L'attenzione costante dimostrata da Raffaele Monti nei confronti di Oscar Ghiglia ("ispiratore e maestro di Amedeo Modigliani, che lo ricorderà anche negli anni parigini come il più significativo esponente della pittura italiana contemporanea", come enuncia l'Ufficio Stampa Farsetti in occasione dell'Antologica di Prato, 1996) non è dettato soltanto dalla comune labronicità. E' invece il frutto di considerazioni ed osservazioni meditate, quanto appassionate. Oltre alla scheda del Catalogo 1915-1935, Monti intervenne in varie occasioni sull'attività di Ghiglia, e in particolare nel saggio (che riproduciamo) O.G. 1876-1945. Mostra Antologica nel XXX Anniversario della sua scomparsa, 16 nov.-19 dic. 1974, Galleria S. Ambrogio, Milano, poi riproposto in varie occasioni.
Il fatto che Oscar Ghiglia fosse "autodidatta" è annotato da tutta la critica e da Monti, secondo il quale è dal 1901 che l'artista assume una propria connotazione di stile, quando dipinge l'Autoritratto (che è il primo quadro che di lui si conosca "e sappiamo dunque, anche se per via indiretta che l'inizio pittorico di Ghiglia avvenne in un clima abbastanza eccentrico per un giovane livornese".
Il critico, livornese pure lui, insiste poi giustamente che tra gli anni 1908-1911 si hanno "i massimi raggiungimenti del linguaggio di Ghiglia". Altro punto indagato "attraverso Muller, attraverso Soffici, attraverso Canudo, attraverso Sforni" è "la diffusione in Italia e segnatamente a Firenze del verbo cézanniano", nel quale Ghiglia compie "un'improvvisa virata" e quindi "in una scelta del genere si deve scorgere a nostro avviso l'errore di fondo che comprometterà, pur ad alti livelli, tutto il suo successivo itinerario pittorico". Alto livello, appunto: perciò tutto sommato questa infatuazione (che si può considerare un cedimento all'ambiente fiorentino di cui Ghiglia si sentiva e voleva far parte) è contenuta dalla passione con cui il pittore continua ad operare con la propria “castità”, da molti osservatori sottolineata. Monti infatti accenna poi che “ciò non impedisce” a Ghiglia di “dipingere alcune opere di straordinario risalto” tra il 1918 e il 1924.
La consacrazione critica del periodo e del pittore fu conclusa da Raffaele Monti e da Giuliano Matteucci quando richiamano “su questo nodo storico... l'attenzione critica (nell') emozionante e organica mostra Prima dell'Avanguardia … che sta trasferendosi da Aosta a Tolosa, promossa dal Centro Culturale Saint Vincent”, come scrisse Antonello Trombadori (“L'Europeo”, 22 febbraio 1996).
Colpisce, nella fase formativa dell'artista, l'attenzione sul dipinto Riposo (qui il n.1 della sequenza delle pitture), “forse la sua opera più sperimentale ed ardita” (R. Barilli, 1974). Il quadro mostra un'evidente attenzione alla lezione di Vallotton ed una essenzialità stilistica che si riscontra nella Camicia bianca del 1909. Sempre secondo Barilli, in conclusione, “il caso di Ghiglia è pur sempre quello di un Vallotton italiano, portato, più che a violentare le cose del panorama domestico, a tenerle in magica ed asettica sospensione … in una posizione di fuori gioco rispetto agli ardimenti noti successivamente; eppure con tutte le carte in regola se appunto si pensa alla sua partenza relativamente precoce, al fatto che fu tra i primi a inalberare la bandiera della sintesi e a darle un adeguato sviluppo”. Il Riposo e altre opere del periodo mi sembrano
sonanti anticipazioni di certa pop art, anche americana (Katz). L'esegesi del percorso dell'artista si può ben riscontrare negli scritti citati di Monti, mentre risultano di notevole interesse ed utilità almeno due grossi volumi monografici. Il primo, di Paolo Stefani, O.G. e il suo tempo (presentazione di Giorgio Luti), Vallecchi editore, 1985, oltre ai testi critici riporta c. 400 pagine di carteggi epistolari di Ghiglia dal 1904 al 1936 con colleghi, critici ed intellettuali, più 11 carteggi tra amici e critici su Ghiglia, comprese cinque lettere giovanili di Amedeo Modigliani (pp.307-312).
La seconda monografia, edita da Farsettiarte nel 1996, consiste in 350 pp. in 4°, con molte illustrazioni a colori e saggi di Caterina Zappia, Alessandro Marabottini, Patrizia Rosazza Ferraris, Paolo Stivani; quindi il Catalogo dei dipinti a c. di Vittorio Quercioli, A. Marabottini, Lamberto Mani; poi Tavole dei disegni e Catalogo a c. di Leonardo Farsetti; Regesto biografico e bibliografia.
Carlo L. Ragghianti non mi risulta essersi occupato dell'opera di Oscar Ghiglia in particolare, anche perché l'originalità di quest'artista, schivo e poco pubblicizzato, era stata – ai suoi occhi di già residente a Firenze alla fine degli anni Venti, in stretto contatto quotidiano con Eugenio Montale – offuscata dall'ambiente nel quale Ghiglia si collocava nei rapporti artistici e sociali composto di fascisti e fascistoidi. Si tratta di personalità tra cui spiccavano Emilio Cecchi (cui C.L.R. non poté mai perdonare l'invito a diventare fascista perché “non si è mai abbastanza vigliacchi”), Thomas Neal, Plinio Nomellini (Gran Maestro della Massoneria), Ugo Ojetti, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Ardegno Soffici, Mario Tinti.
