Carlo e Licia

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mercoledì 14 febbraio 2018

Europa 1957-2018




Europa 2018: Permane confusione, impotenza, incapacità o peggio, quel che funziona lo fa per automatismo. Purtroppo con profondo rammarico e tristezza per un europeista da sempre qual sono la situazione della Grande Patria è drammatica e sembra destinata a deteriorarsi ulteriormente. Ciò si verifica agevolmente anche constatando il livello culturale ed etico di chi è delegato a gestirne le sorti: a Bruxelles come a Strasburgo, a Francoforte come nei singoli staterelli se dicenti sovrani. Dopo sessantuno anni dai Trattati di Roma del 25 marzo 1957 sgomenta, al di là delle preoccupazioni e dei dati e fatti concreti, la stagnazione civile e morale per ogni dove capillarmente diffusa.
Nei confronti dell'Europa postbellica in doloroso declino è perciò opportuno ricordare le precedenti pagine pubblicate da Carlo L. Ragghianti. Egli esprime, infatti, le perplessità e le preoccupazioni evidenti in questi primi due editoriali di “Criterio”, la rivista fondata e diretta da lui con l'intento di dare una voce efficace anche alla cultura laica, democratica e radicale (prima di Pannella), cioè un organo non marxisteggiante o fiancheggiatore di PCI-PSI, ancora legati dallo sciagurato patto sconfitto nel 1948. Questo allarme è giustificato dargli argomenti presentati nella parte destruens del testo, mentre in quella costruens è evidente il rammarico verso le nazioni europee, al momento incapaci di partorire qualcosa di più concreto di due “Comunità” approssimativamente unitarie, per di più circoscritte ad un nucleo di sei Paesi definito “Piccola Europa”. L'amarezza e lo sconforto tra i Federalisti e gli altri europeisti convinti della indispensabile necessità di una Patria sovranazionale erano stati di recente alimentati dal disastroso naufragio del progetto della C.E.D., un'unica difesa armata europea (che costò al grande Pierre Mendes-France la leadership del progressismo radicale francese – ed europeo – ), mentre in precedenza gli europeisti si erano confrontati per gli accordi comunitari sul carbone e sull'acciaio.
A questo proposito ricordo un buio pomeriggio, se autunnale o primaverile non saprei precisare, del 1951 o 1952 – abitavamo ancora in Viale Lavagnini –, trascorso a Bologna riuniti nella piazza del Comune in attesa dell'arrivo (da Strasburgo o Bruxelles) di Ferruccio Parri reduce da una conferenza internazionale sul Carbone e sull'Acciaio e poi impegnato in non so quale convegno o congresso nei locali di Palazzo d'Accursio. A bubbolare nell'attesa c'erano tanti compagni della cospirazione antifascista e della Resistenza e, tra essi, ricordo zio Cesare Gnudi, il sempre eccitato Nino Rinaldi, Sergio Telmon sempre compassato, Leonida Patrignani – comandante partigiano azionista, indomito combattente – dal “fiero aspetto” vivente monumento alla retorica del “temerario”; c'era anche, e quasi mi sentii male per l'emozione quandi gli fui presentato, un elegante e mite signore e medico (di cui – accidenti alla vecchiaia! – mi sfugge il nome) il quale, detenuto dai nazifascisti, in cella si 
tagliò con un frammento di vetro le corde vocali per non parlare sotto tortura. Tutti costoro, noi e gli altri compagni eravamo trepidanti per le notizie (buone, una volta tanto) che Parri una volta arrivato finalmente comunicò al gruppo di 30/40 persone assiepate intorno a lui. Sembravamo un gruppo di disperati cospiratori risorgimentali in mezzo a quella enorme, buia piazza con pochi fiochi lampioni, percorsa da pochi frettolosi passanti. (Peccato che non ci fosse Stendhal).
Già che divago voglio ricordare il ritorno a Firenze ospitati (per risparmiare sul treno, presumo, anzi ne sono certo perché allora eravamo in autentiche ristrettezze economiche) su una Jeep – autentico residuato bellico – di un paio di medici già partigiani G.L. E presenti al briefing di “Maurizio” Parri. Erano due simpatici giovanotti che avevano colto l'occasione per rifornire il proprio ospedale con diverse taniche di etere, scarseggiante a Careggi (uno di loro, son quasi sicuro era il fratello di Don Lorenzo Milani). Partimmo verso le 20 (e di questo, invece, sono sicuro perché avevo da pochi giorni il mio primo orologio), poi un panino in un paese deserto con un bettola deserta e lampadine da 20 candele, credo si trattasse di Monghidoro. Per gli scossoni derivanti dalla sconnessa strada verso la Futa, nel buio pesto appena violato dagli scarsi fari militari, si verificò una perdita di etere, ragion per cui il babbo – allergico a quel “farmaco” come a stento riuscì a dire – improvvisamente si sentì male e svenne. Per fortuna essendo dottori riuscirono, anche con qualche sganassone, a rianimare il babbo. Quindi ripartimmo, però con la capote abbassata e un ventoso freddo da sincope. Giunti alla fine di Via Trieste i medici ci lasciarono per proseguire verso Careggi lungo Via Vittorio Emanuele. Quella volta non so per quale miracolo non ci ammalammo per il freddo intenso e prolungato patito. Praticamente, chi mi conosce può cominciare a capire da questo episodio perché non amo gli spostamenti e detesto i viaggi, che evito di fare a meno che non siano per motivi irrinunciabili o riguardanti la salute.
Tornando a “bomba”, come si diceva da bambini giocando a nascondino, i due scritti di Carlo L. Ragghianti dimostrano la partecipazione e il consenso (con riserva) per le trattative in corso tra le Cancellerie europee, le quali sfociarono il 25 marzo 1957 nei Trattati di Roma (in vigore dal 1° gennaio 1958) sulla C.E.E. (Comunità Economica Europea) e sulla C.E.E.A. o Euraton (Comunità Economica Europea dell'energia Atomica). Questi editoriali furono rispettivamente pubblicati nel fascicolo 1 (gennaio) e in quello successivo (2, febbraio) di “Criterio”, rivista sulla quale torneremo ad occuparci in un prossimo futuro, perché fu un organo significativo ed importante come dimostra nella 4° di copertina il “parterre” di illustri collaboratori e sostenitori che all'epoca fece esclamare al giovanissimo intellettuale e archeologo (e poi mio amico) Pamir (Paolo Emilio) Pecorella: “Ma ci sono proprio tutti!”.

F.R.

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