Di
Gianni Vagnetti (1898-1956) artista ricordato nel post Arte
Moderna in Italia, 1915-35 – Testi Critici redazionali, 2.
(che sara' postato il 6 luglio 2019, ma scritto prima di questo testo) abbiamo
forse tralasciato di dire che ebbe molta consuetudine sociale con mia
zia Erminietta Ragghianti, amicissima di sua moglie e madre del
figlio Vieri, anch'egli nella cerchia delle amicizie esterne al mondo
musicale della zia. Di Gianni, però, dopo il ricordo del suo
amatissimo padre Italo, scriverò in quanto marginalmente implicato
nelle cronache minori, forse minime ma indicative, della Casa
Editrice Vallecchi.
Italo Vagnetti (1864-1933) è stato uno dei tanti scultori
proliferati in seguito all'Unità d'Italia per far fronte all'"orgia"
rievocativa del passato remoto nazionale, del Risorgimento e poi del
fascismo (al quale, come praticamente tutti, fu coinvolto in modo
marginale). Artista, non inferiore alla media di quelli che ornano
l'esterno di Orsammichele e il loggiato degli Uffizi a Firenze, lo
voglio ricordare con simpatia perché autore dell'imponente monumento
a Giotto posto nella piazza in cui si affaccia la sede del Comune di
Vicchio, cittadina nota per gli illustri artisti ivi nati, nella
quale mi onoro di risiedere. Nell'ambito della retorica imperante ai
suoi tempi, Italo Vagnetti è uno scultore sobrio che cerca e, tutto
sommato, riesce a dare una dignità pensosa ai suoi personaggi di cui
inventa le sembianze. Il suo Giotto è un uomo sicuro di sè, senza
albagia, orgoglioso degli attrezzi del proprio mestiere ed ha uno
sguardo rivolto al futuro della sua arte. Molto più convincente è
la soluzione finale in Piazza rispetto al bozzetto (n. 258) che fu
disperso in asta dopo la morte del figlio che l'aveva conservato.
Peccato comunque che all'epoca il Comune non lo acquistasse per circa
Euro 1032/1187, come valutato nel catalogo.
Di
Gianni Vagnetti riproduco prima di tutto l'Autoritratto
mentre dipinge, nella Raccolta Verzocchi "Il lavoro nella
pittura italiana di oggi", nel quale si intravede la dedizione
dell'artista, intabarrato per il freddo, per la propria attività
creatrice. Riproduco poi il disegno, bruciato da sole
nell'indifferenza dei letterati vallecchiani e che raccattai tra
altri fogli gettati letteralmente
nella spazzatura durante il primo "fallimento" della Casa
editrice Vallecchi del 1974 dai capo ufficio non so per disposizione
di quale sciagurato dirigente (Pampaloni non c'era più da un paio
d'anni). Accadde infatti che dopo la cura Buzzi (megalomane e
pianista d'accatto) che dilatò il personale da c. 60 persone a oltre
120, con un nuovo settore ratealcommerciale privo di opere da
proporre al pubblico salvo la dignitosissima "Enciclopedia delle
religioni" decisamente rivolta agli specialisti, la Montedison e
la De Agostini si spaventarono del deficit e decisero di chiudere la
storica Casa editrice. Nata da poco, essa era riuscita a crescere e
prosperare nel fascismo, a galleggiare nel primo dopoguerra con la DC
fino agli anni Sessanta. Poi Montedison e Pampaloni: periodo
dignitoso con sprazzi di autentica qualità. Infine Buzzi col fido
gregario e cerbero Cosimini in una gestione dissennata e
sostanzialmente insignificante, fino alla catastrofe. In quel fuggi
fuggi dalle proprie responsabilità, non so chi – ripeto – ordinò
di buttare via tutto quello che era ritenuto superfluo (e
compromettente?) a parere dei singoli responsabili. Per qualche
giorno ci furono angoli di cestini stracolmi, poi di cataste di fogli
e libri da consegnare a una associazione che ritirava la carta a
domicilio. Dato il livello medio di ignoranza, congiunto talvolta ad
alterigia ingiustificata, del personale praticamente nessuno si
azzardò a frugare in quei mucchi.
