Carlo e Licia

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martedì 31 dicembre 2019

Ragghianti e Luporini Performers.

Con la saccenza dell'ignoranza credo sia tuttora diffusa tra molti critici d'arte contemporanei la convinzione che Ragghianti, al di là dei meriti storici e blah blah blah, non fosse o consapevole o abbastanza comprensivo dei fenomeni artistici d'avanguardia o di nuovo conio. Non sta a me dimostrare il contrario, perché per altro più volte dimostrato da C.L.R. stesso nei suoi studi riguardanti lo spessore storico – quando non addirittura preistorico – alle spalle e alla base di certe manifestazioni creative. Vale a dire che il nucleo fondante di certe avanguardie è antico, e che esse si chiamano così soltanto per auto-attribuzione semantica e ignoranza storiografica.
Altro aspetto importante che tengo a sottolineare – trascurato o ignorato – di mio padre è la vena beffarda, giocosa e gioiosa che talvolta esprimeva. Raramente, purtroppo, date le condizioni “paludate”, pubbliche nelle quali si trovava a vivere per la maggior parte del tempo che non dedicava allo studio e al lavoro storico critico. (Spero di avere il tempo di poter fare un resoconto di alcune manifestazioni cui mi è stato dato di assistere o di averne avuto un resoconto attendibile).
La sottostante fotografia, inedita, scattata da Guido Biffoli all'interno del Tempio Malatestiano di Rimini durante le riprese del critofilm di Ragghianti (1962), risulta un eccezionale documento attestante una performance interpretata da C.L.R. con Eugenio Luporini, spalla autorevole. Entrambi gli esegeti erano consapevoli della “liturgia” che rappresentavano; l'intera troupe e il sottoscritto furono spettatori dapprima sorpresi, quindi divertiti, ammirati e partecipi. Un vero successo, stanti gli applausi scroscianti, sinceri, che seguirono la conclusione della rappresentazione. La performance durò almeno 5 minuti; la “recitazione” fu superba, contenuta ed ironica, solenne, celebrativa. Il motivo scatenante derivò da ricordi giovanili che Eugenio mi esternò accanto al confessionale; 
C.L.R. intervenne e rievocò la propria prima esperienza di chierichetto alle messe mattutine di San Filipo, la chiesa attigua alla casa avita del nonno e degli altri Ragghianti. Si mise quindi – per mostrare a me, non battezzato, e ignaro della prassi cattolica – nella posizione del penitente dicendo a Luporini di indossare la stola e di mimare il confessore. Quindi, senza niente di concordato, R. improvvisò una sorta di linguaggio di borborigmi e di gestualità rituale, cui Eugenio si adeguò immediatamente. A quel punto arrivò Guido Biffoli con la sua macchina Fujita già montata sul treppiede e riuscì a “scattare” (le macchine fotografiche del tempo erano complicate e richiedevano una certa preparazione) prima dello scioglimento di questa “sacra” rappresentazione.
Per mia informazione e per quella di chi non è esperto di questa forma di espressione, modernamente concepita dagli adepti come anti-teatrale nell'accezione tradizionale, trascrivo che “la performance d'artista era tendenzialmente definita in antitesi al teatro” perché trasforma le forme artistiche ortodosse. Non sono convinto di ciò, anzi mi sembra una semplice variante, assai narcisistica per altro. Cito ancora: “l'idea di base era quella di un'esperienza effimera ed autentica sia per il performer che per il pubblico in un evento che non avrebbe potuto essere ripetuto”. Persino ciò non è convincente: anche a teatro ogni volta la stessa scena con la stessa compagnia ecc. ha, contiene ed esprime diversità di toni, di posizioni, di particolari ecc. Inoltre anche le performances vengono fotografate e riprese (e anche vendute), tal quali le forme tradizionali. I dadaisti erano consapevoli dei procedimenti espressivi che intendevano superare. Così come Strehler, ad es., non esprimeva certo – con lo stesso testo – una regia conforme a quella dei tempi di Cecov o nel Misantropo di Molière a quella del Seicento.
F.R. (11 settembre 2019)


sabato 28 dicembre 2019

Arte Moderna in Italia 1915-1935 - Testi dei Critici, 5/II. Fortunato Bellonzi. (MORBIDUCCI, SAETTI).



Post Precedenti:

1. RAFFAELE MONTI ( I ) - 16 giugno 2018
2. IDA CARDELLINI (LORENZO VIANI) - 28  settembre 2018 
3. UMBRO APOLLONIO (NATHAN, BIROLLI) - 19 settembre 2019
4. MARCELLO AZZOLINI (GUERRINI, CHIARINI, VESPIGNANI). 6 ottobre 2019
5/I. FORTUNATO BELLONZI (BOCCHI, D'ANTINO). 12 novembre 2019

martedì 24 dicembre 2019

Mario Luzi e Venturino Venturi in "Critica d'Arte", e complementi.

