Carlo e Licia

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lunedì 8 maggio 2017

Licia Collobi e la poesia (1)


La morte di Derek Walcott a metà marzo 2017 mi offre l'occasione di affrontare un aspetto – credo ignoto al di fuori di una parte della nostra cerchia familiare – importante nella formazione e durante l'esistenza di mia madre Licia Collobi. Per tutta la vita, infatti ella lesse poesie, prevalentemente in italiano e in tedesco, soprattutto nelle pause dall'attività di studiosa e scrittrice, giacché sul comodino (poi sul comodone) accanto al letto ho sempre visto libri gialli, di letteratura e di saggistica (ricordo “La storia” di Elsa Morante, perché non piaceva al Babbo, e “Il secondo sesso” di Simone de Beauvoir perché allora considerato rivoluzionario dai retrivi.
Questo rilevante interesse della sua personalità è dimostrato dal fatto che nel suo studio di tutte le centinaia di libri contenuti nel lungo scaffale alla destra del suo tavolo di lavoro quelli di poesia (in tedesco, inglese, francese, italiano e in veneziano e triestino) erano, se non prevalenti, almeno la metà, anche dopo le decine di volumi che mi lasciò via via prendere per conservarli negli scaffali della mia autonoma biblioteca.
Per di più, prima di rimandarle nella biblioteca di SeleArte/Critica d'Arte/Criterio dopo averle riscontrate, sfogliava leggeva e studiava molte delle riviste d'arte e di cultura che ricevevamo in cambio delle nostre pubblicazioni. Tra queste in tutte le lingue (rammento la rivista argentina “Sur” della Ocampo, perché anch'io riuscivo a capire lo spagnolo) molte contenevano saggi e testi di letteratura e poesia, non soltanto contenuti attinenti allo stresso argomento professionale.
Questo suo interesse consolidato dalle letture giovanili al di là di quelle scolastiche (come lei stessa ricorda in “Lessico familiare” quando evoca lo sconforto del libraio che non sapeva più cosa procurarle perché la madre le regalava un libro ogni volta che prendeva 10 in un compito a scuola (cosa che avveniva spesso) tanto è vero che all'Università in un primo tempo voleva laurearsi in letteratura germanica.
Certamente la capacità di saper far convivere e gestire la quantità di input si direbbe oggi, cioè di dati difformi e numerosi le fu agevolata da quella sorta di memoria fotografica che le consentì di gestire l'Archivio clandestino della loro importante attività antifascista senza lasciare in giro scritti compromettenti. Penso, però, che esercitasse questa sua peculiarità soprattutto per materie ed aspetti, culturali e non, che la appassionavano. Altrimenti non riesco a concepire come il suo cervello potesse contenere e ricordare tante e così diverse informazioni.
Una riprova della sua “enciclopedica” conoscenza della poesia l'ho constatata nelle innumeri volte che la mamma, cercando di farmi imparare a memoria poesia impostemi dalla scuola elementare e poi media, finiva col recitare – da me vivamente incoraggiata – interi brani attinenti e non. Così quanta Iliade, quanta Odissea (Eneide no), quanto Carducci, Pascoli, D'Annunzio ecc. ho sentito. Meno, ma abbastanza, poi ho ascoltato i francesi, soprattutto Hugo, in lingua (studiavo il francese), inoltre Shakespeare, Milton persino, e contemporanei come Elliot in traduzioni che faceva lei; così anche i tedeschi (amava tanto Rilke), meno però dato che entrambi ricordavamo la recente guerra nazista. Inoltre, siccome fui ammalato da febbraio ad aprile per ben tre anni (1951-53) con febbre tra 37° e 38° di una “sindrome” misteriosa che veniva chiamata “febbre di crescenza” (da un'assistente del celebre Cocchi!), in queste circostanze la mamma mi accudiva portandomi dal Vieusseux, Salgari, Verne (“L'isola misteriosa” mi conquistò) Dumas, Fenimore Cooper (in integrale) e raccontandomi storie (anche della Resistenza) e recitando poesie, tante. Il tutto assimilato con qualche costrutto 
