Giulio Da
Milano (1895-1990), longevo artista la cui vita è stata
caratterizzata da una encomiabile coerenza stilistica con una pittura
“densa, corposa, impregnata di umori romantici nel senso storico
del Romanticismo pittorico, ma capace di brusche sintesi eliminanti
ogni superfluo, limitata a pochi temi appassionatamente
approfonditi....inalteratamente conserva un'impronta inconfondibile.
Una pittura che vuole essere, ed è magistralmente, soltanto
pittura”. Questo osserva acutamente Marziano Bernardi, storico ed
autorevole cronista degli ambienti artistici torinesi dei primi tre quarti
del Novecento. Da Milano personaggio schivo, “solitario e
meditativo”, stilisticamente mi pare allievo più vicino a Cesare
Ferro che a Giacomo Grosso. Ai viaggi ed agli emotivi soggiorni
parigini, alternò da giovane – per evidenti ragioni economiche –
il mestiere di grafico a Torino, con attività sia pratica, come
mostra la copertina a fianco riprodotta (dal vol. II de Gli
adornatori del libro in Italia, 1924, di Cesare Ratta), che di studio
teorico con la creazione di ben quattro caratteri di stampa.
F.R. (5 maggio
2019)
Francesco De Rocchi
(1902-1978) è generalmente definito dalla critica, che dal 1930 lo
inquadra tra i “chiaristi lombardi”, come pittore caratterizzato
da un naturalismo lirico-intimista dai toni chiari e delicati che
accoglie echi dei postimpressionisti francesi e dell'Ottocento
lombardo. Per Sergio Solmi (1969) “Lo svolgersi della sua pittura
non offre svolte, pentimenti e sbalzi. Individuato di buon'ora il
breve nucleo d'una raccolta e trepida ispirazione, in quella specie
di casta e quasi timorosa gentilezza, e come di un religioso candore
di fronte alle bellezze naturali, che si esprimono in un impianto
grafico d'un delicato rigore, in una gamma di tinte primaverili
bianco-rosse-grigio dorato, egli non ha fatto che crescerlo e
irrobustirlo, attraverso un mestiere assiduo, non immemore della
lezione di qualche primitivo lombardo, ed intento ad una elaborazione
puntuale dell'opera, senza mai trascendere in ambiziose risoluzioni
l'aderenza al primo momento emotivo”. Intendo concludere con
una sintesi che coglie il valore pittorico di De Rocchi, quella che
il caro amico – umorale e bastian contrario – Alfonso Gatto
(1909-1976), il quale, se da un lato si lasciava trasportare da
istantanee, clamorose ed ingiustificate collere contro il grande
Giorgio Morandi (che, sciagurato, riteneva sopravalutato), d'altro
canto su De Rocchi scrive: “ De Rocchi è un pittore che da sé
solo si concede la tregua, vive e lavora in questo margine di
dolcezza convenuta, nella maniera di un piccolo mondo di madreperla,
traslucido e tirato col fiato i cui rapporti son fissi e
astrattamente mantenuti per teorie dal più al meno soave, per
sfumature e per somiglianze ideali”.
Personalmente trovo
ingiustificato che questo valido artista non sia stato inserito nella
Mostra/Catalogo “Arte in Italia 1935-1955” del 1992.
F.R. (3 maggio 2019)
Di Onofrio Martinelli
oltre alle succinte schede redazionali 1915-1935 (prob. R. Monti) e
1935-1955 (Raffaele De Grada) riporto anche il profilo che ne tracciò
Luigi Baldacci – italianista e critico letterario “militante”,
non alieno da escursioni, generalmente fini, nell'arte contemporanea
– in Novecento in Toscana. Toscani di adozione (1979). Questa
testimonianza è quella di un amico membro anch'egli assai attivo
nella cerchia “longhiana”, benché non sempre settario. Baldacci
è stato anche un notevole collezionista d'arte, specialmente di
desolanti e desolati seicentisti e poi di arte africana con una
raccolta abbastanza prestigiosa riflesso della sua notevole
competenza in materia.