Venturino Venturi (1918-2002) a causa della mentalità retriva pre-Basaglia imperante nella medicina delle malattie mentali fino (e talvolta oltre) gli anni Cinquanta, fu ricoverato – per quello che non era altro che un forte esaurimento nervoso – in manicomio. Ero ancora ragazzetto ma ricordo benissimo che sorse e si sviluppò decisa una campagna articolata perché lo scultore fosse curato diversamente e dimesso subito. Mio padre, che già conosceva ed apprezzava Venturino, si adoperò per questa causa di cui parlavano spesso Alfredo Righi, Pier Carlo Santini ed altri abituali frequentatori dello Studio Italiano di Storia dell'Arte in Palazzo Strozzi. Mi colpì soprattutto le veemenza indignata ed attiva con cui si batteva pro Venturino l'allor giovane Ida Cardellini (assistente di mio padre fin dal suo accesso alla cattedra di Pisa del 1° gennaio 1949) che generosamente smosse “mari e monti” per questa causa umanitaria.
Comunque, anche grazie alla contiguità con Emilio Greco nella creazione di quel mirifico parco di Villa Garzoni a Collodi, Venturino da allora fu una presenza costante per la mia attenzione all'ambiente artistico fiorentino e limitrofo, come l'appartata Loro Ciuffenna dove l'artista viveva ed operava.
Carlo L. Ragghianti ebbe da quel tempo sempre cordiali rapporti con Venturino, come in questo blog si può verificare nel fascicolo di “SeleArte” (IV s., n.4, autunno 1989, pp.33-44) che fu postato il 19 dicembre 2016.
Non so perché ma fino al 1968 non conoscevo Mario Luzi, salvo accenni di mia madre circa la sua poesia, i soliti pettegolezzi sull'aspirazione al Nobel da parte dello scrittore, il fatto che fosse – bontà sua – stato “aio” di Enrico Guaita (Gnagna nei nostri anni universitari), nipote della indomita Maria Luigia. Però fui io a curare e impaginare il fascicolo di “Critica d'Arte” (n.96, giugno 1968, pp. 13-18) dove pubblicammo il saggio di Mario Luzi, la cui lettura confermò, confortò e sviluppò le mie confuse osservazioni sulla grandezza di Venturino.
Vent'anni dopo – trent'anni fa – lo scritto intitolato Venturino Venturi negli anni '60 Mario Luzi consegnò in Redazione un nuovo intervento sul grande scultore di Loro Ciuffenna, che di nuovo io impaginai e curai. Questo saggio fu stampato, col suggestivo titolo L'arte e la vita, Venturino Venturi, in “Critica d'Arte” (IV s., n.20, apr.-giu. 1989, pp.75-80) la quale riprendeva la pubblicazione – con formato più grande – dopo la morte del fondatore e Direttore Carlo L. Ragghianti (3 agosto 1987).
Di questa IV serie fui il Responsabile e il Redattore Capo, dato che altri stavano annusando il vento cercando il loro ubi consistam, senza volersi ancora esporre o schiarare nell'Università Internazionale dell'Arte e presso l'editore Panini.
Nel ventennale intervallo tra le due pubblicazioni, ebbi l'onore di conoscere un po' più che con il banale “buongiorno, come sta?” Mario Luzi, una persona veramente colta e dedita alla tramitazione del sapere soprattutto nei confronti dei giovani. Egli era, infatti, un professore per vocazione ma soprattutto un poeta di impostazione classica.
Grazie a Piero Pananti ebbi poi l'opportunità di andare a trovare diverse volte il Maestro Venturi nel suo studio suggestivo di Loro Ciuffenna. Debbo riconoscere e in un certo senso confessare (perché esprimere determinati propri sentimenti equivale a svelare aspetti della propria interiorità) che avevo la sensazione di fronte a Venturino di essere un astante ammesso alla consuetudine di vita e spiritualità di un sant'uomo, di un guru. Venturino lavorava (e insieme anche parlava pacato, quasi ispirato) con gesti antichi, rituali ed evocativi. In un certo senso mi sentivo come un familiare di un apostolo ammesso alla presenza di un profeta. Tornavo a Firenze veramente rasserenato, anche se non sapevo esattamente di cosa e per cosa.
Sempre grazie al caro e prezioso amico Piero Pananti – che per Venturino oltre a grande stima ed ammirazione aveva una sorta di pietas filiale marcata ma gentile, com'è nella sua natura – debbo a fine degli anni Novanta aver avuto una lastrina incisa dall'artista, destinata a illustrare e impreziosire un fascicolo del domestico “SeleArte” (IV serie, 1988-1999).

Purtroppo il trasloco delle nostre biblioteche e del mio Archivio da Firenze a Vicchio alla fine del 1999/inizi 2000 – congiunto a una certa ristrettezza pecuniaria derivante dall'acquisto per contanti della nuova casa contenitrice delle carte, nonché la rottura della stampante (costosa!) - mi costrinsero a sospendere la pubblicazione di “SeleArte”. Non escludo a posteriori che nel subcosciente agisse a pro della cessazione del periodico – più che il riscontro dello scarso interesse suscitato nei selezionati ricevitori – soprattutto l'incongruenza del rapporto tra risultato e fatica di progettarlo prima e realizzarlo poi personalmente e manualmente, cioè comporre i testi e realizzare le illustrazioni b/n al tratto, impaginare, stampare, foglio per foglio e confezionare con punti metallici, imbustare, indirizzare, affrancare e portarlo alle PP.TT. Per la distribuzione (il tutto gratis!).

La lastrina di Venturino nel frattempo era stata stampata (non ricordo se da Rodolfo Ceccotti o da un artigiano operante per Guido Pinzani) e le copie firmate dall'autore nella consueta tiratura (1-100 + I-X).
Dato che si trattava di un dono per la mia rivista, era assolutamente da escludere ogni tipo di cessione contro denaro, né un uso improprio. La tiratura, quindi, restò per qualche tempo in beato letargo.
Quando Rosetta ed io venimmo a Vicchio a vedere per la prima volta quella che sarebbe stata la sede delle nostre dimore, ci trovammo di fronte ad uno “scheletro” da tetto a ipogeo, con completate soltanto le fondamenta e i piani intermedi, senza finiture e con gli impianti da inserire. Siccome, per le tresche tra quei … di agenti immobiliari e derivato sottobosco, non saremmo stati risarciti della vendita di Villa La Costa (in senso proprio; così l'aveva “battezzata” C.L.R., in un raro – e incompreso – lampo di umorismo) fino alla sua consegna agli acquirenti totalmente svuotata e con le loro divisioni murarie già realizzate, non avevamo la disponibilità necessaria per acquistare o prendere impegni immediati per la nuova casa. I venditori di Vicchio volevano essere pagati a rate, sì, ma da subito e fummo costretti a fare i salti mortali per conciliare quelle esigenze tanto divergenti.
Al di là della parte “soldi”, dovemmo provvedere, aiutati dai cari amici Gasparrini ed altri, a trovare fornitori e maestranze che costruissero l'abitabilità della struttura, ecc. Dovetti, per consentire i lavori, trovare due magazzini nei quali parcheggiare libri, archivi, mobili e quant'altro fino alla conclusione della mattonellatura e delle finestrature. Non furono certo tutte rose e fiori, né tutti i fornitori furono professionalmente irreprensibili e competenti senza bisogno di assillanti controlli. Però ce la facemmo senza debiti o altre inadempienze.
Alla fine di tutte queste traversie mi sentii in debito verso tante persone nei confronti delle quali non sapevo come sdebitarmi e manifestare gratitudine, almeno simbolicamente. Fu così che mi venne in mente la tiratura dell'incisione di Venturino come oggetto-ricordo tangibile della realizzazione di una “casa Ragghianti”, per contenuti continuazione delle nostre peculiarità famigliari.
Previo consenso dell'autore, che trovò degno lo scopo sostitutivo, Leonardo Baglioni realizzò una “copertina” (con titolo a p.1; a p.2 un mio sonetto “mi figue, mi rasin”, per dirla alla francese) contenente un esemplare della figura attonita ma benevolmente benedicente l'umanità (buoni e cattivi) realizzata da Venturino. Naturalmente consegnai anche ai “collaboratori” insoddisfacenti l'incisione, ammonendoli che eravamo consci del loro cattivo servizio negli ultimi versi della proesia.
Nel 2001 Venturino Venturi ci lasciò – m'auguro serenamente – addolorati però consci dell'onore di averlo conosciuto e frequentato, convinti anche che il suo “genio” è di quelli che sfidano i secoli.

F.R. (28 ottobre 2019)


sabato 21 dicembre 2019

Arte del Gandhara, 4.

Questo è il quarto contributo che riguarda la civiltà originale che ha espresso l'affascinante, e in certi casi problematica, scultura diffusa – a seguito del contatto con i greci di Alessandro il Macedone – tra Afghanistan, India settentrionale e zone limitrofe. La recensione è stata
scritta da Licia Collobi e proviene dal fascicolo n.40 di “SeleArte” (mar.-apr. 1959). Si ricordano i tre precedenti interventi postati il 9 febbraio 2018, il 30 agosto 2018 e il 17 dicembre 2018.
F.R.

mercoledì 18 dicembre 2019

Arnold Hauser r.i.p.

