Carlo e Licia

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domenica 30 giugno 2019

Italo, Gianni, Vieri Vagnetti. Tre generazioni, tre postille.

Di Gianni Vagnetti (1898-1956) artista ricordato nel post Arte Moderna in Italia, 1915-35 – Testi Critici redazionali, 2. (che sara' postato il 6 luglio 2019, ma scritto prima di questo testo) abbiamo forse tralasciato di dire che ebbe molta consuetudine sociale con mia zia Erminietta Ragghianti, amicissima di sua moglie e madre del figlio Vieri, anch'egli nella cerchia delle amicizie esterne al mondo musicale della zia. Di Gianni, però, dopo il ricordo del suo amatissimo padre Italo, scriverò in quanto marginalmente implicato nelle cronache minori, forse minime ma indicative, della Casa Editrice Vallecchi.

Italo Vagnetti (1864-1933) è stato uno dei tanti scultori proliferati in seguito all'Unità d'Italia per far fronte all'"orgia" rievocativa del passato remoto nazionale, del Risorgimento e poi del fascismo (al quale, come praticamente tutti, fu coinvolto in modo marginale). Artista, non inferiore alla media di quelli che ornano l'esterno di Orsammichele e il loggiato degli Uffizi a Firenze, lo voglio ricordare con simpatia perché autore dell'imponente monumento a Giotto posto nella piazza in cui si affaccia la sede del Comune di Vicchio, cittadina nota per gli illustri artisti ivi nati, nella quale mi onoro di risiedere. Nell'ambito della retorica imperante ai suoi tempi, Italo Vagnetti è uno scultore sobrio che cerca e, tutto sommato, riesce a dare una dignità pensosa ai suoi personaggi di cui inventa le sembianze. Il suo Giotto è un uomo sicuro di sè, senza albagia, orgoglioso degli attrezzi del proprio mestiere ed ha uno sguardo rivolto al futuro della sua arte. Molto più convincente è la soluzione finale in Piazza rispetto al bozzetto (n. 258) che fu disperso in asta dopo la morte del figlio che l'aveva conservato. Peccato comunque che all'epoca il Comune non lo acquistasse per circa Euro 1032/1187, come valutato nel catalogo.





Di Gianni Vagnetti riproduco prima di tutto l'Autoritratto mentre dipinge, nella Raccolta Verzocchi "Il lavoro nella pittura italiana di oggi", nel quale si intravede la dedizione dell'artista, intabarrato per il freddo, per la propria attività creatrice. Riproduco poi il disegno, bruciato da sole nell'indifferenza dei letterati vallecchiani e che raccattai tra altri fogli gettati letteralmente nella spazzatura durante il primo "fallimento" della Casa editrice Vallecchi del 1974 dai capo ufficio non so per disposizione di quale sciagurato dirigente (Pampaloni non c'era più da un paio d'anni). Accadde infatti che dopo la cura Buzzi (megalomane e pianista d'accatto) che dilatò il personale da c. 60 persone a oltre 120, con un nuovo settore ratealcommerciale privo di opere da proporre al pubblico salvo la dignitosissima "Enciclopedia delle religioni" decisamente rivolta agli specialisti, la Montedison e la De Agostini si spaventarono del deficit e decisero di chiudere la storica Casa editrice. Nata da poco, essa era riuscita a crescere e prosperare nel fascismo, a galleggiare nel primo dopoguerra con la DC fino agli anni Sessanta. Poi Montedison e Pampaloni: periodo dignitoso con sprazzi di autentica qualità. Infine Buzzi col fido gregario e cerbero Cosimini in una gestione dissennata e sostanzialmente insignificante, fino alla catastrofe. In quel fuggi fuggi dalle proprie responsabilità, non so chi – ripeto – ordinò di buttare via tutto quello che era ritenuto superfluo (e compromettente?) a parere dei singoli responsabili. Per qualche giorno ci furono angoli di cestini stracolmi, poi di cataste di fogli e libri da consegnare a una associazione che ritirava la carta a domicilio. Dato il livello medio di ignoranza, congiunto talvolta ad alterigia ingiustificata, del personale praticamente nessuno si azzardò a frugare in quei mucchi.



