Capita, a
chi ha quasi ottanta anni ed è ancora un apprendista in un ramo
specifico della propria attività professionale ultracinquantennale
poco e marginalmente praticato, di accorgersi che un determinato
lavoro “gl'è tutto da rifare”. Così diceva spesso Ginettaccio
Bartali, alla cui ruota (nel 1953 giovane sì ma ciclisticamente
preparato) mi accodavo accompagnandolo quando verso le 15 passava –
puntuale come Kant a Koenigsberg – quasi tutti i giorni d'inverno e
di primavera. Ero un gregario volontario non sgradito da Porta Romana
a Piazzale Galilei, al Ponte dopo Viale Michelangelo e per qualche
altro chilometro del suo quotidiano allenamento. Era gentile, qualche
volta ammiccava sorridendo, non era infastidito anzi si divertiva a
fare brevi scatti e a farsi poi raggiungere, sia che fossi solo o che
mi aggregassi ad altri, a volte cinque o sei giovani ciclisti,
qualcuno anche con una maglia di squadra dilettanti. A un certo
punto, variabile, ma fuori città faceva uno scatto deciso ci
distanziava, spariva. Poi cambiammo casa e da Viale Petrarca 14
andammo ad abitare alle “antipodi”, alle prime pendici del Monte
Morello. Negli anni Cinquanta il mondo era davvero profondamente
differente nei rapporti sociali, ancora molto classisti da un lato ma
nel quale si poteva concomitare con un “Divo” (e Bartali era come
oggi un Messi, un Clooney, un...politico importante) che se anche
democristiano in terre comuniste girava da solo, senza subalterni,
tanto meno bodyguards armate.
Nella
fattispecie è da “rifare” questo post Ragghianti-Baltrusaitis
– Appendici, perché ho rinvenuto altre due recensioni –
oltre quella che costituiva questa appendice all'inizio – di
Ragghianti all'opera dello storico lituano. Quindi, salvo ulteriori
ritrovamenti, questi tre scritti concludono la documentazione dei
rapporti intercorsi tra mio padre e Baltrusaitis. Ricordo e rimando,
comunque, a quanto già postato: Anamorfosi (14 maggio 2017),
Una corrispondenza R.-B. (11 giugno 2017).
Il primo
testo, come gli altri due, è stato pubblicato in “SeleArte”
(n.42, lug.-ago. 1959, p.50) ed è la recensione a Le Moyen-Âge
Fantastique, dove definisce il libro “un capitolo importante
per la storia reale della cultura del Medioevo artistico”, quindi
R. conclude l'analisi sottolineando ancora una volta l'importanza
della profonda ricerca che “è perciò fondamentale per una più
aderente conoscenza del tardo Medioevo occidentale”.
Il secondo
intervento verte sul volume Réveils et prodiges. Le gothique
fantastique (1960) nel quale “si tratta di un vivace rimbalzo
che prosegue nei trattati scientifici, nelle favole, nell'emblematica
europea...e che stabilisce le basi di tutta la teratologia moderna”.
Fu pubblicato in “SeleArte” (n.51, mag.-giu. Del 1961, pp.
35-38). Qualche
giorno fa, circa due settimane dopo la prima stesura di questo post,
del tutto casualmente ho rinvenuto in “Critica d'Arte” (n.44,
mar.-apr. 1961) un'altra recensione di La Gothique fantastique.
Réveils et prodiges di Jurgis Baltrusaitis. Lì per lì ho
ritenuto che si trattasse di quella pubblicata su “SeleArte”
(n.51, mag.-giu. 1961) stante l'identico argomento. Poi il dubbio
(benedetto Cartesio! è proprio vero che senza di esso non ci sarebbe
pensiero, non solo quello originale, ma nemmeno quello sufficiente ad
essere mammiferi differenti dai gatti o dalle balene, cioè di avere
anche pensieri non strettamente legati alla necessità primordiali);
quindi – dopo la doverosa verifica – ho constatato che si tratta di un testo siglato L.C.R.