Dei rapporti tra
Martinelli e Ragghianti esiste soltanto una breve lettera (datata
novembre tra il 1947 e il 1949) nella quale il pittore ringrazia R.
di dargli l'opportunità di esporre a Firenze in Palazzo Strozzi. In
effetti a “La Strozzina” nel 1948 Martinelli espose una “vetrina”
di disegni e nel 1950 di nuovo espose dei dipinti accanto a una
“vetrina” dedicata alla moglie, Adriana Pincherle, sorella di
Alberto Moravia e pittrice tutt'altro che mediocre.
Nel 1983 a Macerata fu allestita una documentata mostra dei coniugi Martinelli-Pincherle, cui il giornalista, critico letterario ed editor, Giorgio Zampa dedicò una affettuosa recensione che riproduco soprattutto in considerazione del garbo con cui egli descrive questa ovviamente originale però bizzarra coppia, alla quale la vedova (soprannominata a Firenze zia Beffy-Befana) restò diligentemente fedele.
F.R. (6 maggio 2019)
Discendente
dell'eroe garibaldino Giacomo Medici (1817-1882), che fu protagonista
della mitica difesa di Villa il Vascello – nome che il re congiunse
al titolo nobiliare – durante l'assedio della repubblica mazziniana
di Roma (1849), non poteva che risultare potenzialmente gradito
a Carlo L. Ragghianti questo pittore, in verità non esaltante.
Certamente fu l'insistente entusiasmo di Raffaele Monti, segretario
generale della Mostra, a determinare la presenza nell'esposizione di
questo artista. Infatti, grazie a questo endorsement Medici
(1902-1978) all'ultimo momento fu inserito nel Catalogo, così come
una parte degli artisti che vi compaiono con la scheda “redazionale”.
Date certe affinità con Magnelli (v. post 6 luglio 2019), su cui R.
nutriva molte perplessità, penso che mio padre non sia l'autore
della scheda. Anche perciò reputo opportuno ripostare l'unica fonte
allora (e forse
poi) nota sull'artista cioè il
testo che gli dedica il francese André Vertet (1913-2000, artista e
poeta, nonché, aggiungerei, cronista militante) nel Catalogo della
Galleria Santacroce, Firenze 1961. Queste pagine rappresentano la
legend, come ora va di
moda dire, corrente sulla vita di Medici Del Vascello, ma dalle quali
a ben leggere si entra solo fuggevolmente sul merito dell'arte.
Cercando qualche illustrazione su Internet, mi imbatto
su di un libro edito da Aion nel 2008 a cura di Chiara Stefanini con
testo di Marco Fagioli. Constato che la “monografia, la prima
sull'artista, ripercorre gli eventi della sua vita e documenta con
una scelta di opere il percorso esemplare del pittore”. Direi
niente di nuovo, salvo le illustrazioni, riguardo alla considerazione
corrente su questo pittore.
F.R. (6 giugno 2019)
Mi
sento un po' a disagio nel considerare un artista come Messina –
perché tutto sommato lo è – anche se non di livello apicale, come
lui stesso ed altri lo reputavano. Certamente è stato un personaggio
marcante la propria epoca al di là della sua reale impronta
creativa, così come ce ne sono stati sempre e ovunque, spesso
deplorevoli quando non spregevoli persone (il che non è in questo
caso). Va rimarcato anche che costoro soni i protagonisti mediatici
più ricercati e più “gettonati!. Messina, almeno, ebbe amicizia
vera con poeti autentici come Montale e Quasimodo, nonché stima
autentica ed ammirazione da scrittori e critici al di sopra del
sospetto di appartenenza al “generone”.
La
scheda redazionale riguardante Francesco Messina (1900-1995) è stata
scritta da C.L. Ragghianti perché, curiosamente ?, nessun membro
della Commissione aveva chiesto di occuparsene. Comunque la scheda
risulta anche una dimostrazione di come il critico e lo storico
possano, e debbano, essere equanimi nei loro giudizi e nelle
osservazioni sull'operato di un artista. Cioè di come si possa e si
debba prescindere dall'individuo scultore ed analizzare invece
soltanto la qualità delle sue realizzazioni, distinguendo il grano
dal loglio.