Fatta eccezione di alcuni redattori dipendenti e consulenti, evidentemente gli unici che sapevano e amavano leggere e quindi in grado di vedere certi nomi e titoli nelle copertine (anche prime edizioni!) dei libri ammucchiati a scatafascio, che non poterono accettare quello spregio culturale e decisero di prendere ciò che gli interessava e portarselo via. Ciò naturalmente dopo aver chiesto l'autorizzazione generica e formale alla signora Fanti, l'unico capo ufficio in circolazione, dato che gli altri, a cominciare dal Righi, erano spariti a tramare e mendicare raccomandazioni in quella che si stava prospettando una successiva combinazione editoriale, parzialmente sostitutiva.
L'occasione di rompere il "ghiaccio" di quell'accumulo ingiustificato, fu dovuta ad un singolare individuo, che mi fa piacere ricordare per nome e cognome anche perché la storia della sua famiglia si era intrecciata con quella della nostra abitazione cioè a Villa La Costa, già Il Gioiello. Mario Capaccioli, omino solo con una sorella mentalmente disabile, già redattore in pensione da anni, comparve furtivo (in senso "buono"; era così imbranato, timorato e intimidito dalla vita che si muoveva dando l'impressione di rasentare i muri) proprio a me chiese se poteva frugare tra quei mucchi di libri e carte buttate per terra. Gli dissi che pensavo di sì e che mi aspettasse mentre andavo a chiedere conferma. Dopo il via libera della Stignora Fanti (bravissima persona, coniuge di un discendente del monumento in piazza S. Marco, così chiamata ironizzando sulla sua ostentata distinzione) lo comunicai al trepidante Capaccioli. Colsi l'occasione per chiedergli perché lo volesse fare. La risposta sorprendente la trovai – e tuttora la trovo – portentosa della capacità di un essere umano emarginato e sopraffatto dalla vita di trovarsi una via, se non proprio di scampo, di rifugio, di sussistenza. 


Candido Capaccioli rispose che cercava le antologie per la scuola media (non il liceo) che venivano mandate dagli altri editori come attestato dell'uso di testi per i diritti d'autore Vallecchi. Alla domanda perché, a cosa servissero, rispose: "Sono anni che collaziono [confronto della copia o delle copie di un testo con l'originale e riporto delle eventuali variazioni] i testi di letteratura delle scuole medie, li verifico e annoto le variazioni". Rimasi sbalordito, però essendo stato bene educato in famiglia e avendo in Vallecchi quasi imparato a non far vedere i propri sentimenti autentici, riuscii a non mostrare la pena profonda per quel povero essere umano. Comunque Capaccioli fece diversi viaggi stracarico ed io voglio pensare che egli fu felice per qualche tempo.
Già, dicevo dell'intreccio casuale tra le famiglie: dopo qualche tempo e l'aver preso confidenza mi raccontò che sapeva chi ero perché Pinna – suo "aguzzino" (me lo disse ridendo quell'irresponsabile di Alfredo Righi), che ancora lo chiamava quando c'erano gestioni redazionali particolamente complicate, gli aveva affidato la correzione delle bozze de Il libro dei disegni del Vasari scritto da mia madre. Mi narrò poi che sua nonna ai tempi di Firenze capitale d'Italia (1865-1870) abitava nella villa Il Gioiello, dipinta da Giovanni Fattori amico di famiglia. La signora si mettteva in ghingheri e nella loggia che dava sulla strada (poi inglobata nel resto della villa) aspettava interi pomeriggi il passaggio abituale del re Vittorio Emanuele II che tornava a cavallo dalla Villa della Petraia (dov'era confinato il "bel Rosin") e transitando, mentre la signora faceva la riverenza, sua maestà la salutava togliendosi il cappello.
Tornando al povero Gianni Vagnetti: di lui in quel semimare magnum trovai il disegno, che riproduco, il quale mi sembra fosse in precedenza anche esposto in cornice da qualche parte della Ditta. Non solo Vagnetti, nell'unico mucchio che testai: trovai anche un disegno a matita, non firmato ma pubblicato, di Giorgio De Chirico (venduto alla prima occasione, lo detesto), alcuni fotomontaggi Luce fascisti, uno storico disegnino di Maccari (di cui parlerò tra qualche tempo), qualche foto autografata (Rosai, Gentile) e un cimeliuccio di temi scolastici col nome vero di uno scrittore noto per lo pseudonimo. Un mio caro amico e collega rinvenne nel mucchio contiguo nientepopodimenoche il disegno originale della copertina di Via Toscanella di Rosai. A quel punto ci fu "caccia al tesoro" dalla quale mi astenni dal partecipare per bastiancontrarismo congenito, però mi limitai a fare da consulente per alcuni colleghi e colleghe che avevano trovato fior di disegni originali dei libri editi, e non solo di quelli per ragazzi.
Ah! scordavo una chicca vallecchiana: fu rinvenuta tra il ciarpame amministrativo (già da tempo depauperato di francobolli, marche e autografi) anche un fascicolo attestante la posizione impiegatizia della figlia di un ministro della Repubblica, la quale da anni percepiva regolare stipendio e assicurazioni sociali di impiegata, senza mai aver messo piede in Azienda o di avervi svolto qualche attività dall'esterno (ciò suffragato da chi rinvenne la pratica). Certo un personaggio e artista degno di considerazione come Gianni Vagnetti, non meriterebbe di essere associato a simili tristizie, ma la cronaca ha le sue esigenze.