Ungherese per nascita, in Gran Bretagna dal 1938, il sociologo di cultura germanica con derivazioni dalla dottrina leninista di György Lukács, Arnold Hauser (1892-1978) si dichiarava storico dell'arte. Disciplina della quale, però, considerava e analizzava i fenomeni praticamente soltanto in relazione al loro contesto sociale e storico. Cioè parlava d'altro. Cieco alla visione, negava l'autonomia dell'arte perché la reputava costituita da fattori materiali, esprimendo anche altre derivazioni di storiografia sociologica da considerarsi, più che originali, improprie nei confronti delle arti figurative.
Nel recente nostro post riguardante Anna Bovero (di prossima postazione) traduttrice in italiano della Storia sociale dell'arte (“veleni” Einaudi, 1955) dello Hauser si è accennato al fatto che l'opera nefasta di questo scrittore infastidiva Carlo L. 
Ragghianti non solo e non tanto a causa “scemenze sostenute quanto per il dirompente danno irreversibile alla comprensione dell'arte da parte dei suoi lettori”.
Per chiarezza e filologia riportiamo a seguire gli unici due scritti di C.L.R. che furono pubblicati riguardo ad Hauser su “SeleArte”. Certamente dal vaglio della sua corrispondenza risulteranno altre osservazioni e considerazioni, così come dai libri, da articoli e altre pubblicazioni. Comunque i due interventi riproposti è bene che siano vivificati nuovamente perché i veleni positivisti e materialisti sono tuttora in circolazione con potenziali diffusioni, così come tutte le approssimazioni semplificatorie e unidirezionali che insidiano i complessi, faticosi percorsi culturali cui costringe la comprensione delle arti figurative.

F.R. (29 ottobre 2019)

domenica 15 dicembre 2019

Alois Riegl: Arte tardoromana, 3 (II).


Post precedenti

1. 24 settembre 2019 - Indice generale; Elenco illustrazioni (p. XI); Notizia Critica (p. XVII); L'opera storica di Alois Riegl (p. XXXI).
2. 24 ottobre 2019 - L'architettura (p.25).
3. 24 novembre 2019 - La scultura, I. (p.73).

lunedì 9 dicembre 2019

Don Milani Comparetti. Testimonianza di Dino Pieraccioni e dipinti.


Doverosa premessa: non ho visto la luce. Laico sono e rimango. Lo dico perché è un po' eccentrico l'essermi occupato in un breve arco di tempo di due sacerdoti cattolici dei quali si è ventilata la beatificazione. Si tratta di coincidenza casuale che riguarda i due religiosi da punti di vista estranei alla loro teologia. D'altro canto in questo paese tra la gente i preti sono stati e sempre sono numerosi. Oggidì però vedo che quelli giovani sono molto spesso africani.
Devo anche giustificare la presenza del cognome Comparetti unito – per Regio Decreto – a quello Milani. Ci tengo personalmente per due motivi. Il primo, di carattere generale, è che Domenico Comparetti (1835-1927) è stato un grande storico, filologo, epigrafista ecc., che ha onorato la cultura, cioè l'aspetto più elevato dell'esistenza della specie. Il secondo motivo deriva dall'avere io studiato – sia pure per sondaggi alternati a lettura approfondita – il suo capolavoro, Virgilio nel Medioevo, due corposi volumi coinvolgenti ed illuminanti sulla cultura del mondo occidentale da Augusto a Dante Alighieri. Fu anche grazie a questa esperienza che Giovanni Pugliese Carratelli mi dette 30 all'esame di Storia Romana, nonostante la mia non sufficiente padronanza della lingua latina e che Giovanni Ferrara Salute, fuori dall'aula, complimentandosi mi disse: 

“ Buon sangue non mente”. 
Dopo questo diffuso preambolo occorre una spiegazione sul perché diffondere tramite questo post un ennesimo riferimento di modesta incidenza per la notorietà del Priore di Barbiana. Stimolato da una ricerca sulla riforma della scuola negli anni Sessanta, rammento l'aio per i miei esami di maturità Dino Pieraccioni riscontrando nel suo libro del 1979 Incontri del mio tempo (direi semiclandestino – al di fuori dello specialismo - data la marginalità dell'editore Spes di Milazzo) uno scritto del 1974 su Don Milani (pp. 159-164). Ho pensato, quindi, che riproponendo questo breve saggio avrei potuto rendere un piccolo omaggio all'uomo di vasta e profonda cultura che si degnò di aiutare un “disperato” privatista con tre anni di programmi, e contemporaneamente ricordare un grand'uomo che ha onorato la cittadina dove risiedo – Vicchio di Mugello – con non minore risonanza di Giotto e di Beato Angelico, giganti delle arti figurative.
C'è poi ancora un motivo che mi ha convinto a organizzare questo post: l'incidenza e coincidenza di fatti riguardanti direttamente e indirettamente le due famiglie, quella dei Milani Comparetti e quella di Carlo L. Ragghianti e di Licia Collobi.

martedì 3 dicembre 2019

Fanno perdere la pazienza.

Questo post, dato l'argomento, si collega al precedente Un gesto incivile (postato il 28 dicembre 2017), al quale in questi giorni ho aggiunto una Appendice, con una corrispondenza tra Mauro Cappelletti, che informa dell'avvenuta pubblicazione del testo ingiurioso su “Paragone”, e l'inconsapevole Carlo L. Ragghianti che gli risponde.
La nota congrega, dopo lo sbugiardamento e l'ammissione delle loro affermazioni calunniose, tentò di ottenere una rivincita ingigantendo un ordinario infortunio attribuzionistico. Difatti l'anno successivo C.L.R. 
fu di nuovo vilipeso sul medesimo organo di stampa e, quindi, costretto a vergare le sdegnate pagine che pubblicò nella “Critica d'Arte” (fasc. n.96, giugno 1968, pp.3-5) e che riproduco qui sotto. Anche in questo caso allego una corrispondenza, indice del riscontro tra i lettori della nostra rivista. Ettore Camesasca l'11 settembre 1968, infatti, deplora l'accaduto; Ragghianti specifica il 16 ottobre 1968 il perché della propria intransigenza nei riguardi di certi casi di “professionismo” sulle opere d'arte.
F.R. (1 agosto 2019)

domenica 24 novembre 2019

Alois Riegl: Arte tardoromana, 3 (I).

Post precedenti

1. 24 settembre 2019 - Indice generale; Elenco illustrazioni (p. XI); Notizia Critica (p. XVII); L'opera storica di Alois Riegl (p. XXXI).
2. 24 ottobre 2019 - L'architettura (p.25).

giovedì 21 novembre 2019

{bacheca} Scuola, 1.

