettura ho
riscontrato nella precedente invettiva circa la rievocazione del
cinquantenario del “1968”, avevo deciso di sospenderne la
pubblicazione per una pausa di riflessione circa l'opportunita' di
rendere noto questo testo, scritto il giorno del mio 78°
compleanno, soprattutto in considerazione dell'agitato e isterico
periodo elettorale in corso.
Però
oggi 26 gennaio vedo nel blog che “Il fatto quotidiano” (l'unico
giornale che, sia pur non tutti i giorni, leggo) un post del giovane
filosofo Diego Fusaro dal titolo: “Il Sessantotto, l'anno più
sciagurato della storia recente”. Colpito dal termine SCIAGURATO
anche per me connotante quell'anno, e dopo la lettura dell'agguerrito
e pungente scritto di cui condivido molte considerazioni e apprezzo
argomenti e osservazioni, mi trovo a voler sottoscriverne interamente
una frase: “Il Sessantotto fu una sciagura di cui ancora
oggi paghiamo le conseguenze. In termini marxiani fu insieme una
tragedia e una farsa”. Di conseguenza dopo la lettura di questo
blog mi permetto di raccomandarlo alla considerazione degli
“smemorati” già marxisti o comunque comunisteggianti. Trovo,
infine, che anche la mia rampogna possa e debba essere sdoganata, se
non altro come testimonianza di una “vittima”.
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