La terza postilla riguarda l'ultimo artista della famiglia: il delicato Vieri, pittore. Egli fu coinvolto nelle mie vicissitudini dall'attivismo di mia zia Erminietta, la quale era grande amica di sua madre. Infatti all'inizio degli anni Ottanta rimasi disoccupato per la seconda volta in seguito al fallimento della Nuova Vallecchi (di cui ero stato dipendente per 6 anni e persino rappresentante sindacale) che trascinò nel baratro anche la consociata Sigla s.r.l. che con l'amico e collega Adriano Gasparrini avevamo l'anno precedente intrapreso piuttosto brillantemente. Mia zia, generalmente assente nella nostra famiglia, si sentì in obbligo di attivarsi per trovarmi un'opportunità lavorativa. Erano le sue proposte abbastanza lunari, di quelle, frequenti, che per dirti no, non devono dirti "ci dispiace, lei è troppo qualificato per noi". Tramite un'altra sua amica e simpatica signora di carattere vivace, Eva Orecchia Riccioli, la zia mi aveva trovato la possibilità di collaborare al giornale "Guerin Meschino", perché alla fin fine ero giornalista pubblicista: peccato che quel foglio fosse un organo di sport e calcio. Poi ci fu una fantomatica casa editrice musicale, legata alla memoria del maestro Frazzi, da risollevare: ero e sono totalmente estraneo al mondo musicale e non ero in grado di improvvisarmi competitore con Ricordi. La terza sua iniziativa consisteva nel realizzare una monografia antologica, un punto fermo sull'attività di Vieri Vagnetti.  
Dato che questa possibilità rientrava alla grande nelle nostre capacità,
ci fu qualche sviluppo operativo, anche se alla fine non se ne fece di niente. Non ricordo bene gli sviluppi – salvo che il Vieri era un rompico... di prima categoria – anche perché, date le sue doti diplomatiche e di socievolezza, le "trattative" furono sostanzialmente gestite da Adriano Gasparrini. In realtà penso che il progetto non ebbe seguito, perché il Vieri Vagnetti si attendeva un cospicuo intervento di mio padre sulla sua attività professionale (corretta, ma senza il quid che la rendesse, anche nella mediocrità, in qualche modo rimarchevole). Però io mi guardai bene da importunare il babbo. Se è vero che in quegli anni – e nei successivi – di "imprenditorialità" ho pubblicato libri con suoi testi anche importanti è anche vero che comunque egli aveva voluto scriverli e poi pubblicarli di sua spontanea iniziativa.
Personalmente a suo tempo garantii, ad es., sia a Sergio Scatizzi che a Renata Cuneo che la edizione da noi eseguita sarebbe stata di qualità superiore – a parità di impegno economico – a quella di qualsiasi altro editore. Il che, poi, è la sacrosanta verità: sono due ottime monografie di costo assolutamente concorrenziale, giacché con Adriano prima, con Leonardo Baglioni poi, eravamo stati in grado di contenere le spese e sempre senza i furbeschi "ristorni" degli editori, quali i ricarichi sulle spese di fotolito e stampa presso terzi.
F.R. (19 aprile 2019)

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