Per piantare i semi di antidoti e cercare di contrastare alla radice la deriva presente apparentemente inarrestabile con le sue naturali, inesorabili volgarità, barbarie, ignoranza non esistono strumenti civili più efficaci della Scuola, di ogni ordine e grado.
Per questo motivo questo blog si sente impegnato a tentare di dare qualche contributo propositivo e, se capiterà, formativo per riflettere su questo problema essenziale per lo sviluppo e la civiltà di ogni tipo di società. La scuola è irrinunciabile strumento di democrazia.
L'arroganza becera, l'hybris di potere hanno portato un esponente retrogrado, intimamente triviale a commettere un grossolano ma irreparabile errore che lo ha estromesso dal potere che stava manipolando con uno spostamento verso l'estrema destra, per usare un eufemismo invece che verso una “demokratura” fascistoide. Il pericolo resta, purtroppo, praticamente intatto, stante la qualità meschina della “classe” dirigente e dell' “intellighentia”.
Chi afferma, più o meno subdolamente, che studiare oltre l'obbligo è inutile soprattutto per una vita di successo economico mente spudoratamente. Costoro diffondono una notizia falsa e tendenziosa (fatto che credo costituisca anche reato penale). Questi profittatori lo fanno per tre motivi: ipocrita il primo, consiste nel ridurre la concorrenza a sé stessi e/o ai propri figli che hanno studiato. Il secondo caso si ravvisa soprattutto in politica e consiste nel vantaggio di avere a che fare con ignoranti cioè sprovveduti, quindi subornare gli incolti votanti e renderli utili idioti. La terza fattispecie, essenziale per i “vice” e i collaboratori, si manifesta nell'abbassare al proprio livello altri cialtroni, oppure sollevarli apparentemente al proprio, in modo da farsi forti e vincenti col numero sbraitante di “prima gli italiani”.
Sulla base di considerazioni come le suddette e altre osservazioni deprimenti, presenteremo perciò, in maniera non sistematica, soprattutto documenti degni di qualche riflessione informativa e di proponimento. Vorrei evitare, almeno per il momento, il più possibile di ricorrere alla 
vasta letteratura sulla scuola prodotta da Carlo L. Ragghianti, soprattutto perché “tecnica” e su questo piano anche in parte superata dagli accadimenti dei decenni trascorsi e, quindi, interpretabile e “rilanciabile” da parte di specialisti – sempre che ce ne siano di validi – i quali dovrebbero ripercorrere il cospicuo lascito in materia dello studioso lucchese, “stranamente” per ora rimasto intonso negli archivi e nelle biblioteche, quasi che questo aspetto della sua attività sia considerato, inerte, inutile. Ricordo, comunque, alcuni scritti di R. sulla scuola e l'Università pubblicati in questo blog e nella IV serie di “SeleArte”, anche essa integralmente ripubblicata nel blog con suoi indici situati nella barra della “Homepage” del sito. Si tratta di argomenti forse collaterali ma informativi e formativi, cioè del post del 21 maggio 2017 (R. docente, 3. Dall'Università alla scuola); del post del 13 settembre 2018 (Lo studio dell'arte; R. e la scuola). In “SeleArte” si vedano i fascicoli n. 21 (6 dicembre 2017; Professionalità di R.); fascicolo n.24 (7 febbraio 2018; Magisterio di R.); anche la Monografia di “SeleArte” (10 agosto 2017; L'anima dell'uomo sotto il socialismo, di Oscar Wilde) contiene spunti paradossali di un certo interesse.
In parziale contraddizione con quanto qui affermato all'inizio, si inizia questa sezione del blog con la riproposta di due scritti di Carlo L. Ragghianti comparsi su “Criterio”, la rivista che promosse e diresse tra il 1957 e il 1958 per vivificare un fronte laico che andava dal PRI di Ugo La Malfa, a frange colte del PSDI e del PSI, ai Radicali di Rossi e Pannunzio, al Movimento di Comunità di Adriano Olivetti, fino ai pochi liberali PLI non liberisti. Questi due scritti, “Scuola privata senza oneri per lo Stato” (n.5, maggio 1957) e “La grande malata” (n.10, ottobre 1957) sono precedenti all'impegno pluriennale diretto e gravoso di Presidente della Associazione Difesa e Sviluppo Scuola Pubblica Italiana (ADESSPI), un fronte laico, che andava dalla minoranza liberale al Partito Comunista Italiano, contrapponendosi con efficacia alla componente clericale che sosteneva e viveva anche di scuola privata.
F.R. (17 settembre 2019)

lunedì 18 novembre 2019

Il progresso dell'arte. C.L. Ragghianti e Decio Gioseffi.

Mi sono appuntato, non ricordo quando però, la conclusione della lettera del 18 febbraio 1968 scritta da Carlo L. Ragghianti ad Andrea Mariotti, giovane architetto, collaboratore di “Critica d'Arte” e studioso, avvicinatosi a R. spontaneamente, promettente però afflitto da una malattia incurabile e inesorabile. In essa mio padre dice: “p. 13: geometria, immatura ed elementare? Ne dubito forte; p. 18: rozzezza? Direi, al contrario, una sensibilità e una raffinatezza quasi tormentose, una maturità di possesso estrema. Ma forse non ho bene inteso il limite che hai voluto porre, o è una concessione al mito del “progresso dell'arte” (neretto mio).
La deduzione è evidente: nel pensiero di R. non si verifica “progresso” dell'arte; pensarlo attiene alla mitografia.
Certamente in vari studi, libri e lezioni R. si sarà confrontato col problema. Anche se al momento non ho 
presenti suoi estratti sulla questione, penso che riproporre il serio, al contempo di affabile lettura, nonché importante studio che Decio Gioseffi (1919-2007) pubblicò su “Critica d'Arte” (n. 94, aprile 1968; pp. 11-24) sia un contributo già esauriente circa l'argomento sia sulla scia della metodologia che mio padre ha sviluppato, sia se non altro perché R. l'ha accettato e pubblicato. A seguire il testo del caro amico triestino, uomo compassato ma ironico, cordiale ma irremovibile, gentile ma riservato e del quale quest'anno – vedo – cade il centenario della nascita (che vorrei ricordare prossimamente), posto (cioè pubblico; non mi sono ancora abituato a quel poco di terminologia internettiana che conosco) anche il breve “commento” Arte progresso storia (da “Critica d'Arte”, IV s., n.11, 1968, p.7) firmato da Ragghianti. Si tratta di un esempio circoscritto attinente l'argomento.
F.R. (21 maggio 2019)

martedì 12 novembre 2019

Arte Moderna in Italia 1915-1935 - Testi dei Critici, 5/I. Fortunato Bellonzi. (BOCCHI, D'ANTINO).



