Carlo e Licia

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domenica 31 dicembre 2017

Elogi Funebri, ricordi, resoconti, 1 - Panoramica 1987 su Carlo L. Ragghianti

Considerando l'escussione (sempre meglio di "resocontazione", letto in atti ufficiali), o l'esame che dir si voglia, della parte finale di quest'anno che abbiamo fatto, o che stiamo per postare, di libri e testi pubblicati durante il 2010-11 in occasione del Centenario dalla nascita di Carlo L. Ragghianti, abbiamo pensato fosse opportuno rendere noti anche sul web, in occasione della trentennale ricorrenza dalla morte, gli elogi funebri, i ricordi, i resoconti che furono allora manifestati. Ciò perché la loro pubblicazione in "LUK" (n.3, 1988) – allora essenzialmente un Bollettino della Fondazione Ragghianti di Lucca – non ebbe praticamente diffusione al di fuori di quello specifico ambito. Da considerare anche il fatto che trent'anni, oltre che ricorrenza simbolica, costituiscono un lasso di tempo sufficiente a storicizzare un individuo: in questo caso, specie per le nuove generazioni, possono rappresentare un punto di partenza per inquadrare Ragghianti nel suo tempo e cogliere le implicazioni della presenza dell'opera sua valida in questo presente, nonché della necessità dello studio, dell'analisi e valutazione del suo pensiero sul futuro, non solo prossimo.
Questo insieme di scritti operato da Pier Carlo Santini rappresenta una scelta sul merito del contenuto ed esclude le numerosissime attestazioni a stampa derivanti da comunicati d'Agenzia e da commenti ripetitivi e non originali. Naturalmente, inoltre esso è giocoforza disomogeneo e rappresenta comunque una significativa panoramica, una prima puntualizzazione sullo studioso e sull'uomo politico e operatore culturale; offre anche un efficace spaccato d'epoca e testimonia, in maniera dissonante ma statisticamente orientativa, l'importanza avuta da Carlo L. Ragghianti nella cultura e nella società italiana. Mentre all'estero egli era – e tuttora è – conosciuto e apprezzato come "filmmaker", storico dell'arte e divulgatore, nei luoghi dove ci sono studiosi culturalmente attrezzati informati e indipendenti, nonché professionalmente corretti, non settari.
Certamente però, per dirla con un'espressione che in genere si usa quando si vuol svicolare da un argomento spinoso ed imbarazzante, Carlo L. Ragghianti e ben altro. Egli, cioè, ha avuto una personalità ancor più poliedrica ed originale di quanto non si deduca da questi commenti funebri, e presenta uno spessore culturale che tuttora necessità di studi, approfondimenti e prosecuzioni esplicative ed applicative delle sue illuminanti intuizioni.
(24.12.2017)




Per chi desidera qualche ragguaglio biografico di Ragghianti ricordiamo due contributi già postati in questo blog: Biografia 1978 (22 novembre 2016); Biografia 1986-80 (3 agosto 2017).

P.S. La famiglia Ragghianti, ad esequie avvenute, pubblicò ne “La Nazione” di Firenze il seguente ringraziamento per il cordoglio manifestatogli in occasione della morte del coniuge e padre:

sabato 30 dicembre 2017

Arte in Italia, 1915-1935, 1

Opportunamente in questo mese di Dicembre si è svolto il giorno 14 a Lucca – presso la Fondazione Ragghianti – e il giorno 15 a Pisa – presso l'Auditorium dell'Università – il Convegno “Carlo Ludovico Ragghianti e l'Arte in Italia tra le due guerre”. Con l'intento da parte dei due Enti organizzatori, dichiarato nel proposito “di tornare a riflettere sulle scelte operate da Ragghianti e sull'importanza del suo approccio nella revisione di un preciso momento storico-artistico. Partendo dalle partecipazioni alla mostra, il panorama si amplia ai rapporti intercorsi tra Ragghianti e gli artisti per sottolineare l'importanza di integrare la visione storica dominante con la lezione fornita dalle singole personalità artistiche”.
Un programma davvero interessante e stimolante per questo convegno, di cui è prevista la pubblicazione di numerosi contributi degli studiosi partecipanti. Di questi interventi daremo un esauriente rendiconto non appena disporremo della documentazione inerente.
Anche questo blog voleva da tempo e, data l'occasione, ora vuole ricordare questa nota ed importante manifestazione. Essa fu ideata da Carlo L. Ragghianti e riuscì ad individuare e o a rivalutare la creatività di tanti artisti italiani in parte già attivi o che iniziarono in quel periodo ad esprimersi in maniera originale, nonostante le opprimenti indicazioni e talora direttive del Partito Fascista e del Minculpop.
Questa Mostra che contrassegnò l'anno successivo l'Alluvione e simboleggiò di fatto anche la ripresa culturale, la risorta presenza di Firenze nel mondo dove era osservata e considerata e che già da almeno sei secoli costituiva una culla, un faro, un simbolo della civiltà artistica. Perciò per rimarcare, almeno emblematicamente, il cinquantenario della Manifestazione in questo primo post si ricordano i dati organizzativi e connotativi della mostra ed insieme si pubblica la Presentazione di Carlo L. Ragghianti, un importante testo inatteso e complesso che indica le linee guida degli interventi e delle concrete presenze degli artisti con 2108 opere di primo piano documentate in catalogo, praticamente tutte esposte nello storico Palazzo dal piano sotto tetto al piano terreno, cortile compreso (non le cantine ancora semi allagate e gravemente danneggiate come la sede espositiva de “La Strozzina”).
Purtroppo non restano (o non mi sono note) che poche immagini dell'allestimento, tutto sommato riuscito, a tratti anche elegante, nonostante la cospicua ristrettezza delle risorse a disposizione (la voce Assicurazioni aveva assorbito più del previsto le già magre disponibilità e Ragghianti non voleva deficit, così come il benemerito avvocato Torricelli, per non dare aditi impropri alle critiche dei preconcetti detrattori politici e culturali, che comunque ci furono, così come sempre ci sono per eventi fuori dal coro). Bravissimo fu Emanuele Marcelli, un collaborativo signor nessuno architetto comandato del Comune di Firenze il quale – con il plauso di mio padre e il corruccio dei superiori – riuscì a chiudere con vetreria standard Saint-Gobin l'imponente loggiato rettangolare del secondo piano di Palazzo Strozzi, rendendolo idoneo persino all'esposizione di opere di pittura. Ricordo, poi, con una certa nostalgia e commozione l'enorme “sfaticata” effettuata nei tre giorni precedenti l'inaugurazione, durante i quali alcuni volontari come me e alcuni volenterosi allievi pisani del babbo (rammento in particolare Antonino Caleca, attivissimo e competente) assieme a poche ma fidate maestranze delle consuete e benemerite ditte abituali, lavorando anche di notte – la mattina dell'apertura della mostra l'ultimo chiodo fu martellato (ero presente e lo notai) dopo le 10 e mezzo, alle 11 avvenne l'inaugurazione ufficiale – consentirono un risultato piuttosto apprezzabile anche sul piano museografico.
Nei successivi post riguardanti Arte in Italia 1915-1935, nell'impossibilità di riprodurre l'intero Catalogo, riproporremo le schede stilate da C.L. Ragghianti con la illustrazione delle opere d'arte pertinenti talvolta con l'integrazione di altre e immagini e testi di Ragghianti. Seguiranno le schede a firma redazionale scritte praticamente tutte da mio padre, come dimostrano anche i superstiti originali dattiloscritti.
Francesco Ragghianti (23 dic. 2017)

