Carlo e Licia

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giovedì 15 luglio 2021

Napoleone gatto Ragghianti (1953-1971).

Sono trascorsi 50 anni dalla morte del nostro primo animale domestico accettato nel nucleo familiare. Era un gatto rosso, subdolamente castrato da una gattara della vicina via Giano della Bella, non ancora completamente cresciuto fisicamente quando lo conoscemmo. Prima di entrare nei dettagli, ritengo opportuno riportare quanto si scrivono a proposito della sua morte i genitori Ragghianti. Licia con Rosetta ed Anna era in vacanza nelle Dolomiti, Carlo L. era ancora a Firenze dove stava lavorando al saggio su Giuseppe Gorni pubblicato in “Critica d'Arte”.

Napoleone morì la notte tra il 9 e il 10 luglio, dopo una giornata di sofferenze dovute soprattutto al calore, sopportate con stoicismo degno di un antico, come 

posso testimoniare avendogli assicurato giaciglio al fresco relativo dell'ingresso per l'ex garage e acqua abbondante prima, durante l'intervallo e dopo la giornata lavorativa (una delle prime in Vallecchi, la mia prima occupazione stabile). Anche il babbo lo accudì durante la mia assenza, come relazionato di seguito.

Riporto, per non sprecare parole e scivolare nel sentimentalismo, le righe conclusive della lettera che l'11 luglio 1971 Licia – avvertita per telefono – inviò a Carlo e che descrivono con sintetica efficacia il ruolo in famiglia di questo gatto che non abbiamo mai considerato una bestia.





 

Il 13 luglio il babbo scrive alla mamma una lunga lettera che contiene anche la “cronistoria” del decesso del nostro  

povero gattone, ridotto assai di peso a dire il vero negli ultimi quindici giorni. Riproduco questo testo esauriente e partecipe:





 

Voglio precisare che in precedenza c'era stato un tentativo di adozione felina. Pochi mesi prima, in primavera, di domenica o, comunque, di un giorno festivo Ottone Rosai era venuto a trovare il babbo inaspettatamente. Andatosene, dopo un paio di minuti alla scampanellata decisa rispose la Maria ed io a ruota per vedere chi era: era Rosai, trafelato, che ancora sul portone (abitavamo al piano terreno in viale Petrarca 14) ansimò chiamando la Maria, a cui consegnò un batuffolo nero con queste parole: “L'ho trovato per via, ha fame e bisogno, tenga!”. Voltò le terga andandosene velocemente. Non c'è male per un ex Caimano del Piave!

Il batuffolo nero era un gattino già svezzato subito chiamato Ottone. Durò poco, pochissimo, questa vittima probabilmente della solita nota gattara. Graffiò Giacomo, perfino Rosetta, rubò in cucina, dove si ostinava a salire sul tavolo, non faceva i bisogni nei luoghi deputati subito allestiti dall'esperta Maria Landi, la quale era da noi da poche settimane, se ben ricordo. Mamma, babbo ed io, nonché Bertocci (il nonno materno che dormiva nello stesso edificio della gattara e mangiava da noi) poco confidenti con gli animali, fummo informati dalla Maria, accodata da Rosetta e Giacomo, che quella bestia non era possibile che rimanesse tra noi. Assenso immediato della mamma, che finalmente aveva trovato una collaboratrice domestica più che soddisfacente. Il povero Ottone, vero coglione, fu consegnato alla comunità gattaiola del Conventino di via Giano della Bella e così sia.

Dopo aver rintracciato le poche fotografie sparse tra me, Rosetta ed Anna, penso di distribuire queste immagini tra le schede che ho pensato di alternare per caratterizzare la personalità complessa di Napoleone: descrivere il suo rapporto con ciascuno di noi separatamente. Dato il tempo trascorso temo che tralascerò diversi ed interessante episodi. D'altra parte ciascuno degli altri 

superstiti può e potrà dare il suo contributo sulle nostre vicende napoleoniche. Non sarà comunque un effetto Rashomon perché la personalità evoluta del micio era dignitosamente coerente.

