Dopo
l'inefficace e ipocrita soprassalto di indignazione generale e
riprovazione nei confronti degli infami talebani per la distruzione
dei grandiosi Buddha di Baniyan, dal martoriato e bramato Afghanistan
non si sono più avute sui media ordinariamente accessibili notizie
relative alle arti e alla cultura di quel disgraziato paese.
L'Afghanistan per certi versi è una nazione simile all'Italia:
eterna, sostanziale “espressione geografica” governata da
coalizioni che a turno la saccheggiano ed è anche privo di reale
coesione sociale, nonostante la presenza – opprimente e dominante –
di una sola religione. Culla successivamente di civiltà e
interpretazioni artistiche originali e rilevanti espressione delle
popolazioni – alcune autoctone, alcune succedutesi nei secoli nel
controllo del territorio –, il popolo afghano odierno può
conoscere la propria storia artistica e soprattutto (e quasi
certamente meglio) all'estero. Fenomeno che con minore gravità
accade anche per diversi aspetti per le opere d'arte prodotte in
Italia (cito soltanto come esempio la collezione di scultura italiana
più ampia e di omogenea distribuzione temporale la quale si trova a
Londra nel Victoria&Albert Musem); cioè in un paese extra
comunitario che, se continua così la propria deriva nazionalista,
diverrà extraeuropeo.
Queste
considerazioni spiegano il perché della attualità di riproporre una
recensione di Licia Collobi con la quale in “SeleArte” (n.54,
nov.-dic. 1961) la studiosa descrisse i fenomeni salienti di arte
succedutisi in quella regione, prevalentemente di miniature e sculture allora custodite nel Museo Nazionale di Kabul, e oggi faticosamente e parzialmente – sembra – ripristinate. Non è nelle nostre intenzioni essere polemici senza fondamento quindi bisogna evitare deviazioni
antimusulmane (un mondo di quasi 2 miliardi di esseri umani, di cui una frazione infima è riferibile all'Isis o ad
Al Qaida, e molti popoli non sono fanatici ma sono soltanto oppresse
vittime di regimi totalmente non democratici). Da evitare
anche deduzioni improprie dell'apprezzamento per le arti precedenti
la civiltà scaturita dalla predicazione di Maometto. Perciò
il post che succederà a questo sarà la riproposta di un importante
saggio di Georges Marçais
(1876-1962) intitolato La
figura nell'arte musulmana.
Le
arti dell'Asia centromeridionale investono un territorio vastissimo
che va dalla Mongolia alla Turchia e alla Persia, comprendendo le
regioni indiane per cui per certe e molte ragioni l'Afghanistan si
trova geograficamente al centro e ne fa culturalmente parte. Sia
durante il predominio buddhista e fino a quello, più dispersamente
distribuito, islamico si sono verificati fenomeni originali
sostanzialmente se non sempre comuni, certamente correlati. Per
queste considerazioni in questa sede accantoniamo analisi generali e
puntuali che ricorderemo e illustreremo in altre circostanze,
ovviamente legate e motivate dalla creatività artistica. Certamente
parleremo dell' “incredibile” fenomeno dell'arte chiamata del
Gandhara, diffusa in un'area enorme, quasi doppia rispetto a quella
dell'Europa.
F.R.
P.S. Nel 1954 (SeleArte n.11, mar.-apr. p.77), cioè sette anni prima dell'articolo di Licia C.R., Carlo L.R. scrisse la breve nota seguente nella rubrica “notizie dal Mondo” intitolata Sulle orme di Gengis Khan, nella quale ricorda che i Buddha di Bamiyan furono sfigurati già nel XII secolo dagli invasori mongoli.
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