perché declamava (e leggeva) bene, senza enfasi, ma con toni e ritmi avvincenti. (Non è che fossi particolarmente “zuccone”, ho però sempre la tendenza a riportare più il concetto – con mie divagazioni – che il contesto effettivo e per quanto riguarda le poesie, spesso le storpiavo usando sinonimi in luogo del termine usato dal poeta. Perciò, povera mamma, si disperava e qualche volta divertiva, di fronte a questa specie di “sordità”, per lei incomprensibile dato che era anche un'ottima musicista diplomata al Conservatorio). Tornando alla base del discorso, realizzai concretamente la portata del suo amore per la poesia proprio tramite l'adesso celebre (Nobel 1992) “aedo” caraibico. Giacché negli ultimi anni della sua vita mia madre fu prima spesso, poi quasi sempre, poi sempre “allettata” (orrendo neologismo imparato in ospedale, purtroppo) anche per farle compagnia dopo il ritorno dal lavoro o la sera – una volta morto il babbo – stavo con lei a lungo a parlare di tutto, a seconda delle circostanze. Rammento abbastanza bene che una sera all'inizio parlammo del restauro del Cavaliere di Marino Marini e della “pulitura” della Grande Bagnante di Emilio Greco e, quindi, dell'ottimo lavoro effettuato dalla simpatica e cortese Agnese Parronchi, figlia di Alessandro, che la mamma ricordava suo coetaneo e poeta da lei sinceramente non molto apprezzato, nonostante i continui omaggi delle sue poesie e l'insistente richiesta di un giudizio ai tempi in cui egli era Segretario de “La Strozzina”. Qualcosa al riguardo ricordavo anch'io: a Bellavalle attorno al 1948 – me presente – quello spilungone, un po' querulo, con tanti patemi d'animo riversava la propria ansia esistenziale, la propria insoddisfazione, il cruccio per la propria poesia sulla povera mamma, comprensiva ma sulle sue, il tutto per una buona mezz'ora mentre eravamo di fronte alla facciata della piccola cappella votiva e all'inizio della rampa “schiantaschiena” che portava alla rustica casa in affitto per le vacanze ed io, distratto spesso, dal sentire il fluire del ruscello Limentra occidentale. Scena un po' penosa, un po' ridicola e divertente, tant'è che la ricordo dopo quasi settant'anni.
Comunque, come succede “saltando di palo in frasca”, il discorso divagò fino ad una mia considerazione deprecante la scarsità di poeti “civili” dopo la morte di Alfonso Gatto ed “epici” sopratutto. La mamma obiettò che di quest'ultimi qualcuno ce n'era ancora, per es. un certo Walcott, “di cui ho letto qualcosa...e definiscono l'Omero dei Caraibi”. Non chiesi in che lingua l'avesse letto perché, ignorandone l'esistenza non sapevo neanche che allora qui da noi era noto soltanto a pochi “addetti ai lavori”. Però qualche anno dopo il Nobel a Walcott, leggendo una sua poesia sulla rivista francese “Lire”, e sovvenendomi della conversazione con la mamma, la tradussi in italiano, ignorando che “Arcipelaghi” era uno dei testi più noti e citati del poeta anglofono di Saint Lucia.
Adesso lo conosco un po', quel tanto da ammirarne la originalità espressiva ed anche la personalità coraggiosa e candida: “ogni bambino è poeta, molti di loro poi, crescendo, perdono la propria innocenza...a causa dei cattivi insegnanti” e “noi poeti cerchiamo di arrivare alla innocenza essenziale”.

Derek Walcott è stato anche pittore (e questo mia madre non lo sapeva) di concreta abilità, e “terso”, elegante, spontaneo ma non naȉf, in cui la volontà espressiva e formale fa aggio sulla mancanza di tecnicismo professionale, come si vede nel bel dipinto “Lo studio di Gauguin”, realizzato nel 1986, pittore di cui W. scrive: “ci spinge alla ricerca di mondo conosciuto e amato: la pelle brunita/donne e papaie, una collina della Martinica./Il nostro martire. L'unico. Morì per i nostri peccati”.

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