Scordavo: mentre il nome del gatto Ottone non ha bisogno di spiegazioni, quello di Napoleone, volendo, ha un riferimento specifico. Il nome lo indicai io, mentre ancora non era stato deciso: dibattuto, fu sì. Ecco perché mi venne in mente questo nome piuttosto incongruo: avevo appena terminato l'esame di terza media, abbastanza sofferto more solito; in storia, il mio forte scolasticamente, ero stato interrogato su Napoleone Bonaparte, dandone una visione difforme dall'osannato “ei fu”. Che fosse stato era certo, che fosse un grand'uomo, no. Per lo meno non in una accezione etica. Se si considera soltanto il successo, Napoleone era stato come poi Mussolini, Franco, Hitler, Lenin, Stalin: un assassino seriale. Per fortuna all'acida Ademollo (sorella del germanista Vittorio Ned Santoli) mia prof. Inviperita e male intenzionata, si contrappose, come poi raccontò a mia madre, la prof. Elisa Forti di francese (claudicante causa poliomelite, ebrea convertita sinceramente al cattolicesimo), che – bontà sua – mi trovava delle qualità per cui l'interrogazione non degenerò e su input del prof. di disegno (ex partigiano) cavalcai brillantemente assieme a Garibaldi. Tutto ciò per dire che il nome Napoleone mi rimase in testa, perciò lo suggerii perché ridotto ad individuare un animale. Per fortuna la mia iniziale e congenita avversione per il contatto diretto con le bestie fu poi smussata dalla humanitas del gatto.

In conclusione mi sembra necessario precisare che Napoleone – provvisto di tutti i lati misteriosi della propria specie – fu un essere che seppe farsi benvolere unanimente, fatto anche questo forse non straordinario. Quello che trovo eccezionale è che egli è riuscito a lasciare un'impronta davvero profonda e duratura in tutti coloro che condivisero la sua esistenza.






 

Napoleone con Licia Collobi.

Il rapporto con la mamma fu graduale e somigliante ad un vano corteggiamento da parte di Napo. Licia Collobi non amava la compagnia degli animali; niente contro però totale estraneamento. In questo l'unico figlio a somigliarle sono stato io. Napoleone aveva capito che il capo della famiglia era la mamma e aveva accettato d'essere – sia pur con dignità felina – suo subalterno. Se si istallava sul divano non veniva cacciato ma nemmeno accarezzato. Da vecchio (e non è una mia esagerazione) giunse a rivolgerle un miagolio con evidente e chiara assonanza a mamma. I loro rapporti si intensificarono dopo il matrimonio della Maria. La mamma cucinava spesso, e gli elargiva (erudita da Anna 

e Rosetta) il cibo. La mamma quando Napo fu un vecchio declinante e malato era quella che gli faceva le iniezioni, per senso del dovere. (Allora il ricorso a cure e ai pochi veterinari accadeva soltanto per fatti gravi o definitivi). Impresa epica che coinvolgeva Rosetta e me, talvolta il Del Lungo, e, credo, Anna. La resistenza di Napoleone era furibonda, ma senza morsi e unghiate. Persino se Rosetta avesse voluto fargli lei le iniezioni, il gatto si sarebbe opposto più – è il caso di dirlo – ferinamente.

Anche Licia Collobi via via cambiò atteggiamento con Napoleone, tanto che negli ultimi anni gli rivolgeva discorsi – attentamente seguiti – come facevamo noi ragazzi da sempre.





 

Napoleone con Carlo L. Ragghianti

Quando Napo non voleva essere disturbato si rifugiava nello studio del babbo, veramente grande, praticamente due terzi del piano di Villa La Costa. Se la porta vetrata dell'accesso primario era chiusa, picchiettava discretamente sul vetro,il babbo si alzava ed andava ad aprirgli la porta. Cosa del tutto eccezionale, perché in linea di massima si poteva andare a disturbarlo soltanto per telefonate urgenti e importanti o per casi seri e non differibili.

Napo aveva un rapporto rispettoso con colui che aveva capito benissimo essere il capo effettivo non esercitante de La Costa. Si comportava più che come un maggiordomo, come un capocaccia alla volpe pensionato convivente.

Nello studio i luoghi preferiti del gatto erano ai piedi della statua di Manzù, sul divano (non quando c'erano ospiti, allora si posizionava dentro il caminetto in disuso).

Se gli ospiti erano vecchi amici, talora Napo si adagiava sulla poltrona del tavolo da lavoro del babbo. Quando gli esterni erano “rumorosi” come Righi o tonitronanti come Zevi, preferiva allontanarsi fino ai gradini per accedere allo studio ex stalla dei cavalli e della carrozza.

Insomma per C.L.R. Napoleone fu – come scrisse alla mamma - “un buon compagno”.

In vero una marachella la compì, proprio nello studio. D'inverno col freddo e il brutto tempo Napo usciva il meno possibile, perciò capitò che chiuso per errore nello studio del babbo, annoiato esercitò il rito di consumare e pulirele unghie anziché su un troco d'albero sulle costole della legatura di cuoio della preziosa rivista “Les Arts”. Il babbo fu leggermente seccato ma indulgente. Intransigente la Maria che lo rimproverò e gli strusciò (delicatamente) il viso sulle costole lese. Che io sappia, Napo non usò più “farsi” le unghie in casa.


