Carlo e Licia

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venerdì 6 settembre 2019

Arte Moderna in Italia 1915-1935 - Schede Redazionali, 5. DA MILANO, DE ROCCHI, MARTINELLI, MEDICI DEL VASCELLO, MESSINA.



Giulio Da Milano (1895-1990), longevo artista la cui vita è stata caratterizzata da una encomiabile coerenza stilistica con una pittura “densa, corposa, impregnata di umori romantici nel senso storico del Romanticismo pittorico, ma capace di brusche sintesi eliminanti ogni superfluo, limitata a pochi temi appassionatamente approfonditi....inalteratamente conserva un'impronta inconfondibile. Una pittura che vuole essere, ed è magistralmente, soltanto pittura”. Questo osserva acutamente Marziano Bernardi, storico ed autorevole cronista degli ambienti artistici torinesi dei primi tre quarti
del Novecento. Da Milano personaggio schivo, “solitario e meditativo”, stilisticamente mi pare allievo più vicino a Cesare Ferro che a Giacomo Grosso. Ai viaggi ed agli emotivi soggiorni parigini, alternò da giovane – per evidenti ragioni economiche – il mestiere di grafico a Torino, con attività sia pratica, come mostra la copertina a fianco riprodotta (dal vol. II de Gli adornatori del libro in Italia, 1924, di Cesare Ratta), che di studio teorico con la creazione di ben quattro caratteri di stampa.
F.R. (5 maggio 2019)

Francesco De Rocchi (1902-1978) è generalmente definito dalla critica, che dal 1930 lo inquadra tra i “chiaristi lombardi”, come pittore caratterizzato da un naturalismo lirico-intimista dai toni chiari e delicati che accoglie echi dei postimpressionisti francesi e dell'Ottocento lombardo. Per Sergio Solmi (1969) “Lo svolgersi della sua pittura non offre svolte, pentimenti e sbalzi. Individuato di buon'ora il breve nucleo d'una raccolta e trepida ispirazione, in quella specie di casta e quasi timorosa gentilezza, e come di un religioso candore di fronte alle bellezze naturali, che si esprimono in un impianto grafico d'un delicato rigore, in una gamma di tinte primaverili bianco-rosse-grigio dorato, egli non ha fatto che crescerlo e irrobustirlo, attraverso un mestiere assiduo, non immemore della lezione di qualche primitivo lombardo, ed intento ad una elaborazione puntuale dell'opera, senza mai trascendere in ambiziose risoluzioni 
l'aderenza al primo momento emotivo”. Intendo concludere con una sintesi che coglie il valore pittorico di De Rocchi, quella che il caro amico – umorale e bastian contrario – Alfonso Gatto (1909-1976), il quale, se da un lato si lasciava trasportare da istantanee, clamorose ed ingiustificate collere contro il grande Giorgio Morandi (che, sciagurato, riteneva sopravalutato), d'altro canto su De Rocchi scrive: “ De Rocchi è un pittore che da sé solo si concede la tregua, vive e lavora in questo margine di dolcezza convenuta, nella maniera di un piccolo mondo di madreperla, traslucido e tirato col fiato i cui rapporti son fissi e astrattamente mantenuti per teorie dal più al meno soave, per sfumature e per somiglianze ideali”.
Personalmente trovo ingiustificato che questo valido artista non sia stato inserito nella Mostra/Catalogo “Arte in Italia 1935-1955” del 1992.
F.R. (3 maggio 2019)

