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Nato a
Trieste il 20 aprile 1911, morto a Bassano del Grappa il 22 aprile
1981, Umbro Apollonio dal 1949 al 1972 è stato dirigente
dell'Archivio Storico e Direttore della rivista della Biennale di
Venezia. Successivamente è stato docente di Storia dell'Arte
contemporanea presso l'Università di Padova.
Quando
incontrai per la prima volta Apollonio ero a Venezia con i genitori
nel settembre 1953 in premio dopo l'esame di riparazione in latino (o
in matematica?) della Terza Media. Ero momentaneamente stato affidato
al Bepi Mazzariol, col quale divenni subito amico grazie al suo
savoir faire anche con i
bambini. Di Apollonio mi divertì molto l'aspetto un po' clownesco,
cioè inelegante, mesto, col naso grosso venato di rosso: poi mi
venne in mente umbratile, gioco di parole tipicamente
preadolescenziale. In effetti schivo, introverso, solitario perché
scansato e malfidato, cioè ombroso, umbratile appunto (leggevo
molto) lo era certamente come ebbi modo di constatare in quei tre
giorni di permanenza.
Di
questo studioso, oltre al poco scritto nel post del 29 maggio 2019,
posso soltanto aggiungere alcune osservazioni derivanti dalla
corrispondenza con Carlo L. Ragghianti la quale, non a caso
interrotta agli inizi degli anni '60 (cioè quando R. si interessò
alla Biennale solo giuridicamente e statutariamente), anche se la
frequentazione –
specialmente nelle cene e dopocena inter pocula che festeggiavano R. a Venezia – continuò assieme a coloro che erano ospiti fissi come Bepi Mazzariol, Alberto Viani, Carlo Scarpa e altri assidui come Samonà, Trincanato, Pignatti, Bassi, ecc.
Nei confronti di Apollonio, suo coetaneo, C.L.R. mi sembra di poter dire avesse all'incirca lo stesso atteggiamento riservato ai suoi allievi universitari più promettenti come studiosi: li stimolava con l'esempio, li incoraggiava con spunti storici e critici da sviluppare e perfezionare, li coinvolgeva in progetti formativi esemplari, li responsabilizzava nelle attività dell'Istituto di Pisa (e prima nello Studio di Storia dell'Arte di Palazzo Strozzi a Firenze), li promuoveva con la “Critica d'Arte” ecc. Non escluderei, poi, che mio padre avesse per A. un riguardo particolare (oltre alla naturale propensione simpatetica verso chiunque fosse concittadino di sua moglie Licia, triestina) perché si sentiva in debito morale verso i fratelli giuliani in quanto la Resistenza
e il dopo guerra politico non erano riusciti a difendere loro e
l'identità risorgimentale di Patria. Lo dico perché ricordo che
per lui, la missione, assieme a Ferruccio Parri in Friuli e a
Trieste (1945) fu una esperienza particolarmente toccante, incisa
nella memoria. La considerazione nei confronti di Apollonio ha,
comunque, altri riscontri, persino in Decio Gioseffi, al di là della
autentica stima per lo studioso e l'amicizia per l'uomo.
Nel
1949, in occasione del Premio Einaudi istituito dallo Studio di
Firenze, C.L.R. scrisse ad Apollonio il 7 gennaio (non 1948 come
nell'intestazione: accadeva che R. i primi 10/15 giorni dell'anno
nuovo continuasse a datarlo con il vecchio millesimo):
Nella
lettera del 10 settembre 1954, R. deve giustificarsi con Apollonio
perché una frase da lui scritta ed estrapolata era stata inclusa
nella divertente rassegna di parole in libertà
pubblicata su “seleArte” (n.12, mag.-giu. 1954, p. 2; si veda
anche la nostra riproposta Artemanti alla Biennale
nel blog del 21 giugno 2018). In proposito posso testimoniare che R.
nella lettera non scarica una sua responsabilità sui
collaboratori, ma argomenta un errore da essi
effettivamente compiuto. Ero presente, infatti, al “cazziatone”, per altro anche troppo cortese che subì Pier Carlo Santini (segretario di redazione della rivista) al quale aveva dato l'incarico di terminare - sull'esempio dei due
terzi già preparati – la rassegna di brani “ermetici”,
incomprensibili, astrusi nell'ultimo catalogo della Biennale di
Venezia, dato che lui doveva fare non ricordo quale relazione
urgente e inderogabile per il Rettore.
