Europa 2018:
Permane confusione, impotenza, incapacità o peggio, quel che
funziona lo fa per automatismo. Purtroppo con profondo rammarico e
tristezza per un europeista da sempre qual sono la situazione della
Grande Patria è drammatica e sembra destinata a deteriorarsi
ulteriormente. Ciò si verifica agevolmente anche constatando il
livello culturale ed etico di chi è delegato a gestirne le sorti: a
Bruxelles come a Strasburgo, a Francoforte come nei singoli
staterelli se dicenti sovrani. Dopo sessantuno anni dai Trattati di
Roma del 25 marzo 1957 sgomenta, al di là delle preoccupazioni e dei
dati e fatti concreti, la stagnazione civile e morale per ogni dove
capillarmente diffusa.
Nei
confronti dell'Europa postbellica in doloroso declino è perciò
opportuno ricordare le precedenti pagine pubblicate da Carlo L.
Ragghianti. Egli esprime, infatti, le perplessità e le
preoccupazioni evidenti in questi primi due editoriali di “Criterio”,
la rivista fondata e diretta da lui con l'intento di dare una voce
efficace anche alla cultura laica, democratica e radicale (prima di
Pannella), cioè un organo non marxisteggiante o fiancheggiatore di
PCI-PSI, ancora legati dallo sciagurato patto sconfitto nel 1948.
Questo allarme è giustificato dargli argomenti presentati nella
parte destruens del testo, mentre in quella costruens è
evidente il rammarico verso le nazioni europee, al momento incapaci
di partorire qualcosa di più concreto di due “Comunità”
approssimativamente unitarie, per di più circoscritte ad un nucleo
di sei Paesi definito “Piccola Europa”. L'amarezza e lo sconforto
tra i Federalisti e gli altri europeisti convinti della
indispensabile necessità di una Patria sovranazionale erano stati di
recente alimentati dal disastroso naufragio del progetto della
C.E.D., un'unica difesa armata europea (che costò al grande Pierre
Mendes-France la leadership del progressismo radicale francese – ed
europeo – ), mentre in precedenza gli europeisti si erano
confrontati per gli accordi comunitari sul carbone e sull'acciaio.
A questo
proposito ricordo un buio pomeriggio, se autunnale o primaverile non
saprei precisare, del 1951 o 1952 – abitavamo ancora in Viale
Lavagnini –, trascorso a Bologna riuniti nella piazza del Comune in
attesa dell'arrivo (da Strasburgo o Bruxelles) di Ferruccio Parri
reduce da una conferenza internazionale sul Carbone e sull'Acciaio e
poi impegnato in non so quale convegno o congresso nei locali di
Palazzo d'Accursio. A bubbolare nell'attesa c'erano tanti compagni
della cospirazione antifascista e della Resistenza e, tra essi,
ricordo zio Cesare Gnudi, il sempre eccitato Nino Rinaldi, Sergio
Telmon sempre compassato, Leonida Patrignani – comandante
partigiano azionista, indomito combattente – dal “fiero aspetto”
vivente monumento alla retorica del “temerario”; c'era anche, e
quasi mi sentii male per l'emozione quandi gli fui presentato, un
elegante e mite signore e medico (di cui – accidenti alla
vecchiaia! – mi sfugge il nome) il quale, detenuto dai
nazifascisti, in cella si
tagliò con un frammento di vetro le corde vocali per non parlare sotto tortura. Tutti
costoro, noi e gli altri compagni eravamo trepidanti per le notizie
(buone, una volta tanto) che Parri una volta arrivato finalmente
comunicò al gruppo di 30/40 persone assiepate intorno a lui.
Sembravamo un gruppo di disperati cospiratori risorgimentali in mezzo
a quella enorme, buia piazza con pochi fiochi lampioni, percorsa da
pochi frettolosi passanti. (Peccato che non ci fosse Stendhal).
Già che
divago voglio ricordare il ritorno a Firenze ospitati (per
risparmiare sul treno, presumo, anzi ne sono certo perché allora
eravamo in autentiche ristrettezze economiche) su una Jeep –
autentico residuato bellico – di un paio di medici già partigiani
G.L. E presenti al briefing di “Maurizio” Parri. Erano due
simpatici giovanotti che avevano colto l'occasione per rifornire il
proprio ospedale con diverse taniche di etere, scarseggiante a
Careggi (uno di loro, son quasi sicuro era il fratello di Don Lorenzo
Milani). Partimmo verso le 20 (e di questo, invece, sono sicuro
perché avevo da pochi giorni il mio primo orologio), poi un panino
in un paese deserto con un bettola deserta e lampadine da 20 candele,
credo si trattasse di Monghidoro. Per gli scossoni derivanti dalla
sconnessa strada verso la Futa, nel buio pesto appena violato dagli
scarsi fari militari, si verificò una perdita di etere, ragion per
cui il babbo – allergico a quel “farmaco” come a stento riuscì
a dire – improvvisamente si sentì male e svenne. Per fortuna
essendo dottori riuscirono, anche con qualche sganassone, a rianimare
il babbo. Quindi ripartimmo, però con la capote abbassata e un
ventoso freddo da sincope. Giunti alla fine di Via Trieste i medici
ci lasciarono per proseguire verso Careggi lungo Via Vittorio
Emanuele. Quella volta non so per quale miracolo non ci ammalammo per
il freddo intenso e prolungato patito. Praticamente, chi mi conosce
può cominciare a capire da questo episodio perché non amo gli
spostamenti e detesto i viaggi, che evito di fare a meno che non
siano per motivi irrinunciabili o riguardanti la salute.
Tornando a
“bomba”, come si diceva da bambini giocando a nascondino, i due
scritti di Carlo L. Ragghianti dimostrano la partecipazione e il
consenso (con riserva) per le trattative in corso tra le Cancellerie
europee, le quali sfociarono il 25 marzo 1957 nei Trattati di Roma
(in vigore dal 1° gennaio 1958) sulla C.E.E. (Comunità Economica
Europea) e sulla C.E.E.A. o Euraton (Comunità Economica Europea
dell'energia Atomica). Questi editoriali furono rispettivamente
pubblicati nel fascicolo 1 (gennaio) e in quello successivo (2,
febbraio) di “Criterio”, rivista sulla quale torneremo ad
occuparci in un prossimo futuro, perché fu un organo significativo
ed importante come dimostra nella 4° di copertina il “parterre”
di illustri collaboratori e sostenitori che all'epoca fece esclamare
al giovanissimo intellettuale e archeologo (e poi mio amico) Pamir
(Paolo Emilio) Pecorella: “Ma ci sono proprio tutti!”.
F.R.
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