 

Napoleone con Giacomo Ragghianti.

Beh, Giacomo fu lo scopritore di Napoleone, il tramite per cui egli entrò in casa, l'amico con cui giocava.

Avvenne per caso. Ero malato di qualcosa di esantematico che si voleva evitare attaccassi ai fratelli, perciò degente in camera di Rosetta al piano rialzato, finestra su via Minima. (In questi casi mi domando dove dormisse Rosetta, perché certamente non nel mio letto affiancato a quello di Giacomo nell'ipogeo, con oblò che dava sul marciapiede di viale Petrarca). Comunque ero in via di guarigione, leggevo il libro Sette anni nel Tibet, da cui poi è stato tratto il film con Brad Pitt e tutto ciò che veniva scritto sulla conquista dell'Everest,alla fine di maggio 1953, con particolari simpatie per lo sherpa Tenzing, che offrì alla cima i biscotti tibetani propiziatori. Un pomeriggio avvertii la voce di G. dai toni strani non colloquiali: mi affacciai alla finestra e a due metri vidi il ragazzo (7 anni) spaparanzato per terra che giocava con un gattino rosso. Non dissi nulla perché tanto non avrebbe ubbidito; chiamai invece la Maria la quale vide, tacque, uscì dalla stanza, uscì di casa, arrivò sul malcapitato G. lo sollevò da terra e tenendolo per il 


retro del colletto della camicia con una mano lo scotette e lo smanettò per spolverarlo, il tutto rimproverandolo perché lo ricercava da ore. (Si tenga presente che avevamo un giardino vasto con alberi, aiole vasca dei pesci e limonaia per giocare!). Napoleone nel frattempo si era messo seduto eretto sulle zampe e guardava, direi, seraficamente incuriosito. La Maria poi prese la via di casa spingendo G. sempre tenuto ben saldo, giunta all'angolo guardò l'immobile minisfinge. Lo chiamò, quello si mosse e le si accostò, poi la seguì fino entro casa e, quindi, per jus soli – oserei diredivenne così membro della famiglia ospitante.

Crescendo l'intimità tra G. ed N. diminuì anche in maniera vistosa, spostandosi il baricentro verso Anna e Rosetta. Però per almeno un biennio Napoleone a La Costa d'inverno (d'estate stava fuori casa) la notte dormiva nella stanza con Giacomo. Difatti la mattina, avendo il compito di svegliarlo per andare a scuola, li trovavo fraternamente uno accanto all'altro dormienti supini, le braccia l'uno fuori dal lenzuolo, le zampe l'altro. Il bello è che mentre G. sbuffava, N. seraficamente fingeva di continuare a dormire, facendolo poi quando l'altro se n'era andato vestito a lavarsi.



 

Napoleone con Rosetta Ragghianti.

Napoleone era il gatto di tutta la famiglia, i suoi comportamenti erano mediamente uguali con tutti. Per certe peculiarità ed opportunità ci furono rapporti 

circoscritti di singolare affettività con ognuno di noi. Con Rosetta Napoleone sviluppò in progress un sentimento speciale, tale che per certi versi si può dire che Napo era il suo gatto. Niente di eclatante da entrambe le parti, ma evidente. Se Rosetta chiamava, Napoleone trottava.




 

Napoleone con Anna Ragghianti.

Nato tre anni e qualche mese prima di Anna (17 luglio 1956), Napoleone le è stato per un paio d'anni fratello maggiore. Poi per una dozzina d'anni compagno di giochi e vittima, consenziente ma non masochista, della iniziativa di una bambina senza coetanei e poi di una adolescente naturalmente inquieta.

L'episodio più rimarchevole di esercizio fraterno protettivo avvenne quando Anna gattonava ancora però abbastanza grande da poter stare fuori dal lettino a sbarre sia pure sotto sorveglianza. Nella stanza in cui dormiva con la Maria, “Dinda” nel ruolo di tata, fu steso un grande tappeto quadrato, verde bordato da una striscia bianca lunga 15 cm.L'intento era di coprire il pavimento di mattoni crudi ripassati a cera, per consentire alla piccola di muoversi in “libertà”. Avvenne che la Maria dovesse fare qualche urgente faccenda mentre la bimba giocava sul tappeto. Fui chiamato e richiesto di dare una occhiata mentre lei era assente e, poi, scherzosamente disse al Napo “Veh, non farla uscire dal tappeto!”. Dopo un po' di sorveglianza sull'uscio leggendo, andai nell'adiacente bagno per qualche istante. Tornato, vidi Napoleone che a testate respingeva Anna,