Post Precedenti:

1. RAFFAELE MONTI ( I ) - 16 giugno 2018
2. IDA CARDELLINI (LORENZO VIANI) - 28  settembre 2018 
3. UMBRO APOLLONIO (NATHAN, BIROLLI) - 19 settembre 2019
4. MARCELLO AZZOLINI (GUERRINI, CHIARINI, VESPIGNANI). 6 ottobre 2019


In questa quinta uscita della sezione “Schede dei critici” il protagonista è Fortunato Bellonzi (1907-1993). Grazie al volume Fortunato Bellonzi e Pisa (2003, CLD libri) – comprato su Internet dove l'ho individuato – sono riuscito finalmente a vedere alcuni dipinti di questo amico di famiglia. Ne sapevo l'esistenza grazie a mio padre che li rammentava, così come hanno fatto amici come Emilio Greco. Però non li avevo mai visti in formato decente e a colori, né nella notevole fototeca del babbo, che riordinai nel 1962-63 e alla quale ho sempre atteso, sia pur saltuariamente, fino all'invio dell'intera Fototeca alla Fondazione Ragghianti di Lucca, non c'erano riproduzioni leggibili.
Capisco adesso perché non fossero presenti, penso – cioè – che il caso Bellonzi come pittore sembra sostanzialmente analogo – con i debiti e molteplici distinguo – a quello dei Carracci (si veda il post del 7 luglio 2019). Quindi la pittura di Bellonzi è più espressione culturale, critica in quanto prevalentemente di ricostruzione e analisi interpretativa dei movimenti vigenti nella sua contemporaneità, da Futurismo a Lorenzo Viani (di cui il giovanissimo Bellonzi ricevette amicizia e riconoscimento paritetico), al “richiamo all'ordine”.
Non va scordato però che Bellonzi, come molti intellettuali di quella generazione formatasi prima del fascismo, fu anche scrittore e poeta di qualità, nonché evidentemente critico d'arte. E' per questo specifico aspetto che – secondo me – B. abbandonò la pittura proprio perché consapevole che l'esercitarla confondeva la propria razionalità volta a capire l'arte più che esprimerla, perché convinto della tesi espressa circa la prosa figurativa dall'amico Carlo L. Ragghianti, suo giovane condiscepolo alla scuola di Marangoni, elaborata proprio in quegli anni. Ciò non toglie che alcuni dei dipinti superstiti di Bellonzi siano anche espressivamente poetici, composizioni originali commoventi e commosse. In definitiva, quindi, in questo caso della nostra rivisitazione della Mostra Arte Moderna in Italia 1915/1935, il curatore delle schede critiche è anche lui per molti aspetti un pittore degno di considerazione e di collocazione storiografica.
Bellonzi, “Fortunatino” fin dai tempi delle elementari e poi dell'Università a causa della statura forse di poco superiore a quella di s.m. il re, paragonava spiritoso sé stesso alla gallina livornese (“che ha un anno, e par c'abbia un mese”), cosa che a Pisa denotava sana strafottenza, o a volte anche quella mugellana, anch'essa “nana”.
Inoltre F.B. è stata tra le tante persone notevoli o illustri che ho incontrato una delle più autenticamente dotte e che comunicava agli altri con leggerezza e spirito il suo sapere senza pedanterie o alterigia: un intrattenitore profondo e al contempo leggero.









Amico di Carlo L. Ragghianti, per certi versi fraterno, nonostante il cattolicesimo praticante di B. e la sua frequentazione con Marinetti ed altri esponenti culturali collusi col fascismo nell'anteguerra, mentre C.L.R. già era dichiaratamente e attivamente antifascista. Nel dopoguerra B. si legò ai democristiani. Sia ben chiaro, però, che l'incarico alla Quadriennale era più che meritato, perché era Bellonzi a darle il lustro che ebbe, anche se la nomina era discrezionalmente collegata all'orientamento politico. Un avvicinamento personale, professionale e familiare tra Bellonzi e Ragghianti si ebbe alla fine degli anni Sessanta, scaturito proprio da questa Mostra del 1967. Di conseguenza la famiglia Ragghianti conobbe anche la compagna di Bellonzi, Marussia Manzella, giornalista e scrittrice con la quale mia madre Licia strinse un'autentica amicizia. Non sarò certo io a tracciare un efficace profilo biografico di Bellonzi, il quale – come molti dei più autentici e illustri intellettuali, tra cui C.L.R. – è “maltrattato” e sottostimato nelle biografie diffuse, ufficiali o “popolari” (tipo Wikipedia) che siano. Anche nella breve biografia contenuta nel citato volume del 2003 constato un profilo piuttosto carente nel quale si privilegiano le onorificenze ricevute (utili in vita per le relazioni sociali, forse) anziché una disamina esauriente del profilo intellettuale del critico, poeta e pittore Fortunato Bellonzi. Migliore risulta l'ampia bibliografia che segue la Biografia. Comunque in quel libro si trovano molte informazioni in pagine spesso affettuose e criticamente rilevanti da parte di Enzo Carli e Tristano Bolelli (altri amicissimi di R.), di Vania di Stefano, Giorgio Di Genova, Nicola Micieli, Gino Agnese, Corrado Guzzi, Alberto Zampieri; quindi Renzo Galardini, che rende omaggio a B. con la riproduzione di un'incisione a vernice molle. Infine voglio ricordare la toccante pagina (75) dedicata “A Fortunato” da Marussia Manzella con quattro brevi poesie.
Insisto nel sottolineare che Bellonzi è stato scrittore, poeta e curatore letterario (es. Proverbi toscani, Martello 1968) non prolifico ma incisivo. Come studioso, cioè storico e critico d'arte, invece la sua produzione è stata cospicua e di alta qualità, anche su temi meno noti e curiosi. Da non confondere, poi, il taglio “divulgativo” (nel senso ragghiantiano esplicitato in “SeleArte”) dei tanti saggi pubblicati in prima battuta sul quotidiano “Il Tempo” di Roma. Non si tratta infatti di mera informazione giornalistica ma di storia e critica impostata con “canoni” derivanti dal maestro Matteo Marangoni. Ricordo, per inciso, che F.B. ha collaborato a “Critica d'Arte” (n.117, mag.-giu. 1971) con un saggio che riproduciamo qui in appendice. Comunque ritengo opportuno ricordare l'attività di Bellonzi anche con le parole di Giorgio Di Genova (“Terzoocchio”, n.108, 2003): 




Concludo con il ricordo, indirettamente collegato a Bellonzi, di Salvatore Pizzarello (1906 Sarajevo – 1969, Pisa) ritratto, con gli amici pisani della fine degli anni Venti e inizio Trenta, più volte nel volume citato. Pittore proveniente da Pirano (terre legate alla memoria di Licia Collobi e dei suoi antenati Domazetovich e De Franceschi) giunto a Pisa nel 1928 dove divenne amicissimo di Bellonzi, pittore a differenza sua ancora futurista. Pizzarello infatti, era invece pittore tradizionale non eccelso però degno di considerazione per la coerenza e la costanza affettiva nel riprodurre aspetti di Pisa e dintorni. 
(Si veda qui il dipinto donato dall'a. al costituendo Museo d'Arte Contemporanea di Firenze nel 1967, in seguito all'alluvione del 4.11.'66). Rammento volentieri questo personaggio perché presenza partecipe ed assertiva, ma non invadente, a tutte le manifestazioni e inaugurazioni di Mostre promosse da mio padre e dalle sue collaboratrici e collaboratori universitari nei locali dell'Istituto di Storia dell'Arte in Piazza San Matteo a Pisa.
F.R. (3,4 settembre 2019).





sabato 9 novembre 2019

Ragghianti - Ferrarotti, 1956-1957.

