Carlo e Licia

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martedì 18 gennaio 2022

Guy de Maupassant.

Su suggerimento di mio padre, suffragato da Raffaele Monti che mi sollecitò ad anticiparne la lettura invece di altri libri di scrittori francesi (rimandare, ad es., Le rouge et le noir di Stendhal; La Chartreuse l'avevo già divorata) e sollecitato anche da Lara V. Masini, tra la fine del 1956 e l'anno successivo lessi praticamente tutta l'opera di Guy de Maupassant. Bel Ami l'ho riletto almeno un paio di volte (lo portai a Venezia come “livre de chevet” in occasione della prima proiezione del Michelangiolo di mio padre alla Mostra del Cinema al Lido); i racconti li ho riletti in parte negli anni Settanta quando acquistai i dodici volumi rilegati in pelle delle edizioni Bonnot.

Di Maupassant ne ho parlato spesso, non ho scritto alcunché, perché non solo mi sentivo inadeguato ma proprio non mi riusciva trovare il bandolo per esprimermi con un giudizio coerente e soddisfacente. Che fosse un grande della letteratura mondiale e i racconti quasi sempre capolavori ne ero più che convinto. Avvertivo, però, che per quanto rilevante, emozionante, duraturo fosse come autore, Maupassant non era del calibro dello zio Flaubert o monumento aere perennius come I promessi sposi di Alessandro Manzoni, tanto per far dei paragoni incontrovertibili.

Un paio di anni fa, in una delle lettura a sondaggio nel mare di carta stampata rappresentato dall'opera di Benedetto Croce, finalmente mi imbattei nell'interpretazione delle mie incertezze circa Guy de Maupassant. Il precedente saggio di Croce (in Poesia e non poesia, 3a edizione riveduta, 1942) fu una rivelazione che rispondeva in modo totale alle mie osservazioni inespresse. Tanto da considerare, dopo quella lettura, il mio pensiero in proposito coincidente con quello di don Benedetto. Ovviamente, quel giudizio è espresso con uno stile e con una chiarezza logica da parte mia irraggiungibili. Se non ci avessi nel tempo rimuginato, potrei dire che il testo di Benedetto Croce, imponendosi nella mia mente, ha plagiato un pensiero bloccato.

Ho deciso, così, di riproporre quelle pagine a cui seguono questo testo redazionale e altri contributi, perché tuttora esemplari, tali da esprimere in maniera sostitutiva oltre la mia adesione, punti di vista, informazioni e notizie interessanti e complementari.

Il saggio di Benedetto Croce fu pubblicato la prima volta su “Nuova Antologia”, il 16 febbraio 1920. Quindi nel 1990 fu riproposto nella stessa rivista (n.2174), preceduto da due pagine – presumo scritte da Giovanni Spadolini – qui riprodotte. Nella bella e rara rivista fondata e diretta dall'amico di famiglia Alfredo Parente, “Rivista di Studi Crociani” (1,1984) Giovanni Battista DeSanctis ha 

pubblicato un importante saggio su Croce e Maupassant, utilissimo anche sul piano filologico. Ripercorre, ovviamente, il rapporto che Croce intraprese con l'opera di Maupassant: “E ne compie il bilancio analitico, positivo”; “Era poeta, poeta nella sua prosa narrativa assai più che nel verso”; “così, senza pastoie imposte dalle mode letterarie scrive con la divina libertà che sa scegliere il naturale consonare o dirompere del periodo”.

Naturalmente la maggior parte della saggistica in giornali e riviste si compiace degli eccessi sessuali e di altri comportamenti, per così dire non conformisti o addirittura scandalistici. Colore ma non sostanza.

Fanno eccezione alcuni interventi di cui riproduciamo i tre seguenti. In tuttolibri (settembre 1993) – supplemento culturale de “La Stampa” di Torino – Ernesto Gaglieno, giornalista culturale allievo di Abbagnano (morto a 89 anni nel 2019), pubblicò il contributo di “nuove verità sul centenario” con dati e informazioni nei quali “si scava nella vita intima dell'autore”. Gabriella Bosco, allora neo laureata quindi prof. Associato all'Università di Torino, su la terza pagina de “La Stampa” del 16 gennaio 1996, relazione sulla pubblicazione in Francia della Correspondance di Maupassant con Flaubert, con osservazioni che non conoscevo. Dissento da quanto virgolettato nel sottotitolo apicale, dove si involgarisce un rapporto virile che Dante avrebbe spiegato in ben altri termini. Presumo, comunque, che si tratti di un inserto redazionale, come quasi sempre avviene nelle titolazioni di quotidiani e riviste.

Sul settimanale “Panorama” (12 agosto 1990) Giuseppe Scaraffia, brillante scrittore e professore ordinario a “La Sapienza” di Roma di Letteratura francese, ricorda l'infortunio giudiziario capitato a Guy de Maupassant, ancor giovane e scapestrato alquanto, difeso dal “maestro e padrino d'eccezione”, Gustave Flaubert. Il grande “zio” putativo di Carlo L. Ragghianti, accettato da me e gli altri familiari con reverenziale rispetto. Scaraffia, per dare al lettore l'opportunità di poter entrare nel merito della questione, fornisce anche il testo incriminato nella sua traduzione in italiano. L'incresciosa faccenda finì con un “non luogo a procedere”. Ciò mi ricorda che – non solo di questi tempi – si impostano e svolgono senza fondamento plausibile processi pretestuosi, talora intimidatori alla “cultura” laica.

Cinque anni prima della morte (1893) di Maupassant il romanziere, poeta, drammaturgo e critico letterario Henry Céard (1851-1924) delinea un ritratto letterario di Maupassant ne “La revue illustrée” (1 aprile 1888) in occasione della pubblicazione di Pierre et Jean: “ce roman récemment publié, et pour le quel on peut, sans exagération, prononcer le mot de chef-d'oeuvre”.

F.R. (31 agosto 2021)

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