Carlo e Licia

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venerdì 7 gennaio 2022

I Proverbi del Triveneto.

Durante una ricerca, nel fascicolo n.14 della IV serie di "SeleArte” - quella “domestica”, concepita dopo la morte di Carlo L. Ragghianti (1987) per confortare il lutto di mia madre e rammentare a familiari e amici di ricordarne il pensiero e l'azione – ritrovo l'articolo Dei “Proverbi toscani” di Fortunato Bellonzi (vedasi il post del 22 maggio 2017).

Non ricordo il motivo per il quale decisi di proporre la lettura dei proverbi su l'amore, l'uomo, la donna e quella di due dotte e belle pagine dell'Introduzione di Fortunato Bellonzi. Molto probabilmente la decisione è collegata a qualche lettera o telefonata che dopo la morte della mamma (1989) avevo saltuariamente con Emilio Greco, molto amico di Fortunato Bellonzi (morto nel 1993), il quale negli ultimi anni, assieme alla sua compagna Marussia Manzella, fu presenza affettuosa con noi.

Rileggendo che secondo Alessandro Manzoni “i proverbi sono la sapienza del genere umano” e considerando, con le sapienti e sottili argomentazioni di Bellonzi, voglio però sottolineare che nella sostanza i proverbi sono quasi sempre gli stessi in tutti i dialetti-lingue italiani. E' nel dettaglio marginale che si assiste, spesso, a gustose e toccanti formulazioni frutto della “sapienza popolana”.

Perché, comunque, riproporre oggi dei Proverbi veneti? (editi nel 1966 da Aldo Martello editore, nella veste tipografica in seguito sostanzialmente ripresa da Giunti nel 1987 per i Proverbi toscani).

Per nostalgia. Sì, il malinconico rimpianto scaturito da ricordi lontani, irripetibili, legati a varie ma specifiche considerazioni, come in questo caso anzitutto ricordi materni.

Constatato, infatti, che il curatore G.A. Cibotto ha attinto anche da fonti friulane, triestine, trentine, italo istriane, cioè proprio dalla primaria lingua di mia madre Licia Collobi, tornata a Trieste – dov'era nata nel 1914, partita nel 15 per Klagenfurt dove suo padre perito dirigeva il Belt Magazin militare – nel novembre 1918 parlando triestino (utilizzato solo in casa con i suoi genitori) e tedesco. Constatato ciò, ho deciso di portare una silloge di questi motti in quella stupenda lingua-dialetto che la mamma ha sempre usato con i conterranei, di qualunque ceto fossero, sia triestini doc che friulani o profughi delle terre dopo la guerra tornate o coartate slave senza dominio asburgico o esuli (come le “siore” del ghetto detto dei “greci”, a 1 km da casa nostra o certe negozianti del Mercato centrale).

In prevalenza, però, mia madre colloquiava in triestino con Nora Levi (speaker di Radio Firenze) e con Silvia Pino Moravia (imprenditrice di tessuti di pregio, laureata in chimica, preside della Scuola alberghiera Aurelio Saffi di Firenze, soroptimist). Fatto, coincidenza curiosa: tutte e tre queste donne avevano frequentato a Trieste la stessa scuola elementare e la stessa classe con la signora Silvia. Poi “buso”: ventidue anni con la “zia” Nora prima della rinnovata amicizia nel 1946, tramite la zia consanguinea Erminietta Ragghianti assunta in Radio Firenze. Con Silvia Moravia, ventisei anni dopo, quando entrambe si riscoprirono grazie ai rispettivi primogeniti, Sergio ed io, compagni di classe in prima media.

Il mio rapporto con il triestino fu costantemente ricercato, perché quel suono armonico e la cadenza cantilenante mi affascinavano, colpendo forse corde ataviche. Assistevo, quindi, tutte le volte che potevo ai loro conversari, soprattutto quelli telefonici con Silvia Moravia, i quali erano sempre vivaci, molto interessanti, di alto interesse sociale e culturale oltre che di impronta decisa, intelligente ed equilibrata sui problemi e gli accadimenti generali e domestici, vari e complessi. A modo suo, fu anche per me una scuola di vita.