Come anticipato nel post i rapporti di Franco Ferrarotti con Carlo L. Ragghianti furono improntati a cordialità formale e quindi nel tempo sostanzialmente ridotti e poi interrotti, data la distanza degli interessi indagati dai due studiosi sommata alla antitetica metodologia delle loro ricerche.
Nella importante lettera del 18.12.1956, Ragghianti scrive al "delfino" sociopolitico di Adriano Olivetti – all'epoca in piena campagna organizzativa e di radicamento nel territorio del Movimento di Comunità conclusasi nel 1958 – le proprie osservazioni, suffragate da antecedenti e superati studi piuttosto approfonditi sugli argomenti positivistici e sociologici, circa le indagini teoriche e le applicazioni che Ferrarotti opera nella pratica e negli studi. Questa parte della lettera è particolarmente indicativa per la formazione e il percorso evolutivo di Ragghianti. Nella seconda parte della comunicazione lo studioso lucchese entra nel merito della questione lavoro, operaio in particolare, che il Movimento di Comunità tentava di desclerotizzare nei confronti dei sindacati esistenti, troppo politicizzati e resi troppo spesso mere cinture di trasmissione dei partiti di riferimento. Importante la rivendicazione dell'"autogoverno del lavoro" e il conseguente tentativo operato a Firenze dal C.T.L.N. nel 1944-45. Infatti la questione è tuttora aperta e – seppur timidamente – evocata per renderla in qualche modo operativa, ma anche perché quell'esperimento e gli studi e le ricerche che gli sono "a monte" sono argomenti non solo storiografici da indagare con un'ottica politicamente depurata dai vecchi ideologismi ma costituiscono anche idee da sottoporre a indagine metodologica per renderli idonei ai tempi presenti cui l'automazione e la mondializzazione hanno creato possibili punti interrogativi con probabili drammatiche conseguenze.
Agli scottanti fenomeni in atto nel mondo produttivo e nella società e alle questioni discusse nella lettera citata, Ferrarotti risponde con una relazione al Convegno "Libertà e Società" (30 novembre-1 dicembre 1957, Roma, Teatro Duse) che riporto integralmente dopo la lettera di C.L.Ragghianti. In questo saggio il giovane, e già apprezzato sociologo nonché operatore sul terreno con i tanti attivisti intellettuali legati al Movimento di Comunità, analizza tra le altre anche la condizione operaia (si ricordi che sul fronte marxista-leninista si stava formando l'operaismo di Mario Tronti, Toni Negri, Raniero Panzieri i quali predicavano che fossero le lotte operaie a determinare lo sviluppo del

capitalismo, e non viceversa) in un'ottica collegabile alle istanze cui fa riferimento Carlo L. Ragghianti nella lettera precedente. 
Questo rilevante Convegno che ebbe una certa risonanza e qualche impatto sociale (ad es. sulla U.I.L. che allora disponeva anche di un gruppo intellettuale di orientamento anglosassone piuttosto attivo nelle Edizioni Opere Nuove) sottostimati dalla storiografia specifica, fu ideato e voluto da Carlo L. Ragghianti ed organizzato sotto l'egida promotrice delle riviste "Criterio", "Comunità", "Itinerari", "Nord e Sud", "Opinione", "Il Ponte", "Tempo presente", "Tempi moderni". Anche di questo dimenticato convegno riproporremo una ampia silloge in questo blog.
Dal "Congedo" che Carlo L. Ragghianti rivolge agli intervenuti alle due giornate del Convegno stralciamo i tre paragrafi che riguardano la relazione di Ferrarotti e la sua ripercussione sul dibattito.
F.R. (12 aprile 2019)

mercoledì 6 novembre 2019

Censure sull'arte.

1. Censura d'attualità

Sono già diversi anni che la comunità internazionale attiva sul web e sui social si è indignata contro la decisione da parte del colosso mediatico Facebook di applicare una politica di censura sulle immagini che è permesso ai privati di pubblicare sui propri profili Facebook.
Nel regolamento infatti sono espressamente riportati le tipologie di contenuti non ammessi sulla piattaforma social: tra i contenuti violenti, autolesionisti e di istigazione all'odio e le minacce e attacchi verso terzi, troviamo anche la dicitura “Nudità o altri contenuti sessualmente espliciti”.
Niente da dire sull'attenzione da parte del team di Facebook a limitare l'accesso o il fortuito capitare di giovani e anche giovanissimi su immagini e altro tipo di contenuti pornografici, erotici o sessualmente espliciti. Il problema e l'ondata di critiche e sostenuto dissenso si è però scatenata quando una serie di casi al limite del ridicolo ha reso noto alla comunità di utenti di Facebook che questo stesso algoritmo, usato per determinare quali immagini o post contravvengano alle linee guida del regolamento e quindi siano da censurare, viene anche applicato al nudo artistico. Numerose opere d'arte di interesse, pregio storico e artistico internazionale sono state colpite da questa indiscriminata e bigotta pratica di forzato silenzio: alcuni esempi sono le sculture di Antonio Canova, la Sirenetta di Copenhagen, i nudi di Tiepolo o di Modigliani, addirittura la foto artistica della piccola Kim Phuc che correva nuda per scampare all'attacco al Napalm durante la Guerra del Vietnam.
Testimonianze artistiche, storiche, sociali importanti e che non hanno assolutamente sfondo sessuale o erotico, se non forse nell'inevitabile mente malata di qualcuno psicologicamente disturbato. E' disarmante la totale superficialità con cui viene portato avanti questo processo, organizzato per essere incapace di valutare la natura e l'intento espressivo di quella particolare rappresentazione di nudità: dovrà pur esserci una differenza tra il modo in cui guardiamo una foto pornografica fine a sé stessa ed il David di Michelangelo o immagini che testimoniano le atrocità compiute in zone di guerra e che capitano di mostrare qualcuno svestito! Questa assurda decapitazione di riproduzioni e foto artistiche sul sito di Facebook viene operata da un team di moderatori sparsi per il mondo che lavorano per segnalazione, spesso censurando preventivamente l'immagine non appena qualche utente (ignorante, bigotto, mancante evidentemente della sensibilità non solo artistica ma anche umana di comprendere il messaggio che sta dietro all'opera di nudo in quanto tale) decide di manifestare la propria ottusità segnalandola come inappropriata, oscurando quindi il post e spesso “punendo” anche l'utente responsabile della pubblicazione con blocchi temporanei del profilo (una sorta di esilio a tempo dal social media) senza controllare la legittimità della segnalazione se non in un secondo momento, ripristinando eventualmente il post qualora  