Per
la verità ritengo che non sia stato faticoso intellettualmente
riesaminare alcune proprie considerazioni su Messina. Va tenuto
presente, infatti, che Ragghianti stesso ha scritto (nota postuma,
ne “Il caso De Chirico”,
1979, p. 101) in relazione a certi suoi giudizi prebellici perché “
successivamente una cresciuta esperienza e fatti
nuovi mi condussero a modificare alcuni dei profili molto
scorciati che tracciai”. Si ricordino, infatti, il saggio su
“Leonardo” (1936) e quelli sulla II e III Quadriennale di Roma
(1935 e 1939). In questi due ultimi Messina aveva premesso in
catalogo alle proprie opere una dichiarazione (che riportiamo tra i
documenti) alla quale C.L.R. faceva esplicito riferimento nelle
righe che dedica allo scultore nel suo saggio (in “La Critica
d'Arte”, a. IV, n. 1, XIX, pp. 3 e 5) su quella esposizione:
Precoce nell'arte, Messina si è considerato anche poeta di vaglia, tanto da ritenersi non perfettibile nei propri componimenti poetici, mentre come scultore era in itinere. In questa sede oltre alla doverosaIl Messina si preoccupa della propria immutabile coerenza, e si rifà anzitutto a ciò che scriveva quattro anni prima nella stessa occasione: “amo l'ordine”, “combattere le mode e i raffinati estetismi”, “cerco di non disperdere in me le voci del nostro grande passato” nel “creare, credendo nelle nostre virtù e avendo gli occhi spalancati sulla vita, un'arte del nostro tempo, duratura, un'arte fascista”, “credo inoltre, per istinto più che per fatalità storica, ai popoli riscaldati dal sole”.
Messina: che altrove si mostra di una piatta materialità accentuata dalla più futilmente abile finitezza (mi ricorda da vicino l'a suo tempo famoso Cifariello), talora foderata da un furbesco accostamento alla tecnica e alle patine dei bronzi etrusco-romani.
documentazione del periodo fino al
1935, riportiamo anche la scheda della Mostra/Catalogo “Arte in
Italia 1935-1955” nella quale Raffaele De Grada scrive (1992) una
sorta di controcanto a quanto sostenuto da Ragghianti nel 1966,
dimostrandosi “militante” non solo del Partito Comunista. Anche
il periodo 1936-1955 di Messina è illustrato con una documentazione
e così i seguenti quarant'anni di attività, contraddistinti da un
prevalente manierismo con qualche sprazzo di modernità, tra i quali
la ceramica La danzatrice Savignano,
1975, in cui lo scultore insegue una fase precedente (intorno al
1965) del collega Giuliano Vangi. Sulla ideale scia di Rodin, come
altri illustri scultori del Novecento, Messina si è espresso anche
attraverso disegni e litografie, intese nell'accezione di
moltiplicazione tecnica del disegno. Il poligrafo Giorgio Zampa
scrive che si avverte l'importanza della grafica in Messina
“nell'ambito del lavoro dello scultore, della sua funzione di
accostamento, approfondimento, indagine in un'opera che esigeva come
primaria un'altra forma di espressione, e anche della sua ricerca di
autonomia, di soluzioni specifiche, a partire da quelle del colore”
(“Panorama”, 18 luglio 1983). Giovanni Papini fu suo estimatore e
conclude un testo letterario (“Arte Mediterranea”, nov.-dic.
1949) su Messina: “Ho voluto soltanto tracciare come un povero
disegnatore che dispone soltanto della matita delle parole, le linee
essenziali di una vita e di un'anima. Perché dalla vita e dall'anima
nascono le vere opere, anche le sculture vive e nobili del poeta
Francesco Messina”. Comunque ciò che non viene generalmente
rilevato a proposito dei suoi disegni è il perché essi risultino
più liberi, espressivi, e – soprattutto – che i disegni, a
differenza della litografia, di rado sono concepiti in vista di un
esito commerciale.
F.R.
(8 giugno 2019)
Nessun commento:
Posta un commento