In proposito penso che una precisazione sia indispensabile riguardo a questo mio comportamento. Infatti, dopo l'infanzia singolarmente solitaria che ho vissuto e patito (vedasi il post Ricordi di un tre-quattrenne, agosto 1943-agosto 1944 del 13 aprile 2019) anche da ragazzo e da adolescente – piuttosto timido, ribelle, e “diverso” perché ateo in Gran Pretagna – spesso ero oppresso da solitudine malinconica. Uno dei modi, il preferito, per superare questa depressione consisteva nell'installarmi nello studio della  



mamma per leggere o per studiare, mentre lei continuava a lavorare ai suoi studi o a “SeleArte”, oppure telefonava, tanto, cioè le telefonavano principalmente la signora Silvia, Maria Luigia Guaita e le non molte altre amiche (Marghé Detti, Maria Francovich ecc.); ai fornitori di casa e di lavoro; la segreta zia Lara Vinca Masini; interlocutori del babbo gestiti in vece diplomatica. Penso che certamente mia madre fosse consapevole del mio disagio esistenziale. Se mi ha consentito questa consuetudine, lo ha fatto valutandola e gestendola consapevolmente come utile complemento alle attenzioni di affettuoso dovere che dedicava a ciascuno di noi. Era sempre una “festa” quando c'erano ospiti dal nord-est. Ne ricordo alcuni, i più assidui nella presenza (talora intensa in periodo circoscritto, talora vivamente diluita in periodi anche lunghi): Decio Gioseffi, Elena Bassi, Bepi Mazzariol, Neri Pozza e Lea Quaretti, il mese con ospite zia Maria Domazetovich Fasanella, Tono Zancanaro (vent'anni di assiduità amichevolmente familiare).

Altra “festa” per la mamma fu sempre l'andare a Venezia, ancor più a Udine con i tanti amici, a Trieste – naturalmente – dai parenti soprattutto, ma anche i Gioseffi, i Pozzetto.

Tra il nonno Alberto (Berto, Bertocci) Collobi – cognome autoscelto e unico invece di quello proposto dall'ufficio fascista preposto al cambio obbligatorio dei cognomi slavi – il dialogo era soltanto in triestino, però non era granché essendo di fatto padre e figlia persone antitetiche. Il nonno era venuto a stare a Firenze da Napoli nel 1953, quando neo pensionato Navalmeccanica rimase vedovo; dal 1954 al 1963, quando morì, rimase con noi a Villa La Costa. Festoso ed intenso, invece, il colloquio con la cara zia Rachele Genuzio (seconda moglie del nonno, che era a sua volta secondo marito). Il loro dialogo fu soprattutto per lettera, nel dopoguerra anche per telefono, di persona nei rari incontri fino alla sua morte per infarto a 49 anni nel 1953, seppellita dal nonno alla stessa età della prima moglie, la nonna Silvia, mai vista da noi nipoti e sopravvissuta alla memoria famigliare nel ricordo della figlia, indelebile, data la capacità mnemonica della mamma, morta 32 anni fa.

Dal libro a cura di G.A. Cibotto, giornalista e scrittore stimato da Geno Pampaloni e rispettato da Alfredo Righi, propongo alla lettura la sezione “Amore, donna, matrimonio” (pp.3-15); poi “Tavola, cibi, vini”, la sezione che avrebbe apprezzato il nonno, e perché argomento ricorrente con gli ospiti a pranzo o cena (pp.19-25). Riproduco anche le due paginette di “Gioventù e Vecchiaia” (pp.87,88) anche se mi pare che la giovinezza latiti. Concludo con la “Bibliografia” (pp.113-117), la quale ravviva la memoria di luoghi cari alla nostra famiglia e cari agli italiani che nell'Europa Unita vorrebbero ritrovare l'Istria e la Slovenia con le loro radici linguistiche venete della minoranza praticata in loco, pacificamente, fraternamente.

F.R. (24 agosto 2021)




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