Questo
libro (Pittori Fiamminghi, Mondadori, Milano, 1962) è un
tipico prodotto della disinvolta editoria degli anni del Boom
economico e della crescita dei
corpi redazionali editoriali, infarciti anche di nomi ragguardevoli,
però con effettivi esecutori abbastanza raccogliticci di cultura
prevalentemente generica ed orecchiante. Il testo critico –
volutamente “divulgativo” sulla scia di quello che caratterizzò
“seleArte” (1952-1966) – è rigoroso concettualmente.
Purtroppo
le superfetazioni redazionali fecero sì che il materiale
illustrativo in b/n e a colori stravolgesse quanto indicato
dall'autrice Licia Collobi, la quale aveva fornito elenchi
illustrativi e testi relativi di sicura qualità ed omogenei
al progetto.
Dato
che acquisire certe illustrazioni comportava lavoro (sono
osservazioni che faccio con cognizione di causa essendo stato
redattore) di corrispondenze in inglese e complicazioni singolari da
risolvere caso per caso – stante anche una responsabilità
editoriale incompetente e debole – fu seguita la linea di minor
rigore e di facile soluzione. Le molte proteste e proposte
alternative della Collobi furono ora sì ora no accolte, in parte sì
e in parte no modificate ulteriormente o rifiutate. Così passò del
tempo, fino a quando o si procedeva subito o non se ne faceva di
niente. Naturalmente l'editore procedette.
In
conclusione: le didascalie delle illustrazioni , come la scelta e il
taglio delle immagini sono stati operati dalla redazione dell'editore
utilizzando in modo arbitrario quanto fornito dall'autrice.
Nonostante
tutto ciò, il libro non è da scartare, anzi – data anche la alta
tiratura – ha contribuito alla migliore conoscenza di questi
pittori, quasi tutti meno noti e presenti alla nostra cultura.
Il
testo di Licia Collobi è tuttora valido e di lettura affabile.
Pittori
fiamminghi, libro che compare
nelle bibliografie “a cura di Giuseppe Argentieri”, non vede
citato il nome dell'effettiva autrice Licia Collobi Ragghianti in
nessun luogo.
Licia
Collobi è stata una “negra” (come si dice in gergo editoriale di
un autore effettivo assente, sostituito da un impostore, in inglese
il termine è ghost-writer)? Sì
ma per un caso curioso, anomalo, per certi versi divertente. In primo
luogo non le fu mai richiesta nessuna clausola capestro restrittiva e
di riservatezza, come avviene di solito (come posso per quel che mi
riguarda testimoniare).
Il
contratto, riprodotto qui di seguito, infatti riconosce all'autrice
il suo operato; le viene soltanto richiesto di consentire “che la
pubblicazione esca senza il suo nome e con la menzione a cura di
Giuseppe Argentieri”. Il compenso di £ 650.000 equivale oggi a
almeno 7 o 8 mila euro. Non male, soprattutto nel 1962!
Va detto anche perché e come si sia presentata questa occasione, dovuta al caso non al bisogno impellente. Sul come si è presentata la faccenda posso testimoniarlo perché ero presente.
Alfredo
Righi allora era impiegato alla Mondadori, che per altro stava
lasciando perché già si stava concretizzando l'ingresso di
Pampaloni come direttore della Vallecchi, anche grazie ad Alfredo che
gli faceva da segretario e promotore di immagine. Quando veniva a
Firenze, spesso ci veniva a trovare, così come fece all'inizio del
1962, in una giornata tersa e solatia come a volte la detestata
capitale toscana regala.
Arrivò
verso mezzogiorno e, dato che il babbo era occupato nello studio, lo
portai dalla mamma nel suo salotto-ufficio. Parlando del più e del
meno mia madre chiese a Righi se conosceva Tiziano Palandri,
partigiano pistoiese tra i più fedeli comandanti e compagni di Parri
e Ragghianti. Certo rispose Alfredo, che chiese il perché della
domanda: la risposta fu che il povero Tiziano era in testa alla mamma
perché a breve la nostra famiglia gli avrebbe dovuto una cifra
corposa per la fornitura di nafta per il riscaldamento di casa, cosa
che le creava un momentaneo e imprevisto problema economico. Dopo un
po' l'Alfredo – esuberante come spesso era – declamò che aveva
lui la soluzione per questo fastidio economico. Quindi raccontò che
un dirigente della cerchia familiare di “Arnoldo”
(confidenzialmente) cercava un autore affidabile cui far scrivere un
testo agile sui pittori fiamminghi, molto ben pagato. Fu così che
mia madre divenne ghost-writer,
o “nègre” o “negro” che dir si voglia, anche se il
politically orripila
al suono italiano e francese.
Giustamente
mia sorella Rosetta mi fa notare che ho dimenticato una precisazione
più che opportuna. Nel 1962 Licia Collobi era già considerata
nell'ambiente professionale come una specialista affermata della
pittura fiamminga e olandese. Va ricordato che nella importante, e
per certi versi criticamente innovativa Mostra d'Arte
Fiamminga e Olandese
dei secoli XV e XVI (Palazzo
Strozzi, Firenze, maggio-ottobre 1947), la studiosa triestina non fu
soltanto determinante collaboratrice al montaggio dell' Esposizione,
fu anche la redattrice unica (assieme ai contributi di Carlo L.
Ragghianti) del Catalogo scientifico (Edizioni Sansoni,
Firenze, 1948), di veste modesta come imposto dai tempi ma prestigioso.
E da allora si occupò sempre dell'impresa avviata da C.L.R. – ma
presto trascurata – del thesaurus
fiammingo dal 1946 nello Studio Italiano di Storia dell'Arte.
Va
infine tenuto presente che al 1962 numerosi erano già i contributi
pubblicati da Licia Collobi su “Critica d'Arte” e “seleArte”,
come si può riscontrare nella sua bibliografia pubblicata per cura
di Rosetta Ragghianti e poi anche in questo blog (vedere il post del
2 novembre 2016). Attività specialistica poi proseguita sempre con
studi e ricerche fino alla morte avvenuta il 27 luglio 1989 quando
aveva dato il si stampi al suo libro postumo Dipinti
fiamminghi in Italia (1420-1570). Catalogo
(Calderini, Bologna 1990).
F.R.
(9 giugno 2020)
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