che si era spostata verso la porta, verso il centro del tappeto. Non intervenni: anzi immobile aspettai. Dopo un po' Anna ricominciò a gattonare verso l'uscio aperto, Napoleone, che era accucciato dove non mi poteva vedere, riprese a spingere con la testa l'Annina verso il centro del tappeto. Ciò più volte, tanto che ebbi il tempo di andare a chiamare tutti quelli che al momento erano a La Costa. Mamma, Maria e forse Rosetta , perché assistessero a Napoleone nell'esercizio del dovere.

Non so come e perché, ma sono sicuro che il nostro gatto avesse capito l'intenzione dell'ordine della Maria. Comunque l'episodio si ripeté anche successivamente finché Anna capì l'antifona e casomai si limitava a ruzzare con il “fratello”, allora suo maggiore.

Nella lettera alla mamma il babbo scrive che io gli dissi che dopo la morte del micio Anna avrebbe “già virtualmente sostituito Napoleone”. Non fu cinismo da parte mia, soltanto il ricordo ancora vivo che all'età di quindici anni si è sopraffatti dall'esistenza e con la testa arrovellata e che, di conseguenza, alcune emotività non diventavano tragedie stante la “tragica visione dell'esistenza” generale in corso di vicissitudine.




   

Napoleone con Francesco Ragghianti.

Dall'indifferenza senza ostilità, progressivamente alla confidenza tra vecchi compagni. Questo il mio rapporto con Napoleone.

Nella mia camera studio, prima nell'ala nord-est, poi nella camera ex nonno Berto, capitava di rado, entrava, salutava con un miagolio cordiale, se ne andava. Per lui c'era troppo disordine, troppi libri, carte, talvolta troppo odore di trementina, se dipingevo. Però una controllatina si sentiva in dovere di farla.

Il nostro feeling derivò dal rimanere quasi tutte le estati soli in villa per periodi lunghi (da 15 giorni a un mese e mezzo). Certi giorni c'erano alternativamente Pina e Armida, anche Maria prima delle sue ferie, però la sera eravamo soli. Se leggevo mi faceva assistenza da un punto fresco, se guardavo la TV si sedeva sulla chaise-longue accanto alla mia, vedevamo e parlavamo. Cioè io parlavo, lui ascoltava attento anche a lungo, senza interrompere.

Napoleone è stato l'essere vivente cui mi sono di più confidato, il depositario di tutte le mie aspirazioni, dei progetti, delle paure. E' stato il testimone complice di tutto quanto mi ha riguardato durante la nostra convivenza. 

Partecipe ma muto come una tomba. Se avessi avuto “segreti” li avrebbe custoditi per sempre.

Sul piano dell'aneddoto non posso non ricordare una invereconda passione di Napoleone da me del tutto casualmente scatenata. Nei nostri periodi di solitudine estiva a La Costa, spesso la sera – quando sia Maria che Pina erano in ferie – cucinavo, talvolta anche per un paio di giorni, ogni tanto invece una scatoletta, verdure, cereali e frutta. Accadde una sera d'esser sguarnito sia per Napo che per me, quindi di mettergli nel suo piattino un po' del mio Pink Salmon. Quando lo chiamai per il pasto, arrivò con flemmatica andatura perché col caldo spesso era un po' disappetente. Sentì l'odore sconosciuto: si precipitò sul piattino e divorò la razione col sughetto in un attimo. Eccitato, poi, chiese il “repete” come dicevano in Istria. Gli diedi più di metà della mia porzione: spolverata. Poi un po' di Simmenthal, che avevo aperto per me in sostituzione del salmone. Non la degnò di uno sguardo. Dopo un po', capito che non c'era più “trippa per gatti” – che gli piaceva molto – come dicono a Firenze, se ne andò tronfio ad aspettarmi in camera da pranzo per la solita TV del dopo cena.

Da allora per far festa o premiarlo, sempre Pink Salmon.




 

Napoleone con Maria Landi.

Se Licia Collobi era il capo della famiglia, per Napoleone Maria Landi (1925) era il capo di Stato Maggiore, la Resdaura anche per lui.

Era lei che quasi sempre (salvo il giovedi e la domenica sera) ammanniva il cibo, elargiva l'acqua, cambiava la cassetta per i bisogni (sempre osservata e coperta accuratamente). Lo spettacolo era vederlo impazzire di bramosia mentre la M. tagliava grasselli, nervetti ecc. dalle carni sul tagliere messo sul lavello e via via gli dava gli scarti (a volte ben circondati!) che Napo prendeva al volo. Però mai che tentasse di saltare sul lavello o sul tavolo di cucina e da pranzo (dove si sospetta che almeno tre membri della famiglia gli passassero bocconi prelibati furtivamente).