Il 23 maggio
1956 R. scrive ad Apollonio una lettera che reputo molto
significativa ed importante su Picasso, che
pubblico integralmente in appendice a questo testo redazionale. Illuminante per la personalità
di Apollonio mi sembra, infine, la lettera- che
riproduco – inviata a Ragghianti (senza data, ma del sett.-ott.
1957:
Nella
scheda Birolli, qui pubblicata dopo quella su Arturo Nathan,
riproduciamo integralmente un testo manoscritto (inedito) di
Apollonio sull'artista, In origine esso era destinato alla rivista
“Emporium”, circa la quale nel 1942 i
coniugi Ragghianti erano stati incaricati di editare con una nuova
impostazione.
F.R. (14 luglio 2019)
Appendice su Picasso.
Ricordo
che all'incirca un mese prima della prevista inaugurazione (poi
rimandata a causa dell' Alluvione del 4 novembre 1966 a Firenze)
della Mostra in Palazzo Strozzi, in segreteria c'era una certa
agitazione perché non si erano ancora reperiti un numero di dipinti
di Nathan sufficiente, nonostante le accurate indicazioni del
curatore della “scheda critica”. Sulla scia del revival
fiorentino, nel 1992 vidi che nella antologica di Aosta furono
esposte ben 256 opere di Arturo Nathan. Il caso di questo pittore
triestino non fu l'unico, specialmente tra i Maestri nati 10/20 anni
prima del secolo XX. L' oblio critico e collezionistico della loro
opera aveva comportato la loro “scomparsa” dal mercato e dalla
attenzione degli studiosi e dei critici. L'aver costituito l'effetto
trainante per rintracciare e riproporre questi artisti è uno degli
indubbi meriti della Mostra “Arte Moderna in Italia 1915-
1935”. Giorgio
De Chirico, suo sincero amico, ha detto di Arturo Nathan: “era
un uomo intelligente, mite, giusto e buono....; e lo fu tanto da non
prendere le opportune precauzioni dopo le Leggi razziali del 1938 –
emanate proprio da Trieste – e di farsi catturare dai nazifascisti
che lo assassinarono nel Campo di sterminio di Biberach. Non è stato
difficile da parte della critica vedere nella sua pittura – in
cui è abbastanza evidente una vena tragica – una premonizione
della morte dell'artista. Al di là di risvolti psicanalitici, la
formazione del pittore da Wildt, dalla Metafisica e da alcuni
surrealisti assimila un indubbio e costante riferimento alla
classicità – anche troppo declamata nel Paese – ; ma Nathan declina
in una inesorabile malinconia, che può essere intesa premonizione
della sua tragedia. Quel che mi pare evidente nella sua pittura è il
riflesso di un mondo fantastico, però intriso di solitudine.
F.R.
(7 luglio 2019)
Pittore ben
inserito nell'ambiente, soprattutto a Milano, e uomo mentalmente
intraprendente e coraggioso (partecipò alla Resistenza), Birolli
all'inizio degli anni Trenta fu coinvolto da Edoardo Persico, il
quale intendeva far uscire dalla cappa ideologica del cosiddetto
“Novecento” la cultura artistica attraverso una radicale
riflessione sull'arte moderna, fino a diventare uno dei protagonisti
di questo intervento liberatorio e addirittura uno dei pittori più
attivi e propositivi.
Carlo L.