Di Onofrio Martinelli oltre alle succinte schede redazionali 1915-1935 (prob. R. Monti) e 1935-1955 (Raffaele De Grada) riporto anche il profilo che ne tracciò Luigi Baldacci – italianista e critico letterario “militante”, non alieno da escursioni, generalmente fini, nell'arte contemporanea – in Novecento in Toscana. Toscani di adozione (1979). Questa testimonianza è quella di un amico membro anch'egli assai attivo nella cerchia “longhiana”, benché non sempre settario. Baldacci è stato anche un notevole collezionista d'arte, specialmente di desolanti e desolati seicentisti e poi di arte africana con una raccolta abbastanza prestigiosa riflesso della sua notevole competenza in materia.
Dei rapporti tra Martinelli e Ragghianti esiste soltanto una breve lettera (datata novembre tra il 1947 e il 1949) nella quale il pittore ringrazia R. di dargli l'opportunità di esporre a Firenze in Palazzo Strozzi. In effetti a “La Strozzina” nel 1948 Martinelli espose una “vetrina” di disegni e nel 1950 di nuovo espose dei dipinti accanto a una “vetrina” dedicata alla moglie, Adriana Pincherle, sorella di Alberto Moravia e pittrice tutt'altro che mediocre.
Nel 1983 a Macerata fu allestita una documentata mostra dei coniugi Martinelli-Pincherle, cui il giornalista, critico letterario ed editor, Giorgio Zampa dedicò una affettuosa recensione che riproduco soprattutto in considerazione del garbo con cui egli descrive questa ovviamente originale però bizzarra coppia, alla quale la vedova (soprannominata a Firenze zia Beffy-Befana) restò diligentemente fedele.
F.R. (6 maggio 2019)

Discendente dell'eroe garibaldino Giacomo Medici (1817-1882), che fu protagonista della mitica difesa di Villa il Vascello – nome che il re congiunse al titolo nobiliare – durante l'assedio della repubblica mazziniana di Roma (1849), non poteva che risultare potenzialmente gradito a Carlo L. Ragghianti questo pittore, in verità non esaltante. Certamente fu l'insistente entusiasmo di Raffaele Monti, segretario generale della Mostra, a determinare la presenza nell'esposizione di questo artista. Infatti, grazie a questo endorsement Medici (1902-1978) all'ultimo momento fu inserito nel Catalogo, così come una parte degli artisti che vi compaiono con la scheda “redazionale”. Date certe affinità con Magnelli (v. post 6 luglio 2019), su cui R. nutriva molte perplessità, penso che mio padre non sia l'autore della scheda. Anche perciò reputo opportuno ripostare l'unica fonte allora (e forse 
poi) nota sull'artista cioè il testo che gli dedica il francese André Vertet (1913-2000, artista e poeta, nonché, aggiungerei, cronista militante) nel Catalogo della Galleria Santacroce, Firenze 1961. Queste pagine rappresentano la legend, come ora va di moda dire, corrente sulla vita di Medici Del Vascello, ma dalle quali a ben leggere si entra solo fuggevolmente sul merito dell'arte.
Cercando qualche illustrazione su Internet, mi imbatto su di un libro edito da Aion nel 2008 a cura di Chiara Stefanini con testo di Marco Fagioli. Constato che la “monografia, la prima sull'artista, ripercorre gli eventi della sua vita e documenta con una scelta di opere il percorso esemplare del pittore”. Direi niente di nuovo, salvo le illustrazioni, riguardo alla considerazione corrente su questo pittore.
F.R. (6 giugno 2019)
Mi sento un po' a disagio nel considerare un artista come Messina – perché tutto sommato lo è – anche se non di livello apicale, come lui stesso ed altri lo reputavano. Certamente è stato un personaggio marcante la propria epoca al di là della sua reale impronta creativa, così come ce ne sono stati sempre e ovunque, spesso deplorevoli quando non spregevoli persone (il che non è in questo caso). Va rimarcato anche che costoro soni i protagonisti mediatici più ricercati e più “gettonati!. Messina, almeno, ebbe amicizia vera con poeti autentici come Montale e Quasimodo, nonché stima autentica ed ammirazione da scrittori e critici al di sopra del sospetto di appartenenza al “generone”.
La scheda redazionale riguardante Francesco Messina (1900-1995) è stata scritta da C.L. Ragghianti perché, curiosamente ?, nessun membro della Commissione aveva chiesto di occuparsene. Comunque la scheda risulta anche una dimostrazione di come il critico e lo storico possano, e debbano, essere equanimi nei loro giudizi e nelle osservazioni sull'operato di un artista. Cioè di come si possa e si debba prescindere dall'individuo scultore ed analizzare invece soltanto la qualità delle sue realizzazioni, distinguendo il grano dal loglio.
Per la verità ritengo che non sia stato faticoso intellettualmente riesaminare alcune proprie considerazioni su Messina. Va tenuto presente, infatti, che Ragghianti stesso ha scritto (nota postuma, ne “Il caso De Chirico”, 1979, p. 101) in relazione a certi suoi giudizi prebellici perché “ successivamente una cresciuta esperienza e fatti nuovi mi condussero a modificare alcuni dei profili molto scorciati che tracciai”. Si ricordino, infatti, il saggio su “Leonardo” (1936) e quelli sulla II e III Quadriennale di Roma (1935 e 1939). In questi due ultimi Messina aveva premesso in catalogo alle proprie opere una dichiarazione (che riportiamo tra i documenti) alla quale C.L.R. faceva esplicito riferimento nelle righe che dedica allo scultore nel suo saggio (in “La Critica d'Arte”, a. IV, n. 1, XIX, pp. 3 e 5) su quella esposizione:

Il Messina si preoccupa della propria immutabile coerenza, e si rifà anzitutto a ciò che scriveva quattro anni prima nella stessa occasione: “amo l'ordine”, “combattere le mode e i raffinati estetismi”, “cerco di non disperdere in me le voci del nostro grande passato” nel “creare, credendo nelle nostre virtù e avendo gli occhi spalancati sulla vita, un'arte del nostro tempo, duratura, un'arte fascista”, “credo inoltre, per istinto più che per fatalità storica, ai popoli riscaldati dal sole”.
Messina: che altrove si mostra di una piatta materialità accentuata dalla più futilmente abile finitezza (mi ricorda da vicino l'a suo tempo famoso Cifariello), talora foderata da un furbesco accostamento alla tecnica e alle patine dei bronzi etrusco-romani.
Precoce nell'arte, Messina si è considerato anche poeta di vaglia, tanto da ritenersi non perfettibile nei propri componimenti poetici, mentre come scultore era in itinere. In questa sede oltre alla doverosa
documentazione del periodo fino al 1935, riportiamo anche la scheda della Mostra/Catalogo “Arte in Italia 1935-1955” nella quale Raffaele De Grada scrive (1992) una sorta di controcanto a quanto sostenuto da Ragghianti nel 1966, dimostrandosi “militante” non solo del Partito Comunista. Anche il periodo 1936-1955 di Messina è illustrato con una documentazione e così i seguenti quarant'anni di attività, contraddistinti da un prevalente manierismo con qualche sprazzo di modernità, tra i quali la ceramica La danzatrice Savignano, 1975, in cui lo scultore insegue una fase precedente (intorno al 1965) del collega Giuliano Vangi. Sulla ideale scia di Rodin, come altri illustri scultori del Novecento, Messina si è espresso anche attraverso disegni e litografie, intese nell'accezione di moltiplicazione tecnica del disegno. Il poligrafo Giorgio Zampa scrive che si avverte l'importanza della grafica in Messina “nell'ambito del lavoro dello scultore, della sua funzione di accostamento, approfondimento, indagine in un'opera che esigeva come primaria un'altra forma di espressione, e anche della sua ricerca di autonomia, di soluzioni specifiche, a partire da quelle del colore” (“Panorama”, 18 luglio 1983). Giovanni Papini fu suo estimatore e conclude un testo letterario (“Arte Mediterranea”, nov.-dic. 1949) su Messina: “Ho voluto soltanto tracciare come un povero disegnatore che dispone soltanto della matita delle parole, le linee essenziali di una vita e di un'anima. Perché dalla vita e dall'anima nascono le vere opere, anche le sculture vive e nobili del poeta Francesco Messina”. Comunque ciò che non viene generalmente rilevato a proposito dei suoi disegni è il perché essi risultino più liberi, espressivi, e – soprattutto – che i disegni, a differenza della litografia, di rado sono concepiti in vista di un esito commerciale.
F.R. (8 giugno 2019)


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