Altro rito, raro perché Napo era sempre pulitissimo e nonostante il colore rosso inodore, era il bagno, che si concludeva nell'ultima sciacquata nella vasca dei pesci rossi. Però nel frattempo era lotta estenuante e furibonda – senza un graffio né un morso – che si svolgeva nello spazio antistante la cucina, dotato di lavello e rubinetto autonomo con canna di gomma e la detta vasca nel giardino, laterale e a una decina di metri.

Il fatto più notevole e importante del suo rapporto nei nostri confronti fu l'arrivo “trionfale” di Napo a La Costa dall'ingresso su via Dazzi, sbucando fiero e nel suo piccolo ruggente sopra gli ultimi colli nella 500 giardiniera guidata dal figlio del contadino con accanto seduta la Maria. Era l'ultimo viaggio da viale Petrarca, con le ultime cose portate nella nuova abitazione. Noi ragazzi 13, 10, 7 anni eravamo frastornati, incuriositi, stanchi e distratti dalle troppe cose nuove ( 2 ettari, una villa, polli, conigli, serre e anche persone: la famiglia dei contadini con la loro casa indipendente): ci eravamo lì per lì scordati del gatto. O almeno distratti dalla sua assenza. Invece durante il trasloco il gatto impaurito dagli estranei, sconvolto dal tramestio tra le sue cose, si era rifugiato in giardino forse nella vasta limonaia. La Maria – si seppe poi – lo aveva cercato già al penultimo suo viaggio, all'ultimo girò per il 

giardino chiamandolo a gran voce: Napo sbucò da una siepe, lo prese in collo, lo chiuse un macchina senza legami. Così lo portò via , lui miagolò un po' d'angoscia per la semovente rumorosa novità, però non disturbò il guidatore (sconosciuto) né la Maria seduta al fianco di costui. Se ne stette rintanato tra il collettame.

Però sul fare della sera (lunga d'estate), ognuno per sé ci accorgemmo di essere mancanti di qualcosa, finalmente – non ricordo chi – disse: “E Napo?”. Babbo e mamma erano sopraffatti e non era il caso di disturbarli, la Maria non c'era... Però per l'istinto della speranza ci eravamo tutti e tre ognuno per sé spinti verso il cancello con muta attesa. Via Dazzi non era ancora asfaltata, era uno schifo di pietre aguzze, le rarissime auto arrancavano. Sentimmo avvicinarsi un motore rumoroso e comparve sullo specchio del cancello spalancato l'auto grigia, abbagliata dal sole calante, poi la fiera sagoma rossa con occhi di brace (per via del sole) si impose all'attenzione: unanime fu l'urlo “Napoleone!”

E ancora per diciassette anni egli fu con noi, tra noi amico, discreto e indispensabile membro della famiglia .

Debbo ricordare che il matrimonio della Maria con Primo Fedi (fine 1968) fu per tutti noi un duro colpo, duplice: affettivo e pratico, per via dello sconquasso derivante dalla sua assenza dopo 14 anni dalla cucina all'organizzazione dei servizi, ai disagi di tanti punti di riferimento abituali. Per Napoleone, in particolare, fu una catastrofe, un lutto tragico per diverso tempo perché fu vittima degli stessi inconvenienti non potendo però capire la causa lieta, ma subendone in toto la portata. Dopo una decina di giorni cominciò ad accettare la supplenza della Pina Giovannini, con la quale aveva confidenza già da una dozzina d'anni perché fino ad allora cameriera e guardarobiera. Con la mamma e il babbo – e me , talvolta – quali sostituti festivi serali in cucina della Maria non ci furono particolari problemi. Fu commovente vedere, per diverso tempo, il micione la sera e la matina, seduto o sdraiato sullo zerbino, davanti all'uscio della camera che fu della Maria, aspettando … Godot.





 

Napoleone con Giovanni Francovich.

Giovanni Francovich (1941-1965), perito in un tragico incidente d'auto per involontaria mano amica, è stato uno straordinario compagno di tutta la nostra famiglia. Popolarissimo: il suo funerale sembrò quello di uno statista amato, con sfilata di migliaia di giovani e non, da piazza della Libertà al Rettorato di piazza San Marco.

