Carlo e Licia

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sabato 7 marzo 2020

{Lo Scaffale di Irene} Citizen - Una lirica americana di Claudia Rankine.

La scelta per l'inizio di questa mia rubrica è stata ben ponderata, ho preso in considerazione anche le possibili recriminazioni derivanti dal recensire un'opera meritevole sì ma non popolare né prevedibile. Non solo onestà intellettuale, ma anche personale interesse per i temi trattati e apprezzamento per lo stile e la scrittura dell'autrice mi hanno fatto scegliere per questo primo articolo l'opera poetica Citizen, una lirica americana della professoressa jamaicana Claudia Rankine, tradotta in italiano nel 2017 e pubblicata da una delle case editrici indipendenti italiane che preferisco, quanto a titoli e scelte, la romana 66thand2nd.


Temi pesanti caratterizzano questo libro di poesia magnifica e terrificante al contempo, eventi noti e di cronaca intessuti con esperienze giornaliere, senza nome eppure tanto comuni da poter appartenere a chiunque. Beh, non proprio a chiunque purtroppo.
L'autrice Claudia Rankine, nata a Kingston nel 1963 è una poetessa e scrittrice statunitense da sempre impegnata nel dare voce ai problemi legati al razzismo e alla discriminazione negli Stati Uniti in particolare. Lo aveva già fatto ad esempio con la performance teatrale White Card in cui mette in scena in modo provocatorio il dialogo tra bianchi e neri esemplificandolo attraverso la conversazione tra un'artista nera ed un ricco collezionista d'arte bianco che affronta i temi del creare, comprare e collezionare immagini di “black death” cioè scene di morte di persone di colore.
E' tra le più riconosciute ed acclamate intellettuali degli Stati Uniti ed ha curato varie antologie poetiche tra cui American Women Poets in the Twenty-First Century: Where Lyric Meets Language (Wesleyan, 2002) e American Poets in the Twenty-First Century: The New poetics (2007), è drammaturga (Provenance of Beauty: A South Bronx Travelogue) ed ha collaborato con John Lucas a vari video d'autore. A suo nome cinque raccolte di poesia: Don't Let Me Be Lonely (Graywolf, 2004); PLOT (2001); The End of the Alphabet (1998); e Nothing in Nature is Private (1995), raccolta d'esordio alla quale viene assegnato il Cleveland State Poetry Prize; collabora inoltre con le maggiori testate americane (“New York Times”, “Guardian”, “Washington Post”), è rettore dell'Accademia dei Poeti Americani e insegna poesia all'Università di Yale.
Citizen è stata definita una sua personale, moderna versione di Spoon River per il modo crudo ed estremamente efficace con cui racconta l'esperienza della comunità di origine africana degli Stati Uniti d'America.
Quest'opera irregolare, volutamente “aggressiva” dipinge con ritmo incalzante e singhiozzato gli orrori della realtà razzista americana nelle sue declinazioni quotidiane silenziose e inosservate, quelle di cui pochi parlano e che nessuno ascolta, che non fanno scalpore nei telegiornali e di cui tanti bianchi si sentono in diritto di ignorare l'esistenza.


Denuncia quel che significa essere neri in un Paese, ma anche in un mondo, che pretende nel suo privilegio di mantenersi sordo e cieco all'evidenza di una disparita' sistematica, sottile, costante che attacca la comunità di colore in modo diretto, ma che di conseguenza degenera l'umanità intera e la possibilità di ottenere vera libertà, uguaglianza per ogni essere umano. A prescindere.
Rankine sceglie di usare scandali noti come le reazioni della tennista Serena Williams (considerate dall'opinione pubblica violente ed “eccessive”, in realtà più che legittime) conseguenti al trattamento discriminatorio da lei subito sul campo; le atroci colpe dietro l'uragano Katrina abbattutosi su Haiti in cui il benessere dei soccorritori bianchi fu messo al primo posto rispetto alle migliaia di vite locali perdute; o gli epiteti razzisti che scatenarono le azioni del calciatore Zinedine Zidane in quel famoso Mondiale; ma anche ingiusti fermi di polizia, casi di profiling, “generiche” sfumature di quel che significa sentirsi diverso negli States. Perché c'è fondamentalmente una sola grande crepa che divide volutamente la società americana, così da potervi imperare...ed è ancora il colore della pelle, per quanto inconcepibile dovrebbe sembrare.
Con una lirica scomposta dallo stile moderno e graffiante insieme a foto d'autore e riproduzioni di opere d'arte che si stagliano prepotenti sulla pagina bianca patinata, Claudia Rankine ci insegna che nessuno di noi è immune dal razzismo involontario, inconscio e che noi bianchi abbiamo la responsabilità – nei confronti sì della popolazione di colore ma anche nei confronti di noi stessi, della nostra umanità – di porci domande scomode. Darci risposte altrettanto fastidiose ma che sono il primo mattone nella ricostruzione dei tanti perché dietro alla presente e passata condizione di oppressione degli uni verso gli altri, il primo passo verso una soluzione che deve essere trovata sì ai piani alti...ma che come quasi sempre accade inizia nelle piccole insignificanti interazioni tra individui. La scelta di una parola, il cogliere noi stessi sul punto di esprimerci o agire sulla base di un pregiudizio inculcato che diventa automatismo, lo sviluppare cosciente di una curiosità positiva e costruttiva nei confronti del diverso, dello sconosciuto che ci porti ad arricchirci anziché lasciarsi nudi con il nostro odio.

Non è la prima opera a cui mi sono avvicinata in questo mio percorso personale di crescita e di scoperta – intellettuale ed umana – della questione del razzismo e delle voci degli oppressi, ha la eco sommessa di capolavori come le opere di Toni Morrison, James Baldwin con il taglio giornalistico dei saggi di Ta Nehisi Coats. La lirica di questa formidabile poetessa si è intrufolata con urla silenziose a toccare corde sensibili e personalmente credo sia un'esperienza che non abbastanza persone si concedono.
Irene Marziali Francis





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