Battagliero, generoso, eroico esponente di spicco della Resistenza romana al nazifascismo, però personaggio pieno di contraddizioni, di ambivalenze, con l'ago della bussola ondeggiante. E' stato ateo religioso, discontinuo nelle amicizie al di fuori del P.C.I. (e forse anche dentro), critico e storico dell'arte al di sotto delle proprie doti per via di incoerenze tra fede politica e critica.
Carlo L. Ragghianti, intransigente soltanto nelle questioni morali e di principio, subì con certa delusa amarezza quanto lungo rapporto cinquantennale. La corrispondenza è piuttosto ampia, con prevalenza di dialogo tra sordi. Ci sono aspetti toccanti da parte di Antonello T., come l'incoerente e sofferto telegramma per la morte di C.L.R., o sei anni prima (1981) il dedicargli il commosso sonetto che descrive la visita all'ospedale militare del Celio a Ferruccio Parri, ivi lungo degente, incosciente. Nella lettera del 22 febbraio 1982, tra l'altro, C.L.R. – ricevuta la pubblicazione con i sonetti – li commenta scrivendo: "i sonetti marciano con un passo autonomo e fresco, parla il Trombadori come un frate Elia del comunismo, con un'ironia appassionata che sottende la fede". In A.T. ci sono aspetti confinanti con l'ipocrisia, la "doppia morale" come la dedica a C.L.R. dell'estratto Antonello Trombadori dai Littoriali dell'antifascismo (già pubblicato in "SeleArte", IV s., n.18, p.26).
In definitiva, quindi, mi limiterò ad illustrare soprattutto il critico d'arte, con alcuni ritratti e fotografie, col riportare l'intervento Commemorazione di C.L.R., tenutasi a Roma il 27 gennaio 1988 nell'aula dei Gruppi parlamentari a Montecitorio, indetta e organizzata da Bruno Zevi, all'epoca deputato radicale. Riproduco anche il Preliminare e il Poscritto che Marco Scotini, il quale curò anche la trascrizione della registrazione dell'intervento (vedasi "SeleArte", n.18, nov. 1993, pp. 13-25 e da Omaggio a Ragghianti - Critica d'Arte in atto, U.I.A., Firenze 1997, pp.31-34). L'intervento di Trombadori è particolarmente calzante perché, dopo una pagina di ricordi con C.L.R., verte su questa storica mostra Arte Moderna in Italia 1915-1935 tenutasi nel 1967 a Firenze. In due pagine restanti, A.T. espone l'originalità del progetto di Ragghianti. La conclusione commossa è triste: se ci fu in R. sconfitta, essa fu quella "di chi vittorioso intravede altri traguardi della libertà e della civiltà e deve amaramente constatare, guardandosi attorno, che gli sono rimasti troppo pochi
compagni per andare avanti e per fargli ala verso il folle volo".
Dalla corrispondenza riporto soltanto alcune lettere. La prima di A.T. (23 luglio 1966) riguarda la Mostra Arte Moderna in Italia 1915-1935 e gli artisti affidatigli per scriverne le schede per il Catalogo. Segue, sempre di A.T., quella che probabilmente costituisce il primo rapporto epistolare con C.L.R. (8 dicembre 1938); cui segue (22 aprile 1949) una manoscritta di carattere "sentimentale". Nel 1962 uno scambio a proposito del libro di C.L.R. su Mondrian, con importanti considerazioni su Marx e personali di Antonello (25 agosto) e di C.L.R. (27 agosto). Altri documenti epistolari intendo riprodurli in occasione della circostanza o dell'evento cui si riferiscono, come è già avvenuto nel post del 19 maggio 2022 (Documenti, 2 – Monumenti) in relazione al pensiero di C.L.R. su i Monumenti celebrativi.
Certamente una personalità complessa con una vita intensa, piena di eventi e di responsabilità politiche, non può essere descritta in maniera equilibrata da pochi documenti, anche se interessanti.
In occasione della sua morte nel gennaio 1993, "La Stampa" di Torino pubblicò una pagina di notizie e di commenti tutto sommato equilibrati. Curiosa la tendenza degli ex P.C.I. a sottolinearne l'indipendenza (cioè la non acquiescenza a tutte le direttive del partito) dello studioso sacrificato alla politica. Quanto alla affermazione di mons. Angelini circa la sua fede cattolica (conversione più o meno ufficializzata) posso testimoniare di aver visto – dopo una visita dei Commissari per la Mostra/Catalogo Arte in Italia 1915-1935 ai restauri della Cappella Brancacci di Masaccio – Antonello Trombadori, assentantosi dal gruppo di colleghi, pregare solo con fervore inginocchiato nella Cappella di fronte (1989).
Quale esempio della popolarità mediatica di A.T. personaggio pubblico, riporto l'intervista, un po' paradossale, pubblicata su "Panorama" (8 aprile 1990). "Il Giornale dell'Arte", spesso prodigo di spazi per i defunti, dedicò ad A.T. un breve ricordo (probabilmente ridotto redazionalmente) affidato alla pena di Valerio Rivosecchi, collaboratore e firma congiunta degli ultimi anni di attività critica dello scrittore e critico romano.
F.R.