(cioè Licia) e non C.L.R. (cioè Carlo). Premetto,
naturalmente, che anche questo scritto di mia madre viene riportato,
assieme a quelli in precedenza citati, nella sua integrità
soprattutto perché ad una lettura puntuale, redazionale dei due
testi si è constatato che in realtà si tratta dell' “archetipo”
rivisitato e in parte riscritto per “SeleArte”. Detto tra
parentesi, risiamo ad una “smarronata” della Bibliografia
degli scritti, la quale attribuisce a Carlo solamente una
collaborazione con Licia, se non addirittura le due versioni scritte
dalla Collobi.
Avanzo
l'ipotesi che Licia abbia, constatato lo spessore dell'argomento,
assegnato la sua prima recensione alla “Critica” di cui era
redattrice unica, consegnandolo con l'incarico di sottoporla al
direttore (Carlo) all'allievo di lui che in quel tempo fungeva –
retribuito – da segretario di redazione. Ciò per qualche motivo
non avvenne – e non mi meraviglio ricordando la stizzosa albagia e
l'assenteismo del tipetto – e perciò la recensione fu dal Proto della Vallecchi (un simpatico uomo di mezza età. autodidatta, che mi pare si chiamasse Mecacci) impaginata nell'apposita rubrica “Biblioteca”.
E' probabile
se non evidente, infine, che la concomitanza delle uscite delle
riviste fece sì che alla fin fine la decisione di come operare su
“SeleArte” fu presa dopo cena quando allora – nel 1961 non
avevamo la tv –, il babbo era a Firenze e i coniugi giocavano a
canasta (partite durate anche diversi giorni con punteggi
stratosferici) e contemporaneamente soprattutto conversavano, si
scambiavano opinioni, confidenze e facevano progetti in relax.
Così i miei genitori – che qualche volta tornando a casa dopo
mezzanotte trovavo ancora seduti al tavolo da pranzo – affrontavano
e risolvevano questioni domestiche e di lavoro, nonché talvolta
problemi sociali e politici di principio, che altrimenti non
avrebbero chiarito, date le intensissime loro vite quotidiane in quel
periodo.
Di
conseguenza l'effettiva attribuzione di questo o di altri scritti ad
uno dei coniugi Ragghianti ha scarsa rilevanza, anche se per i
filologi questi accertamenti sono stimolanti. Però, riguardo i miei genitori, voglio ancora una volta sottolineare che i loro scritti in molte
occasioni risultano simbiotici, pur nella radicata – meno male! – univocità delle singole personalità, per impostazione, per stile,
ecc.
L'ultima
recensione sulla prolifica ricerca del Baltrusaitis, La Quête
d'Isis (1967) sarà esaminata sempre in “SeleArte”, ma quando
essa è già divenuta una rubrica di “Critica d'Arte” (n.110,
1970) sempre redatta da Licia Collobi con la occasionale
collaborazione del marito, come in questo caso. Il libro si
configura sviluppando le tematiche indicate nei sottotitoli, Saggio sulla leggenda di un mito;
Introduzione all'Egittomania. Constatato che “la leggenda
del mito...è simile ad una aberrazione, che dà origine ad una
leggenda delle forme; ed è parallela alla depravazione ottica che si
suole chiamare anamorfosi”, Ragghianti conclude che il libro del
Baltrusaitis è: “quasi la terza tavola di un polittico, consacrato
alle prospettive falsate che rivelano delle verità metafisiche”.
A questo
punto voglio credere che sui rapporti dei Ragghianti col Baltrusaitis
non esistano ulteriori documenti. Voglio anche credere che lo
studioso lituano, contagiato fino all'immedesimazione, da un medioevo
fantastico di risvegli e prodigi, non si sia trasformato nello
spirito di un Elfo dispettoso.
F.R.
(6.1.2018)
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