Oltre ad autentiche “virtù” pittoriche, non tanto caratterizzate da originalità di soggetti quanto da accurato e appassionato studio dei dettagli, il suo breve testo che segue dimostra meticolosità e candore in Ghiglia:
“Non ho fatto in questi giorni altro che studiare, disegnare col pennello nature morte per rendermi conto delle dimensioni che danno forma alle cose: che caos immenso è un fiore a considerarlo così, e quale fatica per approssimarsi appena a rendere un'idea di quel che si vede, di quel che vi è, perché c'è” (1916).
Per concludere: mi ha impressionato nella esistenza sostanzialmente quieta e fattiva di Oscar Ghiglia il suo rapporto con la moglie Isa. Al di là e al di fuori della loro intimità, cosa che non mi riguarda, ho trovato singolare e intrigante che costei risulta essere praticamente l'unica modella del pittore, ripresa in correnti intimità e, prevalentemente, indaffarata nelle faccende domestiche, con ben simulata inconsapevolezza del soggetto. Questi dipinti sono anche tra quelli in cui le volumetrie ricercate di Ghiglia sono risolte come eleganti giochi geometrici. Una vicenda coniugale complessa, nella quale ispirazione e attività creativa si fondono in un comportamento in cui “la dolorosa onestà di Ghiglia dinanzi alla pittura è per lui un tormento ma per noi un'immensa speranza” (Giovanni Papini, Gli Operai della vigna, 1928).
F.R. (2 novembre 2022)
L'opera di Alfredo Muller (1869-1939) si realizza in Francia dopo il 1898, quando l'artista, insieme ad Egisto Fabbri pittore e collezionista, vivrà stabilmente a Parigi per la prima volta. Di poi fino al 1914 (quando, cittadino francese dal 1913, tornerà a Firenze per evitare probabilmente di dover combattere la guerra imminente) si stabilirà nella capitale francese quasi continuativamente. Per questi motivi, Azzurra Conti, biografa di Muller, nota che l'artista "è stato un personaggio rilevante tra la Parigi fin-de-siècle e la Toscana, e per il ruolo esercitato in Italia di interprete e divulgatore dei fenomini artistici d'Oltralpe". In definitiva Muller tornerà agli inizi degli anni Trenta a Parigi, dove morirà d'infarto il 7 febbraio 1939, non nel 1940 come invece data Raffele Monti la sua scheda nel Catalogo 1915-1935.
L'attività pittorica pertinente il periodo indagato dalla Mostra di Palazzo Strozzi si svolge, quindi, sostanzialmente nel nostro Paese, dalla piena maturità dell'artista (1914) al declino dopo i sessant'anni, quando si rarifica anche la qualità del suo lavoro.
Sul piano critico, Muller rappresentò un "cavallo di battaglia" per Raffaele Monti che lo ha studiato e illustrato vita natural durante. Per Carlo L. Ragghianti questo inquieto pittore, proprio perché di fatto artistia di cultura internazionale, rappresentò un problema filologico che svilupperà nel saggio Bologna cruciale 1914 (1969 rivista; 1982 libro), e che qui di seguito riporto integralmente, togliendo soltanto alcune illustrazioni intercalate di altra mano (per altro illustre, trattandosi di Morandi).
Un aspetto meno noto dell'attività di Alfredo Muller è l'esser stato incisiore di opere non di facile reperimento e visione né nelle aste, né in mostre. Invece è di tutto rispetto il corpus grafico eseguito nell'arco di tempo intercorso tra il 1896 e il 1914, cioè tra i 27 e i 45 anni dell'artista. In diciotto anni vissuti a Parigi, Muller esegue altre 200 incisioni – tra acquaforti policrome, puntasecche, litografie e monotipi – di grande qualità espressiva e, soprattutto, con una perizia veramente notevole nell'utilizzo di tecniche complesse. Ne descrive e commenta una parte (65 in catalogo, altre in b/n nel testo) Emanuele Bardazzi nel saggio A.M. un Montmartrois d'adozione, pp. 74-80 del libro A.M. un ineffabile dandy dell'impressionismo, a c. di F. Cagianelli (Edizioni Polistampa, Firenze 2011), realizzato per l'esposizione omonima nei Granai di Villa Mimbelli a Livorno. Purtroppo in questo post non illustreremo le incisioni di Muller che il Bardazzi ha giustamente definito "splendide", perché la grafica non era esposta nella nostra mostra di riferimento nell'intero Palazzo Strozzi di Firenze del 1967.
Quanto alla letteratura critica del periodo su Muller essa è stata abbondante tra i contemporanei, i soliti Ojetti, Sarfatti, Tarchiani, Franchi, ecc., tra i quali qui riproduciamo il testo di Mario Tinti, scritto in occasione del Catalogo della Primaverile Fiorentina del 1922. Notevoli sono stati gli studi di Raffaele Monti per la storicizzazione di Muller, cui contribuiscono anche gli autori del Catalogo della esposizione dei Granai di Villa Mimbelli del 2011, dalla quale riportiamo il risvolto di copertina.
F.R. (16 settembre 2022)
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