venga trovata infondata. Nel caso della celebre foto già citata, manifesto della brutalità della guerra del Vietnam negli anni Sessanta e Settanta, dopo moltissimi reclami il team di Facebook ha deciso di ripristinare il post ed il profilo del giornalista norvegese che l'aveva pubblicata, con queste parole: 
“Un'immagine di un bambino nudo – c'è scritto – normalmente, violerebbe i nostri community standard, e in alcuni Paesi potrebbe addirittura essere considerata un'immagine pedopornografica. In questo caso, riconosciamo la storia e l'importanza globale di questa immagine nel documentare un particolare momento storico. Grazie al suo status di immagine iconica di importanza storica, il valore della sua condivisione supera il valore della protezione sociale attraverso la rimozione, quindi abbiamo deciso di ripristinare l'immagine su Fb ”.
E' vero che in quanto piattaforma privata di proprietà di Mark Zukerberg hanno effettivamente il diritto legale di stabilire le proprie linee guida ed il proprio regolamento interno – consultabile sul sito stesso, ma piuttosto approssimativo nelle spiegazioni – e che gli utenti che decidono di iscriversi e creare un profilo su Facebook sono tenuti ad informarsene e, qualora non siano d'accordo, hanno la scelta a loro disposizione se rimanere o meno tra i milioni di persone che danno potere e allargano non solo le casse ma anche i tentacoli di influenza del gigante americano.
Tuttavia, ognuno di noi ha l'incontrovertibile libertà di esprimere il proprio disaccordo qualora fenomeni di questo tipo mettono a serio rischio la capacità soprattutto delle nuove generazioni – che vi incentrano purtroppo gran parte della loro vita e che le elevano a fonti da cui imparare i propri valori, le proprie convinzioni ed interessi – di sviluppare la sensibilità che permette di andare a fondo, di vedere non solo il capezzolo sullo schermo ma di comprendere che la differenza sta nel valore aggiunto, nel messaggio, nella storicità, nell'espressione del talento e della creatività artistica che rende la specie umana così unica...e che non tutto è solo e morbosamente incentrato sulla sessualità fine a sé stessa.
Perché invece non lasciare che si continui ad ammirare l'ingegno umano dimostrato nelle varie forme d'arte che si sono susseguite nei secoli...e magari dare maggior importanza alla censura di pagine private e gruppi facebook che inneggiano all'odio razziale, alla violenza verso chi è diverso o semplicemente non va a genio a qualche imbecille limitato, ai ragazzi incitati al suicidio, alle forme di espressione di ideali fascisti e nazisti e all'intolleranza tra esseri umani? Perché tutelare e andar cauti nei confronti della loro libertà di espressione...e non di quella dei grandi artisti del passato e del presente che ci hanno insegnato che qualcosa di buono effettivamente l'uomo la può anche creare?
Irene Marziali Francis (28 ottobre 2019) 


2. Ragghianti, la censura e il caso "Non uccidere" di Autant Lara.

In questo momento quello della censura non sembra argomento di particolare attualità in Italia, salvo che nell'aspetto direi permanente di autocensura costantemente esercitato nei media da giornalisti embedded o da quanti altri hanno a che fare con la preparazione e la diffusione delle notizie (di ogni genere). D'altro canto la censura è uno dei pericoli incombenti sulla democrazia perché essa è aggressivamente sostenuta da un ceto politico autoreferenziale che da sempre va progettando soluzioni di censura preventiva sulle acquisizioni di notizie di giustizia (intercettazioni telefoniche, specialmente) in modo da rendere l'opinione pubblica ignorante di qualsiasi informazione accertata e non facilmente manipolabile.
Carlo L. Ragghianti è stato poco coinvolto in prima persona, che io sappia, su problemi attinenti direttamente la censura, contro la quale - è bene ricordarlo – aveva svolto una intensa attività durante la sua clandestinità (costituita da lettere e da dattiloscritti battuti in più copie di programmi, notizie dall'estero, propaganda specifica, ecc.) dagli anni universitari alla liberazione dalla occupazione tedesca e del suo regime “Quisling” fascista al Nord e al Centro del Paese (1930-1945).
Nel 1957 C.L.R. recensì il volume The Freedom to Read, Perspective and Program (in: “Criterio” n.8/9, 1957, pp. 723-725). Si trattava di un “rapporto”, indirizzato alle istituzioni pubblicistiche e alle biblioteche degli U.S.A., concernente lo stato dello sviluppo in azioni (di origine politica e religiosa soprattutto) tendenti a limitare la libertà di leggere.
Nel 1961 si verificò una virulenta campagna clerico-fascista (un anno dopo Tambroni, Genova e Reggio Emilia) contro la diffusione nei cinema del film Non uccidere di Claude Autant-Lara. Proiettata alla Mostra del Cinema di Venezia, la circolazione della pellicola fu proibita dalla Commissione di Censura in Italia (in Francia pure, stante l'agonia della guerra di indipendenza dell'Algeria, fino al 1963) a causa dell'argomento del film: l'obiezione di coscienza al servizio militare di leva, per la quale – ricordo – che allora ancora i Testimoni di Geova, per es., venivano tutti incarcerati per anni a Gaeta!
A questo proposito Ragghianti presiedette un dibattito tenuto con una affollata ed appassionata partecipazione di giovani (in prevalenza studenti ma anche operai e lavoratori) alla storica Casa del Popolo di Rifredi, di cui riproduco l'invito a stampa. In questa manifestazione il film fu soltanto un punto di partenza per stigmatizzare politicamente la persecuzione e pretendere il riconoscimento giuridico all'obiezione.
In relazione a questa censura la rivista “Il Ponte” organizzò una inchiesta curata da Fernaldo Di Gianmatteo il quale l'11 ottobre '61 scrive a R. che: “gli farebbe molto piacere ricevere anche la sua risposta, tra tutte particolarmente autorevole e meditata....su “Censura e spettacolo in Italia”. Così a critici e studiosi fu inviato un questionario, che riproduciamo, le cui risposte sarebbero state pubblicate nella rivista: quelle di C.L.R. furono tre fitte pagine di osservazioni e commenti. Ignoro se il testo di C.L. Ragghianti fu o come fu pubblicato da quella rivista che non seguivo ritenendola settaria. Di conseguenza, a chi può interessare, penso che non sarà difficile una verifica data la diffusione dell'organo.
Leggendo le risposte al Questionario di Ragghianti si ha subito l'impressione che in questo testo vengano 