Fatta
eccezione di alcuni redattori dipendenti e consulenti, evidentemente
gli unici che sapevano e amavano leggere e quindi in grado di vedere
certi nomi e titoli nelle copertine (anche prime edizioni!) dei libri
ammucchiati a scatafascio, che non poterono accettare quello spregio
culturale e decisero di prendere ciò che gli interessava e
portarselo via. Ciò naturalmente dopo aver chiesto l'autorizzazione
generica e formale alla signora Fanti, l'unico capo ufficio in
circolazione, dato che gli altri, a cominciare dal Righi, erano
spariti a tramare e mendicare raccomandazioni in quella che si stava
prospettando una successiva combinazione editoriale, parzialmente
sostitutiva.
L'occasione
di rompere il "ghiaccio" di quell'accumulo ingiustificato,
fu dovuta ad un singolare individuo, che mi fa piacere ricordare per
nome e cognome anche perché la storia della sua famiglia si era
intrecciata con quella della nostra abitazione cioè a Villa La
Costa, già Il Gioiello. Mario Capaccioli, omino solo con una sorella
mentalmente disabile, già redattore in pensione da anni, comparve
furtivo (in senso "buono"; era così imbranato, timorato e
intimidito dalla vita che si muoveva dando l'impressione di rasentare
i muri) proprio a me chiese se poteva frugare tra quei mucchi di
libri e carte buttate per terra. Gli dissi che pensavo di sì e che
mi aspettasse mentre andavo a chiedere conferma. Dopo il via libera
della Stignora Fanti (bravissima persona, coniuge di un discendente
del monumento in piazza S. Marco, così chiamata ironizzando sulla
sua ostentata distinzione) lo comunicai al trepidante Capaccioli.
Colsi l'occasione per chiedergli perché lo volesse fare. La risposta
sorprendente la trovai – e tuttora la trovo – portentosa della
capacità di un essere umano emarginato e sopraffatto dalla vita di
trovarsi una via, se non proprio di scampo, di rifugio, di
sussistenza.
Candido
Capaccioli rispose che cercava le antologie per la scuola media (non
il liceo) che venivano mandate dagli altri editori come attestato
dell'uso di testi per i diritti d'autore Vallecchi. Alla domanda
perché, a cosa servissero, rispose: "Sono anni che collaziono
[confronto della copia o delle copie di un testo con l'originale e
riporto delle eventuali variazioni] i testi di letteratura delle
scuole medie, li verifico e annoto le variazioni". Rimasi
sbalordito, però essendo stato bene educato in famiglia e avendo in
Vallecchi quasi imparato a non far vedere i propri sentimenti
autentici, riuscii a non mostrare la pena profonda per quel povero
essere umano. Comunque Capaccioli fece diversi viaggi stracarico ed
io voglio pensare che egli fu felice per qualche tempo.
Già,
dicevo dell'intreccio casuale tra le famiglie: dopo qualche tempo e
l'aver preso confidenza mi raccontò che sapeva chi ero perché Pinna
– suo "aguzzino" (me lo disse ridendo
quell'irresponsabile di Alfredo Righi), che ancora lo chiamava quando
c'erano gestioni redazionali particolamente complicate, gli aveva
affidato la correzione delle bozze de Il libro dei disegni
del Vasari scritto da mia madre.
Mi narrò poi che sua nonna ai tempi di Firenze capitale d'Italia
(1865-1870) abitava nella villa Il Gioiello, dipinta da Giovanni
Fattori amico di famiglia. La signora si mettteva in ghingheri e
nella loggia che dava sulla strada (poi inglobata nel resto della
villa) aspettava interi pomeriggi il passaggio abituale del re
Vittorio Emanuele II che tornava a cavallo dalla Villa della Petraia
(dov'era confinato il "bel Rosin") e transitando, mentre la
signora faceva la riverenza, sua maestà la salutava togliendosi il
cappello.
Tornando
al povero Gianni Vagnetti: di lui in quel semimare magnum trovai il
disegno, che riproduco, il quale mi sembra fosse in precedenza anche
esposto in cornice da qualche parte della Ditta. Non solo Vagnetti,
nell'unico mucchio che testai: trovai anche un disegno a matita, non
firmato ma pubblicato, di Giorgio De Chirico (venduto alla prima
occasione, lo detesto), alcuni fotomontaggi Luce fascisti, uno
storico disegnino di Maccari (di cui parlerò tra qualche tempo),
qualche foto autografata (Rosai, Gentile) e un cimeliuccio di temi
scolastici col nome vero di uno scrittore noto per lo pseudonimo. Un
mio caro amico e collega rinvenne nel mucchio contiguo
nientepopodimenoche il disegno originale della copertina di Via
Toscanella di Rosai. A quel
punto ci fu "caccia al tesoro" dalla quale mi astenni dal
partecipare per bastiancontrarismo congenito, però mi limitai a fare
da consulente per alcuni colleghi e colleghe che avevano trovato fior
di disegni originali dei libri editi, e non solo di quelli per
ragazzi.