Napoleone lo accettò immediatamente e quando Giovanni c'era – molto spesso – preferiva stare con lui e me sia in casa che passeggiando nel campo e discutendo (Napo si comportava come uno studente, camminava a lato con l'aria di apprezzare la nostra conversazione). Tutto bene finché Giovanni non si infatuò per la caccia. Il fucile indignò Napo 

con miagolii di protesta verso l'attrezzo in disarmo. Poi accettò lo stato di fatto, fino al punto di venire con noi mentre Giovanni cercava, puntava e tirava a qualche povero uccello. Dopo 2-3 volte nemmeno un sobbalzo allo sparo. Però quando Giovanni, fresco di propria 500, capitò con la sua nuova e adorata cagna pointer Mea, Napoleone non perdonò: dignitosamente spariva ed evitava per giorni la zona del termosifone dove il cane, al guinzaglio, si adagiava. Finché quello sciagurato animale visse (morì sotto un'auto sul viale che porta a piazzale Michelangelo) non si fece più vedere da Giovanni, il quale se non altro non sparava più perché la Mea era letteralmente terrorizzata dai colpi di fucile. Allora il micione degnò nuovamente Giovanni della sua considerazione. 





 

Napoleone con Pina Giovannini.

Dopo una diffidenza iniziale, Napoleone accettò la presenza, poi si affezionò anche a Pina Giovannini. Raccomandata dal “Sindaco” di via della Quiete, tal Ferroni fiorista esperto, più che concorrente dei nostri contadini e degli altri coltivatori di fiori della zona, loro capo carismatico (ragion per cui la mamma lo soprannominò con tale epiteto), questa trentenne (1925) con esperienza di cameriera nella famiglia Donzelli – importante in zona – venne assunta come collaboratrice e complemento di Maria Landi, dopo alcune veloci esperienze negative.


Napoleone con Alberto Collobi.

Rapporti praticamente inesistenti col nonno materno, con noi da Napoli fin dal pensionamento e dopo la morte della seconda moglie, la carissima zia Rachele. A La Costa (già Il Gioiello), dove diresse i lavori di adattamento e l'installazione del riscaldamento con i termosifoni, godeva al 1° piano di una grande stanza con bagnetto, con ingresso 

La Pina lo trattava alla pari, anche con lui si confidava, non perché fosse persona di poco spirito ma perché era una macchina produttrice di parole, inarrestabile. Dopo l'addio della Maria, quando divenne “resdaura f.f.”, Napoleone si sentì ancor più di sempre il padrone della cucina e dintorni aumentando la quantità e la durata della propria presenza.

La Pina, che si scoprì poi essere cugina del nostro amico fedele factotum per oltre trent'anni Paolo Del Lungo, pianse vere lacrime sulla sepoltura di Napoleone, che spesso poi curava, avendo un singolare culto dei morti, per il quale nei giorni novembrini omaggiava tutti i cimiteri di Firenze.


sulle scale, donde una quasi assoluta libertà. Già possessore di cani (a Napoli ne teneva uno a protezione degli altri “amici! - io li odio – dell'uomo) spregiava il gatto il quale lo ricambiava con signorile, solenne indifferenza, ut non esse.

Finché non sono subentrato io in quella stanza dopo la morte del nonno (1961), Napo non ha mai messo piede in quel locale.




 

 

Napoleone con Armida Piccini.

L' Armida, comunemente Armidina, era una vedova del '15-'18, con due figli, per sopravvivere fu perpetua del parroco di Quarto fino al pensionamento, quindi – bisognosa – trovò occupazione presso di noi per i lavori di fatica (i primi tempi non c'era la lavatrice e il bucato veniva fatto all'aperto in una apposita vasca nell'aia), era anche assistente sostituta della seconda domestica. Donna più che provata dalle disgrazie ne era stata devastata; a poco più di cinquant'anni ne mostrava settanta mal portati, non aveva nemmeno un dente (“rodeva” non masticava). Fu con noi anche quando il benessere delle macchine (lavabiancheria e lavapiatti) resero praticamente superfluo il suo contributo. Restò con noi fino alla morte, avvenuta qualche tempo dopo quella di Napoleone (1971). 

Proveniva da una situazione antropologicamente così arretrata che quando il telefono suonava e nessuno rispondeva ne era terrorizzata, non solo osando toccarlo ma avvertendo a gola spiegata che c'era il “tilèfano”!. Con Napoleone, che la rispettava, aveva l'atteggiamento simile a quello verso i figli dei “padroni”. Almeno però non lo chiamava “signorino” come faceva con me e Giacomo, presumo.