Non so come fosse in realtà, ma l'impressione di Donghi uomo – dopo aver ammirato le sue pitture – non può che essere empatica. La sua bonomia e il raffinato umorismo sono stati documentati anche in diversi aneddoti. A Carlo L. Ragghianti era piaciuto molto quello in cui il pittore per una Natura morta chiedeva all'acquirente, anziché una cifra tonda (diversa per il firmato e l'impegno) una cifra con gli “spiccioli”, cioè ad esempio 523 lire. Richiesto del perché delle ultime due cifre e di arrotondare a 500, Donghi non accettava, anzi si impuntava, spiegando sostenuto che per eseguire il dipinto gli ortaggi e la frutta erano costati tot lire, tot altre il pesce (che aveva dovuto cambiare 2 volte perché puzzava). Quindi queste spese andavano sommate a quella per colori, tele e cornice (se comprese), alle ore di lavoro e alla creatività.
D'altro canto l'apprezzamento del mite Donghi è stato praticamente unanime – anche se con elargizioni un po' sussiegose – da Roberto Longhi 1929 se sembra robotizzarlo, a Renato Barilli 1985 che lo conserva sotto una campana di vetro: “Lui sta fermo, la storia si muove, finché con uno dei suoi non infrequenti meandri lo raggiunge di nuovo e lo rimette in circolo”. Per Alfredo Mezio 1963, colonna de “Il Mondo” di Pannunzio: “E' bastato rivedere i suoi quadretti, qualche mese dopo la morte dell'artista, … perché molti si accorgessero che questo pittore periferico è uno dei piccoli maestri del Novecento”.
Acutamente Fortunato Bellonzi inizia il saggio importante e documentato (Antonio Donghi e il “richiamo all'ordine” degli anni Venti, 1963) sul pittore con una citazione di Félix Vallotton del 1919: “je cherche la forme exacte e le ton juste, souci bien suranné, ou d'extrème avant-garde? On ne sait”. Citando il Lavagnino, secondo il quale Donghi è un pittore di “studiatissime, bilanciate composizioni”,
che indaga stupito le forme “con tecnica levigata da quattrocentista, fino a renderle staglianti nello spazio con metafisica evidenza”, Bellonzi conclude: “la carica affettuosa, per cui le occasioni del vero gli si trasfigurano in una chiarezza e immobilità allucinante, esige che diamo un valore non umoristico all'aneddotica su Donghi, il pittore che torna a casa perché il vento gli ha mosso le foglie degli alberi e impeditogli di individuarle precise, una per una. In quel tetragono amore di precisione e ordine si asppuntava la sua personalità di uomo e di pittore, non meno plausibilmente che negli espressionistici furori di altri, né con minore robustezza di sangue”.
Per concludere riporto due dichiarazioni di Antonio Donghi, le quali descrivono e specificano il suo modo ordinato di vivere, cioè di dipingere. La prima, di carattere biografico, è tratta dal Catalogo della II Quadriennale d'Arte di Roma (1935); la seconda, di carattere professionale, è del 1941:
Siccome mi frulla per la testa, non essendo nemmeno sicuro di sfondare un uscio aperto, la butto giù comunque. Ho sempre avvertito da osservatore divertito (e complice quale adoperatore saltuario di colori) della Pop Art inglese e statunitense che alcuni di quegli artisti debbano più di quanto comunemente si pensi a certa pittura europea ed italiana fine Ottocento – inizi Novecento. Tra parentesi mi ricordo del monito di C.L.R., secondo il quale la cosiddetta
Pop Art era molto più legata a discendenze Accademiche di quanto non dicessero i protagonisti e i critici. Quindi pensare a Rousseau, Gauguin, Signac, Vallotton mi sembra piuttosto ovvio, però non scorderei Donghi, il quale in particolare con i suoi personaggi attoniti ha forse ispirato certe solitudini di Edward Hopper, appena più anziano di lui.
F.R. (22 maggio 2022)
Riporto come di consueto, dato il periodo in esame, la citazione di C.L. Ragghianti a proposito dell' "autodidatta" Ceracchini in Indicazioni sulla pittura italiana contemporanea (da "Leonardo", n.3, marzo 1936, p.76) scrisse: "non confondere però con l'affettato analfabetismo pittorico del Ceracchini, che ha il torto, estremo per un artista, di star contento al quia, di appagarsi di sentir riconosciuto astrattamente per spontanea arte popolare cioè che è una torturata spremuta di elementarità accademizzate...".
Condivido, con l'aggravante preconcetta da parte mia per i soggetti clericali nell'opera di Ceracchini, aggravata ancora da collaborazioni
fasciste ufficiali. Reputo così sufficientemente esaurito l'argomento.
Ho avuto un solo momento di incertezza: inserire nel post anche i disegni di Ceracchini? Ciò non tanto sull'onda del giudizio in merito del Longhi (1929), quanto per l'apprezzamento che ne ha dato in Ceracchini e la cultura dei "Primitivi" (1993) Marco Scotini. Lo studioso cortonese sostiene che in Ceracchini il disegno va di fatto equiparato ai dipinti in quanto non ha nell'artista intenti "preparatori". Si tratterebbe però di un'eccezione che non vale la pena di fare con un artista (perché comunque, lo è, e non dei più marginali) quale è stato Ceracchini.
F.R. (22 maggio 2022)
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