Carlo e Licia

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venerdì 18 gennaio 2019

Grünewald (e Appendice 1969).




Appendice 1


Licia Collobi Ragghianti da "SeleArte", n.64, lug.-ago. 1963, p.48.



Appendice 2 del 1969.


Salvo improbabili scoperte archivistiche e ritrovamenti di opere ignorate, l'attività di Mathis Grünewald permane piuttosto problematica, fermo restando che il suo stile è da considerarsi come quello di tutti i grandi artisti: unico. Ciò nonostante prima di Jacob Burckhardt, cioè fino alla metà dell'800 almeno, gli strepitosi dipinti del complesso dell'altare di Isenheim a Colmar erano attribuiti a Dürer!
Carlo L. Ragghianti su “SeleArte” dedicò all'artista due interventi: Gründerwald disegnatore (n.23, mar.-apr. 1956, p.21,22) e l'articolo d'apertura Grünewald (n.43, sett.-dic. 1959, pp.2-12) che penso mantengono la loro sostanziale validità e valga, quindi, la pena riproporli.
Mi sembra interessante, inoltre, rendere noto il commento che R. fece rispondendo alla lettera di Ettore Camesasca (1922-1995), di cui segue lo stralcio pertinente, simpatica persona che per lecite vie dinastiche lavorava alla Direzione generale della Rizzoli occupandosi in particolare dei “Classici dell'Arte”, celebre ed utile collana editoriale.
Scrive il 12 giugno 1969 Camesasca: “La ringrazio per la segnalazione circa la possibilità di una monografia su Grünewald. Purtroppo uno studio del genere ci è già stato consegnato, e siamo impazziti cercando di dargli un sentore di attendibilità (ma il punto di partenza era talmente basso che disperiamo di esservi riusciti). Quel che è peggio, l'ufficio-vendite del nostro baraccone si rifiuta di accettarlo. In ogni caso, parlerò con il Dottor Lecaldano (ora assente, e il cui ritorno è previsto per la fine di questa settimana o per i primi giorni della prossima), e spero mi crederà se Le dico che sarei felicissimo di poter avere un Grünewald fatto seriamente, e che lo volessero pubblicare.”.
Interessante notare l'accenno a una monografia sull'artista suggerita da Ragghianti (che faceva parte dell'internazionale Comitato di consulenza critica della collana) che però non sarebbe stata scritta da lui.
Siccome non dispongo della lettera cui fa riferimento Camesasca non sono in grado di identificare questa studiosa. Nella risposta C.L.R. (18 giugno 1969) sollecita E.C. circa la stesura della sua collaborazione all'Arte in Italia, editore Casini, di cui allora ero redattore insieme a Gian Lorenzo Mellini. A proposito di Grünewald scrive: “Per il Grünewald, mi meraviglio che non sia apprezzato; penso invece che eserciterebbe su ogni sorta di lettori una profonda suggestione. Veda che cosa può fare, se non è possibile lo comunicherò all'interessata (che invece è persona “pittima” come esattezza informativa.
Da queste righe si evince l'apprezzamento convinto di C.L.R., il quale si ripromette di intervenire verso la studiosa affinché si adegui ai criteri editoriali. “Pittima” significa “persona uggiosa e fastidiosa” e proviene da un'antica usanza – soprattutto genovese – con cui i creditori prezzolavano un tizio perché seguisse continuamente e ovunque i loro debitori.
Il volume su Grünewald fu pubblicato nei “Classici dell'Arte” Rizzoli nell'aprile del 1972, però con Presentazione di Giovanni Testori ed apparati critici e filologici di Piero Bianconi (1899-1984), studioso svizzero che risiedette a Firenze dal 1932 al 1934, dove conobbe molto probabilmente C.L. Ragghianti. Mio padre, infatti, aveva una predilezione per la Svizzera perché libera democrazia confederale, dove si era recato già alcune volte sia per l'ufficiale scopo di studio, sia per lavorare nei Campi di lavoro del Socialista Servizio Civile Internazionale.
Il fatto di avere scelto proprio Grünewald anziché Dürer, per iniziare la riproposta degli studi sui pittori tedeschi dipende dal fatto che per caso ho riscontrato la lettera di Camesasca e che l'incontro mi ha fatto tornare in mente questo studioso atipico, autore di Artisti in bottega dove “vuol riproporre la grande vicenda delle arti con una diversa intenzione accademica...”.
Con costui ebbi a che fare come redattore di Arte in Italia dal 1966 al 1970 e mi piacque fin dal '67 quando inviò in redazione una breve lettera manoscritta indirizzata all'altro redattore, interpellandolo “Gentilissima Signorina Varese”. Lo conobbi di persona nel 1969 in un paio di circostanze nelle quali simpatizzammo per via di amici fiorentini in comune e – forse – soprattutto per la comune passione, confessata con reciproco imbarazzo, di fare pittura come propria esperienza espressiva. Nel secondo incontro prima di congedarsi C. mi disse seriamente che su a Milano aveva bisogno di un redattore con le mie caratteristiche e capacità. A fronte della mia sorpresa insistette invitandomi a pensare alla sua offerta di questo impiego ben retribuito e, stante la prossimità alla Direzione generale, con margini di autonomia e di tempo per i propri interessi. Intercorsero in seguito alcune telefonate e alla fine – errore grandissimo – non accettai (e, come allora usava dire, “chi volta il cul a Milan, volta il cul al pan”).
La ragione principale di questo rifiuto era senz'altro – anche se mi costa riconoscerlo – la mancanza di esperienza e capacità di vita autonoma al di fuori dei comforts domestici. Poi due motivi per me di notevole peso: il primo era la difficoltà in cui si era trovata nostra madre nella gestione domestica dopo il matrimonio ('69) della nostra “governante” Maria Landi, con noi dal 1954 e vice-madre di Anna (1956), con evidenti, pesanti contraccolpi sul suo lavoro e sulla gestione dell'ufficio esterno sempre più affidato alle mie cure. Il secondo motivo, di natura strettamente privata, consisteva nel legame affettivo che da qualche anno avevo con una signora di fatto divisa dal marito ma assieme alla figlia da lui economicamente dipendente, per di più appartenente alla classe operaia, e che proletaria orgogliosa di esserlo, voleva mantenere il nostro rapporto nella discrezione e nel decoro della sua originaria provenienza anarchica. Però quest'offerta di Camesasca di un lavoro “autonomo” mi incoraggiò a pensare di tagliare il cordone ombelicale con la famiglia, pur deciso intimamente di restarle il più prossimo e partecipe possibile. Così accadde che trascorso poco più di un anno – dopo che la mamma si riprese dalla terribile esperienza di essere tecnicamente morta almeno sette volte prima di essere salvata – mi decisi a cercare lavoro esterno.
Sondai un paio di case editrici con cui avevo già avuto a che fare per via di Arte in Italia ed anche la Vallecchi, che preferivo perché editore di “Critica d'Arte” della quale ero già divenuto redattore. Mi rivolsi quindi a Alfredo Righi e a Geno Pampaloni – che mi assicurarono: sì, appena possibile – per essere assunto. Ciò avvenne sei mesi dopo e, come poi seppi per caso e Righi – rosso come un peperone – confermò, non fui chiamato da loro (begli amici di famiglia!) ma per decisione dell'amministratore delegato Guido Ramacciotti, che aveva visto la mia richiesta scritta e al quale avevo fatto buona impressione durante i contatti che ebbi con lui riguardo a “Critica d'Arte” e ad altre proposte editoriali del mio inesauribile babbo.
F.R. (16 novembre 2018)


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