La mamma, che sapeva cos'è la sofferenza, rispettava quella degli altri e la loro difficoltà di vita, non volle darle mai il benservito. Ragion per cui la raggobbita Armidina gli ultimi anni veniva a mangiare bene e abbondante (come sempre da noi) lavorando di meno di quel che avrebbe dovuto fare a casa propria.





   

Napoleone con i primi coloni.

I vecchi contadini che ereditammo con l'acquisto de La Costa erano due chiantigiani laboriosi, taciturni e perbene. Tenevano “Il Gioiello”, come era chiamato il terreno, tale e quale il giardino dell' Eden, coltivando soprattutto fiori pregiati. Avevano però due figli maschi: uno operaio usciva la mattina presto, tornava la sera tardi, l'altro – purtroppo – aveva sposato un donnone protervo, ambizioso ed invidioso che avendo prole non poté sopportare la presenza di Anna, manifestandolo in modo inequivocabile con mille sotterfugi e sgarbi sorridenti. Cacciarla voleva dire, fu subito chiaro, mandar via anche i meticolosi e preziosi (la nostra parte dei fiori era una cifra!) vecchi genitori.

Napoleone fu la goccia che fece traboccare il vaso, decidere mia madre e mio padre a rompere il contratto per loro inadempimenti, fare infuriare la Maria Landi che dovetti abbracciare perché non rompesse sulla testa di quella carogna di donna il matterello che aveva imbracciato.

Napoleone un giorno estivo non tornò al mattino a reclamare i suoi diritti alimentari abituali. Strano. Dopo tre, poi quattro e finalmente non ricordo se otto o nove giorni il poverino ricomparve zoppicante vistosamente ed  



abbacchiato. Ovviamente ogni curiosità fu inutile. Nel giro di qualche altro giorno il micio sembrò riprendersi bene. La Maria lo tastò e fu appurato che aveva ricevuto una botta fortissima sul fianco. Fu chiaro anche che dopo evitava come la peste l'aia, dove affacciava la colonica, e la zona dei pollai ecc. Quindi i primi sospetti. Poi un pomeriggio, presenti dei vicini con la Fedora Bargiacchi per acquisto di fiori da portare all'adiacente cimitero, la Maria andò ad accusare il donnone di aver picchiato Napoleone. Quella stupida sciagurata, per chissà quale orgoglio animalesco, invece di negare cominciò ad urlare vantandosi spudoratamente nel suo odio verso di noi venuti a rompere “i coglioni” e quello stronzo di gatto che si credeva un principino.

Disarmata la Maria le dissi di lasciar correre perché c'erano dei testimoni, amici certi per lo più, e che quindi l'idiota la zappa ( già era stato con la zappa, si vantò, che aveva colpito il Napo) se l'era data sui propri piedi, finalmente.

Infatti bastò una lettera circostanziata dell'Avvocato (già Ducci, se non erro) perché quei disgraziati accettassero di sgomberare immediatamente, senza nessun compenso salvo quelli strettamente legati alla comproprietà degli attrezzi agricoli.


Napoleone con gli Strambi.

I contadini vicini (200m.) all'angolo con lo stretto sentiero che portava da via Dazzi a via di Terzolle, Ottanelli, ci indicarono la disponibilità di un loro parente di Marcialla a sostituire i coloni cacciati per le grosse lesioni al nostro gatto (ed altre faccende, naturalmente). Si chiamavano Strambi, lui Mario, lei Maria, con una figlia piccola divenuta cieca per una infezione oculare. Degli Strambi, bravissime persone, scriverò – spero – a parte.

Il loro rapporto nei confronti di Napoleone fu non solo di accettazione, ma quasi di subordinazione, in quanto derivazione della “sora” padrona (mia madre), che lo Strambi idolatrava anche negli anni precedenti la segnalazione della figlia cieca alla Società Autostrade 

(tramite il figlio maggiore degli amici Pecorella) per l'assunzione come telefonista. Lei pure era contenta di passare ogni mese del tempo a controllare i conti con Mario Strambi , perché il personaggio era di una naivitudine coinvolgente.

Persino la loro gatta Stellina chiantigiana robusta e assai felina, accettava la supremazia territoriale di Napo, nonostante fosse castrato. Il dolore di Mario per la morte di Napo fu sincero e lo ricordò commosso raccontando che la mattina presto (le 4 0 le 5) quando lui e Maria zappavano il terreno per piantare o per recuperare i bulbi degli “Impero” Napoleone saliva su un albero, si distendeva su un ramo e li osservava per ore compunto, secondo lui assenziente la qualità del loro lavoro.

Napoleone con se stesso.

