Come
accennato nel precedente post di questa serie (Arredamento storico,
1. La casa italiana nei secoli, pubblicato il 21 Novembre
2017) nel 1950 Licia Collobi fu incaricata di progettare e curare una
delle mostre attuate nell'ambito della “Nona Triennale di Milano”
e di scriverne il relativo catalogo, impaginato da Bruno Munari, con
un bellissimo allestimento (che non possiamo documentare, ma forse
reperibile nell'Archivio dell'architetto) di Ignazio Gardella.
Questa
importante documentazione storica fu approntata anche per
sottolineare, con alte esemplificazioni, la significativa discendenza
del nascente, impetuoso design italiano di mobilio,
un'industria diffusa in gran parte del territorio nazionale che
intendeva affermarsi come protagonista internazionale della rinascita
postbellica.
La rilevanza
di questa originale ricerca fu avvertita da Vittorio Fagone che la
volle ristampare “anastaticamente” come fascicolo speciale (n.7,
lug.-dic. 2005) di “LUK”, rivista e notiziario semestrale della
Fondazione Centro Studi sull'Arte di Licia e Carlo L. Ragghianti di
Lucca. Quale direttore della Fondazione, Fagone presentò il libro
con la Nota Editoriale che segue:
Di fatto questa nota di Fagone rappresenta la vera e propria introduzione al volume, giacché la sconsiderata (così nell'Indice è definita Introduzione) titolazione dello scritto del sopra citato Francois Burkhardt non è certamente tale. Anzi lì collocato il testo viene a configurarsi come un indecente insulto a mia madre. Costui, infatti, dedica in tutto al libro le quattro righe seguenti: “La riedizione a cura della Fondazione Ragghianti del catalogo della mostra La sedia italiana nei secoli mi coinvolge in quanto incaricato di completare questa panoramica collocando questa tematica nella prospettiva internazionale attuale attraverso alcuni aspetti di ordine storiografico”.
Si constata subito che l'autrice non è menzionata, come nemmeno il fatto che ci troviamo di fronte ad un'originale ed importante ricerca storica ed estetica e, inoltre, per tutta la lunghezza del suo testo questo screanzato e arrogante tedesco nemmen “di Germania” – temo – non fa alcuna citazione o riferimento al libro della Collobi.
Infatti, dopo alcuni paragrafi di inquadramento dei problemi industriali della recente storia del mobile, lo scritto diviene uno sfacciato soffietto promozionale delle seggiole “Thonet”, di cui costui – guarda caso, e in flagrante conflitto d'interessi analogo a quello che poi diremo – dirige il museo monotematico a Berlino di questa produzione industriale. L'inutile sbrodolatura autoreferenziale del Burkhardt avrebbe dovuto, sempre che si dovesse proprio farlo, essere pubblicata in postfazione o meglio in una appendice, per altro incongrua.
Risulta chiaro che la Fondazione non può essere considerata esente da critiche, anche risentite, che però non furono preventive e immediate perché noi constatammo questo obbrobrio soltanto dopo la stampa e la distribuzione della rivista-libro. Debbo rilevare che questa situazione di mancata protesta si verificò perché il nostro rappresentante di allora nel Comitato Scientifico e, en passant, grafico della pubblicazione venne meno al mandato di informarci tempestivamente su quanto concernesse direttamente i nostri genitori, soprattutto se inosservante o negativo.
Per inciso tengo a precisare che la Famiglia Ragghianti ha indicato sempre i propri rappresentanti nel Consiglio (oggi Comitato) Scientifico senza vincolarli nella propria autonomia di scelte intellettuali od operative, fatta eccezione nel caso di implicazione diretta della memoria dei Fondatori dell'istituzione.
E' proprio vero che il conflitto di interessi (anche senza scomodare enormità alla Berlusconi) è deleterio e non deve essere ammesso e tollerato (nostro errore!), nemmeno con amici. Comunque, perché pertinenti alla serie di post su Licia Collobi e il mobilio e l'arredamento storico, riportiamo di seguito il testo introduttivo che nostra madre scrisse per La sedia Italiana nei secoli e la riproduzione della prima pagina del relativo dattiloscritto.
Nonostante
le richieste effettuate per riavere l'incartamento (consegnato per
scrupolo filologico e per un eventuale utilizzo per esigenze della
nuova edizione rinnovata, in realtà non tecnicamente troppo bene
eseguita in “anastatica”) con i testi originali di Licia Collobi
riguardanti il Catalogo a suo tempo non avessero avuto riscontro,
adesso per un caso fortuito lo abbiamo recuperato, in verità
piuttosto malandato e in disordine. Quindi, prima di inoltrarlo
all'Archivio di Lucca, colgo l'occasione per pubblicare alcuni dei
disegni preparatori e di studio effettuati da mia madre in
quell'occasione (1950). Essi illustrano una componente del metodo di
lavoro, mediata forse dal marito, che usava il disegno come il
Cavalcaselle, cioè funzionale al proprio discorso critico. Però
Carlo L. Ragghianti aveva anche la capacità di realizzare un
disegno, un acquerello, una tempera come personale acquisizione
dell'altrui stile, esprimendo degli originali d'après.
A
questo proposito nel nostro lessico familiare c'è un racconto
aneddotico di prima della Guerra. L'episodio si svolge a Roma
(1937/38), dove Ragghianti una sera dopo cena, per spiegare a dei
colleghi certe caratteristiche di un lavoro di Scipione, incontrato
qualche giorno prima, disegnò un acquarello così suggestivo che uno
dei presenti – futuro cattedratico universitario – chiese di
poterlo trattenere per sé. Così fu e a noi, ridacchiando, il babbo
aggiungeva di esser curioso di sapere se ancora il disegno esistesse
come suo manufatto oppure fosse già proposto o circolante come
originale opera dell'ormai celebre pittore.
F.R.
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