Ragghianti, che lo conobbe e lo frequentò da allora fino alla
prematura scomparsa, ha lasciato poche testimonianze dirette su
questo artista, sparse quasi sempre in contesti piuttosto articolati:
tra queste brevi osservazioni riporto da La Galleria
dell'Arcobaleno a Venezia (“La
Critica d'Arte”, IV, n. 1, gen. - mar. 1939) queste righe:
Negli
anni Quaranta Renato Birolli nei dipinti ribadisce la propria essenza
di pittore con il coinvolgimento di istanze etiche intendendo
intensificare la qualità reale. Così aderisce al P.C.I. ed è
attivo nei raggruppamenti artistici ad esso collegati; conosce e si
lega al pittore-mecenate Guglielmo Achille Cavellini. Birolli quindi
descrive l'asse portante delle sue convinzioni in questo modo: “
Una tecnica dissociata dall'espressione, è inesatta e vive solo una
inutile vita propria, che è morte propria. Una tecnica dissociata
dalla funzione artistica, non è verità”.
Concordo
nel pensare che i viaggi e i soggiorni a Parigi 1947 e '49
(successivi al primo del 1936) abbiano anche il senso e diano valore
a voler sfuggire al pericolo di perdita di autonomia della ricerca
artistica, come invece si sta affermando nella cultura ufficiale
della sinistra. Di questo disagio si trova riscontro nella
collaborazione con Cavellini, tra l'altro promotore di una
significativa collezione di arte “astratta” nella quale l'opera
di Birolli è tra i dipinti fondanti, i concetti primari. Si veda in
proposito, oltre alla sottostante lettera a Ragghianti, il saggio
Pittori contemporanei
che C.L.R. pubblicò su “seleArte” (n. 38, 1958) di prossima
postazione in questo blog.
E'
del 1954 la breve recensione alla monografia su Birolli, curata da
Giuseppe Marchiori, pubblicata in “seleArte” (n. 14,
sett.-ott., p. 9)
nella quale Ragghianti sottolinea
“...l'umanità inquieta, la tensione morale che hanno dato
carattere al suo fare”.
Però
C.L.R. in una lettera (30 luglio 1963), di quattro anni posteriore
alla morte dell'artista, indirizzata all'amico fin dalla cospirazione
antifascista e storico dell'arte Licisco Magagnato, non può esimersi dal considerare:
Si
tratta di un evidente giudizio riduttivo, controcorrente nei
confronti della consueta corsa alla ri-valutazione post
mortem dell'artista, spesso e
volentieri congiunta con la speculazione al rialzo sulle opere del
defunto. D'altra parte queste righe rappresentano anche un richiamo
al fare storiografia rigorosa, senza indulgere alle comode
“mitologie” (così diffuse e comode sostituzioni alle
considerazioni storico-critiche e formali che dovrebbero
contraddistinguere i singoli “manufatti” di ogni artista, anche
ai fini della valutazione economica) sugli artisti. Il citato saggio
di prossima postazione nel blog sulla collezione Cavellini dal titolo
Pittori contemporanei
(“seleArte”, n. 38, 1958,
pp. 35-55) è importante riflessione di puntualizzazione sul fenomeno
internazionale dell'arte astratta
– che si stava diffondendo con l'invasività tipica delle mode in
quegli anni – inquadra la problematica partendo proprio dai 16
taccuini e dagli altri
scritti di Renato Birolli. Si tratta, infatti, di una testimonianza
“ideologica” dove
Birolli “ritrova in queste pagine, più maturatamente, lo stesso scrittore impegnato, sensitivo, in perpetuo fermento di immagini e di pensieri”. Si
conclude la rassegna sull'opera di Renato Birolli riproducendo
integralmente un manoscritto di due pagine allegato alla minuta della
lettera che Licia Collobi scrisse (facendo le veci del coniuge
detenuto per antifascismo) nel febbraio 1942. Essa è indirizzata a
Umbro Apollonio e ad Attilio Podestà e comprende due allegati su
quattro fogli. Il manoscritto di due fitte pagine (3,4) intitolato
Birolli è un testo
originale di Umbro Apollonio, certamente inedito, probabilmente
rifuso in altra sede. Il testo era stato inviato a Ragghianti perché
lo pubblicasse sulla nuova serie della storica rivista “Emporium”,
affidata a R. perché la “rifondasse”. Certamente per Carlo L.
Ragghianti quel progetto del 1942 è stato antesignano della
successiva “seleArte” (1952).
F.R.
(6-8 luglio 2019)
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