considerati e approfonditi argomenti successivamente sviluppati in Traversata di un trentennio (1979; vedere nel blog i post della ristampa del libro dal 31 novembre 2017 al 13 agosto 2018). Soprattutto alcuni punti anticipano la dimostrazione nel libro che alcune parti della nostra Costituzione non sono state attuate né nel 1961, né nel 1979, né – purtroppo – lo sono tuttora. Disgraziatamente in tutte le proposte di revisione costituzionale fin qui presentate – oltre alle autentiche aberrazioni e palesi involuzioni democratiche renziane respinte con referendum popolare – gli articoli inattuati rimangono tali o non sono considerati coerenti con la struttura del futuro Stato ipotizzato dopo l'esperienza fascista. Importante è poi la risposta al punto (2), con le debite distinzioni tra il piano strettamente giuridico e quello prassista del “comune sentimento morale”. Particolarmente importante mi sembra il penultimo paragrafo della lettera che dimostra perché la censura “è, sempre, una vergogna e una sciocchezza”.
Collego a queste poche notizie ragghiantiane sull'argomento il saggio Critica e censura (“Critica d'Arte”, n. 64, sett.-ott. 1964) di Vittorio Stella un “filosofo” crociano con cui C.L.R. ritengo ha, mi vien da dire invano, tentato di ottenere per “Critica d'Arte” e altre opportunità culturali come l'U.I.A. di Firenze collaborazioni e interventi depurati del “gergo” filosofico, perciò leggibili e comprensibili anche da parte delle persone colte non specialiste. In questo caso si svolge essenzialmente una polemica con Rosario Assunto, anch'egli filosofo professionista, sempre con riferimenti all'inchiesta de “Il Ponte”. Non solo perché ovviamente lo scritto è stato pubblicato con l'approvazione di C.L.R., ritengo che esso abbia valida relazione con l'argomento e importanza non solo documentaria ma formativa anche oggi perché si dibatte sul concetto che la questione della censura è essenzialmente un problema di libertà, un problema etico. Devo però ammettere che quando lo lessi feci una certa fatica perché rallentato dal linguaggio esoterico per specialisti, i quali si eccitano con parole come axiologia, invece di pensare al lettore utente e dire semplicemente “filosofia dei valori, divisibile in due rami: etica ed estetica”. Purtroppo anche C.L.R. talvolta non è esente da questa pratica quando – ad es. - proprio nella sua lettera sulla censura nella penultima riga spara pornopsia (sembrerebbe un neologismo!) forse perché un po' seccato di essere costretto per dovere civico a collaborare con una testata di cui non apprezzava alcuni importanti collaboratori.
Quello dell'abuso del linguaggio specialistico diviene vizio, e quindi colpa, con ricadute sociali non indifferenti ma gravi perché ha portato una buona parte dei lettori di oggi (ognuno dei quali in democrazia ha diritto di voto) a disprezzare i “professoroni”, facendo il gioco dei mestatori che inducono i cittadini a cadere nelle fauci spalancate dei demagoghi salvinei. Certo ha ragione Benedetto Croce a sostenere che concetti complicati non si possono esprimere in “parole povere”. Però non si debbono nemmeno esprimere in termini iniziatici, esclusivi, castali. Altrimenti – se ben ricordo lo scrive anche Gramsci – quale sia l'organizzazione sociale umana, la reazione sarà di brutale semplificazione... a danno di quegli “intellettuali” scollegati da parte di coloro che non possono essere intellettuali, né detentori del sapere perché esso è stato reso incomprensibile alla massa, per la quale si dovrebbe invece tramitarlo in termini intelleggibili al fine della sua partecipazione alla gestione del bene comune.

F.R. (24 giugno 2019)

domenica 27 ottobre 2019

E.A. Poe & J. Verne.

Esattamente settanta anni fa, ricordo ancora i colori e i calori del tardo pomeriggio dovuto all'ora legale – che avevo sentito nominare ma di cui non avevo capito il meccanismo – mio padre, di ritorno da uno dei suoi numerosi viaggi, mi regalò un libretto tascabile con vistosa copertina disegnata con colori vivaci. Era uno di quei libri che avevo visto esposti nelle edicole semoventi della stazione, ed era intitolato Lo scarabeo d'oro e altri racconti di E.A. Poe (1809-1849) di cui ignoravo l'esistenza e di cui da quella introduzione poco più tardi lessi assiduamente l'opera omnia. Il fatto del regalo non era insolito, anche se non frequente, però normalmente si trattava di Salgàri o di qualche derivato dei Tre moschettieri. Oltretutto nel 1949, essendo lo Studio Italiano di Storia dell'Arte di C.L. Ragghianti in Palazzo Strozzi, le mie letture (salvo i fumetti) erano fornite dal coinquilino Gabinetto Vieusseux-Biblioteca circolante, nel quale il direttore Alessandro Bonsanti ogni tanto mi consigliava personalmente un libro, testato, (penso) su suo figlio mio coetaneo.
Lessi subito il racconto di Poe ma con qualche difficoltà, che superai tre anni dopo in una lettura entusiasmante.
Questo lontano ricordo mi è stato suscitato dal ritrovamento del prezioso e poco noto saggio di Jules Verne (del quale ho riletto l'Isola misteriosa almeno una decina di volte) che rendiconta i lettori della rivista “Musée des Familles” (aprile 1864) dell'opera dello scrittore statunitense, morto prematuramente e già assai noto e considerato anche (e forse 




soprattutto) in Francia. Il testo di Verne è illustrato con meravigliose incisioni, xilografie cioè opere grafiche diffuse e pregiate uccise di lì a poco dalla banalità della riproduzione fotografica, realistica ma quasi sempre non suggestiva.


Siccome in tempi diversi, che non ricordo, appurai che sia l'infanzia di mia madre Licia che quella del babbo Carlo erano state allietate dalla lettura delle opere dello scrittore di Baltimora, ritengo adesso appropriato riprodurre il testo di Verne accompagnandolo, a mo' di presentazione, con due pagine di Charles Baudelaire. Allego anche alcune poesie di Poe tradotte in italiano (la mamma le aveva, ovviamente, lette ma ignoro in quale lingua, propenderei per l'inglese).
Intendo anche riferire una curiosa coincidenza riguardante proprio lo Scarabeo d'oro. Ieri pomeriggio ho iniziato a leggere il libro Per ridere aggiungere l'acqua. Piccolo saggio sull'umorismo e il linguaggio di Marco Malvaldi, un impegno letterario difforme da quello suo abituale, trascinante, costruito con originalità e una freschezza che ancora dopo molti volumi 
riesce ad evitare la ripetitività. Per Rosetta e per me Malvaldi è ormai una simpatica presenza, una compagnia distensiva, comunque una lettura che lo fa andare a braccetto con Jerome K. Jerome e Woodhouse. Data poi la sua rigorosa formazione di chimico nella stessa Università di Carlo L. Ragghianti – curioso studioso di atipicità e dei linguaggi non convenzionali – penso sia un peccato che il divario generazionale non li abbia fatti incontrare.
Comunque a p. 28 Malvaldi ricorda che “in ciascuna lingua ogni singola lettera compare con una determinata frequenza, e tale conoscenza ha ispirato ben più di un romanziere”; quindi cita proprio Edgar Allan Poe, Jules Verne, Conan Doyle e il recente Georges Perec.
Avendo, infine, rinvenuto in Archivio un ritaglio a stampa che riporta giudizi di Poe su Machiavelli, Manzoni, D'Azeglio, Alfieri, lo riproduco a dimostrazione di quanto possono essere fuorvianti nel giudizio qualitativo le traduzioni dei testi letterari. In questo caso è evidente che a Poe sfugge del tutto l'importanza innovatrice linguistica di Manzoni, il cui italiano incide sulla contemporaneità e poi la rivoluzionerà praticamente come fece Dante a suo tempo. Massimo D'Azeglio, genero di Manzoni, al confronto ha un linguaggio faticoso, “arcaico”, e – letto in italiano – in un confronto viene letteralmente sbaragliato dalla limpidezza della prosa del padre di sua moglie. Così per certi versi l'Alfieri risulta di lettura faticosa, talora contorta.
F.R. (19 luglio 2019)

giovedì 24 ottobre 2019

Alois Riegl: Arte tardoromana, 2.

Architettura.



Post precedenti

1. 24 settembre 2019 - Indice generale; Elenco illustrazioni (p. XI); Notizia Critica (p. XVII); L'opera storica di Alois Riegl (p. XXXI).