Carlo e Licia

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giovedì 1 febbraio 2018

[glossario] 1968, 1



Nel 1968 io ero un uomo quasi maturo, comunque responsabile, lavoratore “della mente” e cosciente dei miei diritti (molti dei quali allora – come oggi – disattesi dalla Repubblica) e dei miei doveri (molti dei quali allora come adesso disattesi dai concittadini), nel '68 aspettavo ragionevolmente il 1969.
Carlo L. Ragghianti nel 1968 era suo malgrado un Cincinnato tradito negli ideali, era l'uomo che di lì a poco (1978) avrebbe scritto Traversata di un trentennio. Testimonianza di un innocente; continuava ad essere un intellettuale engagé, un esempio di vita pratica e di studioso integerrimo: manifestava sobriamente la “costruzione morale di sé”, quella di sempre, quella iniziata consapevolmente durante le infinite notturne conversazioni di lui adolescente con Eugenio Montale, cioè quel fil rouge di sempre, impostosi con consapevolezza fin dalla prima giovinezza.
Per questa sua peculiare coerenza (parola che non significa non cambiare opinione – motivatamente – ma essere conformi ai propri principi ideali) già in questo sciagurato anno 1968 fu coinvolto come vittima designata, come ostacolo vistoso e testimone imbarazzante delle ambizioni smodate, dei risentimenti ingiustificati, dei tradimenti più o meno smaccati, dei masochismi compiaciuti, alle rivendicazioni oggettivamente assurde, ecc. ecc.
Il '68 fu propedeutico a quella che forse è stata la più colossale orgia trasformistica, col tradimento sostanziale delle radici (fragili), della democrazia di Montesquieu, dell'Inghilterra, delle Rivoluzioni Americana e Francese. Contribuì, quell'anno orribilis ad consolidamento – per fortuna provvisorio – del totalitarismo sovietico e del caudatario Maoismo; favorì la diffusione delle perversioni intellettuali dei Marcuse, delle psicologie e psichiatrie assolutorie, consentendo l'accettazione sociale dell'irresponsabilità personale e del relativismo becero e cinico.
Il '68 fu compiaciuta regressione culturale, equiparò l'illecito al lecito, promosse la volgarità contro l'educazione, per non dire di quei comportamenti che venivano definiti “signorilità” e che nulla avevano ed hanno a spartire con il predominio di classe sugli altri esseri umani. L'aggressività fece aggio sulla mitezza; il sesso fu svilito a consumo confuso, banalizzato nell'immediatezza, ne fu offesa la reciprocità consapevole e doverosa.
Il '68 fu determinante per la distruzione di tanti valori, in particolar modo di tutto ciò che riguarda l'onestà individuale e collettiva, spalancando il baratro dell'attuale “cleptocrazia” (governo dei ladri), diffusa su scala planetaria senza validi contrappesi.
Il '68 non fu una rivoluzione, fu R I V O L T A N T E. 
L'intemerata che ho fin qui scritto rappresenta ciò che penso da cinquant'anni
ed è il risultato di lunghi meditati rammarichi e risentimenti. Non mi importa se adatta o meno, non lo è per introdurre l'argomento. Adatta mi pare, invece, questa breve nota che pubblico in esergo al post, cioè un testo di R. che, in luogo di altre sue ponderate e motivate analisi sull'argomento, risulta la pacata (forse un tantino ironica) considerazione dettata proprio per non dare troppa importanza alle negatività, tuttora permanenti degli indotti effetti neo-fascisti del 1968.
Il '68, per concludere, è sostanzialmente il volano, la base di partenza di quel tragitto economico che dai benemeriti Keynes, F.D. Roosevelt e Lord Beveridge accantonati dalla “scuola” di Chicago si attua pienamente oggi nell'incredibile mostruosità per cui la ricchezza di poche decine di privilegiati equivale a quella di oltre 3 miliardi e mezzo di esseri umani.
Trovo quindi che C.L.R. provi soprattutto compassione per il fenomeno '68 e gli innumerevoli soddisfatti individui che ne cercarono e ottennero – troppo spesso! – i deleteri ingiusti vantaggi. In queste parole credo si possa intravedere la statura morale di Ragghianti, la freddezza dello storico, la tristezza del filosofo.

F.R.[10 gennaio 2018]


P.S. - Dopo la certa virulenza che a rilettura ho riscontrato nella precedente invettiva circa la rievocazione del cinquantenario del “1968”, avevo deciso di sospenderne la pubblicazione per una pausa di riflessione circa l'opportunita' di rendere noto questo testo, scritto il giorno del mio 78° compleanno, soprattutto in considerazione dell'agitato e isterico periodo elettorale in corso.
Però oggi 26 gennaio vedo nel blog che “Il fatto quotidiano” (l'unico giornale che, sia pur non tutti i giorni, leggo) un post del giovane filosofo Diego Fusaro dal titolo: “Il Sessantotto, l'anno più sciagurato della storia recente”. Colpito dal termine SCIAGURATO anche per me connotante quell'anno, e dopo la lettura dell'agguerrito e pungente scritto di cui condivido molte considerazioni e apprezzo argomenti e osservazioni, mi trovo a voler sottoscriverne interamente una frase: “Il Sessantotto fu una sciagura di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. In termini marxiani fu insieme una tragedia e una farsa”. Di conseguenza dopo la lettura di questo blog mi permetto di raccomandarlo alla considerazione degli “smemorati” già marxisti o comunque comunisteggianti. Trovo, infine, che anche la mia rampogna possa e debba essere sdoganata, se non altro come testimonianza di una “vittima”.

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