Da randagio di via Minima a vassallo dei due ettari scarsi di Villa La Costa, non aspirò a farsi imperatore, apprezzò la buona sorte e cottraccambiò l'ospitalità e l'affetto con adesione – non estraniante – alla vita di coloro cui si era sinceramente affezionato.

Credo non abbia mai visto un veterinario, castrato illegalmente non fu vaccinato; nonostante il grave attentato alla sua vita riuscì a vivere serenamente senza malanni fino quasi al termine della propria esistenza.

Intelligente, di indole gentile e curiosa accettava la presenza di estranei e di amici e conoscenti della famiglia. Indifferente con postini e consegna pacchi, festoso con fornitori come il macellaio o Sandrone (bere, tabacco, frutta e ortaggi). Fu cacciatore di topi efficace e discreto, esploratore di terre anche lontane (fu avvistato nei pressi del CTO, sul Terzolle, nei pressi di piazza Dalmazia, tornò sempre sereno, pulito senza un graffio.

Certamente ben inserito nella socialità felina, fu disturbato soltanto una volta da un gatto pazzo e inferocito omoserssuale che lo inseguì (assieme ad un altro castrato) da non si sa dove fino in casa dove piombarono in cucina 

socchiusa fino in camera da pranzo (dove di pomeriggio io e Giovanni Francovich guardavamo in TV non ricordo che sport). Lì l'amico ed io armati di sedie riuscimmo a cacciare l'ossesso fuori dalla porta-finestra socchiusa. Napo, indenne, accompagnò poi il compare (brutto e ancora spaventato) fino al cancello, proprio fin lì, e se ne tornò con noi a vedere la TV, in collo a Giovanni.

Alle ore dei pasti era sempre presente alternandosi con la cucina e sala da pranzo, anche se c'era ospite Alvar Aalto, o Zeffirelli con l' attore Richard Burton (tanto per fare due esempi). Dignitoso, e già sazio, non chiedeva o interferiva, partecipava al rito umano, notandone – presumo – irritualità, differenze ecc.

Le sofferenze e la precarietà della sua prima giovinezza furono evidentemente lenite da noi Ragghianti e conviventi. Ebbe di sé sempre alta considerazione, come tutti i gatti. Si distinse però per la partecipazione attiva e costante alle nostre vicende con comportamenti credo insoliti perché distingueva tra il nostro stato di salute e di umore, non trascurandoci ma adeguando la sua presenza. Fu sempre, insomma, un patto di convivenza rispettato da entrambe le parti, con reciproca soddisfazione.


P.S. - Dopo Napoleone, Rosetta, passati alcuni anni, ha adottato via via due gatte a lei affezionate, a noi pressoché indifferenti. Dopo la morte dell'ultima, per cancro simil-aids preso in un focolaio nei dintorni della Petraia, restammo alcuni anni senza gatti. Una volta morti i genitori, sposata l'Anna, vidi che a Rosetta mancava di affettività il vivere soltanto in due nei 3/4 di Villa La Costa. Avendo lei una collega fanatica animalista, decidemmo di fare una visita al gattile contiguo all'aereoporto di Firenze. A vero dire una esperienza assai triste, sconfortante, anche se quelle povere bestie sembravano una caricatura di Mathausen. Comunque andò bene, soprattutto per il fortunato prescelto. In una grande gabbia con al centro un albero molto diramato, spoglio – era autunno – sul ramo più alto c'era un micione rosso (come Napoleone, soltanto di minor intensa tonalità) che sembrava guardare con interesse la pista di atterraggio degli aerei, mentre a terra la calca di gatti affamati o in cerca della nostra attenzione miagolava in tutte le declinazioni possibili.

Quello dell'albero, prescelto unanimamente, fu Barone, nome dato per evidenziare la signorile distinzione dalla massa ululante.

Barone visse con Rosetta e me a La Costa fino al 1999, quindi ci seguì a Vicchio. Qui si adattò subito: giardini pubblici ampi, nonché giardino nostro, fiume non distante, poco più del Terzolle da casa nostra a Firenze. E poi la casa grande, con libri, divano ecc. ecc. come a Firenze. 



Nonostante Barone fosse abituato alla strada trafficata, perì sul Viale Beato Angelico, fu falciato (morto sul colpo, con la coda staccata dal corpo). Ciò avvenne più che altro, ritengo, perché preso di mira da uno dei tanti mascalzoni che guidano l'auto anche a scopi omicidi nei confronti di cani e gatti, istrici, ecc.

Affranti, decidemmo però di non adottare più animali perché la vecchiaia incalzante era antitetica alle insidie scherzose feline, soprattutto sulle scale, qui numerose oltretutto.

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