Ah! scordavo una chicca vallecchiana: fu rinvenuta tra il ciarpame
amministrativo (già da tempo depauperato di francobolli, marche e
autografi) anche un fascicolo attestante la posizione impiegatizia
della figlia di un ministro della Repubblica, la quale da anni
percepiva regolare stipendio e assicurazioni sociali di impiegata,
senza mai aver messo piede in Azienda o di avervi svolto qualche
attività dall'esterno (ciò suffragato da chi rinvenne la pratica).
Certo un personaggio e artista degno di considerazione come Gianni
Vagnetti, non meriterebbe di essere associato a simili tristizie, ma
la cronaca ha le sue esigenze.
La
terza postilla riguarda l'ultimo artista della famiglia: il delicato
Vieri, pittore. Egli fu coinvolto nelle mie vicissitudini
dall'attivismo di mia zia Erminietta, la quale era grande amica di
sua madre. Infatti all'inizio degli anni Ottanta rimasi disoccupato
per la seconda volta in seguito al fallimento della Nuova Vallecchi
(di cui ero stato dipendente per 6 anni e persino rappresentante
sindacale) che trascinò nel baratro anche la consociata Sigla s.r.l.
che con l'amico e collega Adriano Gasparrini avevamo l'anno
precedente intrapreso piuttosto brillantemente. Mia zia, generalmente
assente nella nostra famiglia, si sentì in obbligo di attivarsi per
trovarmi un'opportunità lavorativa. Erano le sue proposte abbastanza
lunari, di quelle, frequenti, che per dirti no,
non devono dirti "ci dispiace, lei è troppo qualificato per
noi". Tramite un'altra sua amica e simpatica signora di
carattere vivace, Eva Orecchia Riccioli, la zia mi aveva trovato la
possibilità di collaborare al giornale "Guerin Meschino",
perché alla fin fine ero giornalista pubblicista: peccato che quel
foglio fosse un organo di sport e calcio. Poi ci fu una fantomatica
casa editrice musicale, legata alla memoria del maestro Frazzi, da
risollevare: ero e sono totalmente estraneo al mondo musicale e non
ero in grado di improvvisarmi competitore con Ricordi. La terza sua
iniziativa consisteva nel realizzare una monografia antologica, un
punto fermo sull'attività di Vieri Vagnetti.
Dato che questa possibilità rientrava alla grande nelle nostre capacità,
ci fu qualche sviluppo operativo, anche se alla fine non se ne fece di niente. Non ricordo bene gli sviluppi – salvo che il Vieri era un rompico... di prima categoria – anche perché, date le sue doti diplomatiche e di socievolezza, le "trattative" furono sostanzialmente gestite da Adriano Gasparrini. In
realtà penso che il progetto non ebbe seguito, perché il Vieri
Vagnetti si attendeva un cospicuo intervento di mio padre sulla sua
attività professionale (corretta, ma senza il quid
che la rendesse, anche nella mediocrità, in qualche modo
rimarchevole). Però io mi guardai bene da importunare il babbo. Se è
vero che in quegli anni – e nei successivi – di
"imprenditorialità" ho pubblicato libri con suoi testi
anche importanti è anche vero che comunque egli aveva voluto
scriverli e poi pubblicarli di sua spontanea iniziativa.
Personalmente a suo tempo garantii, ad es., sia a Sergio Scatizzi che
a Renata Cuneo che la edizione da noi eseguita sarebbe stata di
qualità superiore – a parità di impegno economico – a quella di
qualsiasi altro editore. Il che, poi, è la sacrosanta verità: sono
due ottime monografie di costo assolutamente concorrenziale, giacché
con Adriano prima, con Leonardo Baglioni poi, eravamo stati in grado
di contenere le spese e sempre senza i furbeschi "ristorni"
degli editori, quali i ricarichi sulle spese di fotolito e stampa
presso terzi.
F.R. (19 aprile 2019)
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