P.S. - Non è da escludere che dalla rivisitazione delle carte d'Archivio si possono configurare ulteriori post riguardanti la ideazione, la gestazione e la realizzazione del progetto Arte in Italia 1915-1935 da pubblicare assieme a materiali al momento da controllare e quasi certamente inediti.


giovedì 28 dicembre 2017

Un gesto incivile

Cinquant'anni or sono Carlo L. Ragghianti subì l'ennesima gratuita e insolitamente grave aggressione mediatica originata dalla solita matrice. In questa occasione – però – c'erano evidenti erroneità e menzogne che davano adito a ricorrere alla magistratura per poter tutelare la propria estraneità a quanto addebitato falsamente. Documentiamo questo grave episodio di malcostume accademico e intellettuale, qui di seguito, con la riproduzione del rendiconto finale, che fu pubblicato in “Critica d'Arte”, n.90, novembre 1967.
Per C.L.R. la propria integrità morale, coniugata all'onestà, erano elementi portanti della costruzione etica di se stesso (e dell'esempio da dare agli altri) ed erano – guarda caso – i più evidenti tratti distintivi dello studioso lucchese nei confronti di tanti colleghi storici dell'arte, di tanti intellettuali, di tanti artisti, di tanti politici d'ogni schieramento, di tante persone che era inevitabile incontrare. Altro importante tratto distintivo era ovviamente, l'orientamento singolare ed innovativo della sua metodologia di analisi e di ricerca storico-critica. Queste qualità scientifiche, naturalmente, non possono essere pretese come accettazione aprioristica dagli altri addetti, soprattutto quando costoro differiscono in buona fede. Tanto meno può essere richiesta l'adesione a principi e metodi da parte di chi, per i più disparati e leciti motivi, ha avuto una formazione differente o insufficiente quando gestita senza fideismi identitari o settari.
E' però opportuno riportare oggi la verità di quei fatti e sottolineare l'accettazione del responsabile di questa inusitata aggressione e del di lui riconoscimento della propria fallacia. Tutto questo ha una certa attualità perché anche recentemente – su “La Repubblica” - un noto giovane ordinario di Storia dell'Arte ha trovato, in un contesto non inerente, il modo di citare questa calunnia e di offendere la memoria di Ragghianti, quasi che egli fosse stato l'aggressore anziché l'aggredito. L'occasione dà adito di ricordare l'Eugenio Luporini fino allora e di allora, vale a dire una sorta di gemello di R., un Polluce nella realizzazione dell'Istituto di Storia dell'Arte dell'Università di Pisa,
poi cattedratico (anche per l'indefesso sostegno di R.) a Genova ma ansioso di ritornare alla sede iniziale del suo percorso di studioso. Eugenio, non solo per mio padre, era più di un amico, per me era un fratello maggiore, consentaneo persino in politica, data la comune – e critica – adesione al P.S.I.. Nel 1967, checché ne abbiano detto in precedenza comuni amici, fu sua l'iniziativa di un pubblico Appello in difesa di Carlo Ludovico R. e di coinvolgere per la pubblicizzazione un organo terzo come “L'Astrolabio” di Ferruccio Parri. Suo, e qui sono ancora come testimone diretto a smentire le bubbole blaterate – a posteriori – persino da Alfredo Righi (in vero sovente sconsideratamente pettegolo) che Ragghianti fosse l'ispiratore dell'Appello e Luporini il braccio esecutivo. Non è vero, semplicemente. D'altra parte chi conosceva o conobbe mio padre non può non riconoscergli che tra le doti del suo difficile carattere c'era quella di affrontare sempre (e quasi sempre da solo) le avverse circostanze personali, senza preventivamente coinvolgere altri, tanto meno manipolarli.
Purtroppo per chi concepisce la vita come lotta di potere, di prevaricazione sugli altri, invece la passione fine a se stessa, il dovere come motore etico della propria esistenza, sono comportamenti e sentimenti incomprensibili. E per molti, i più sembrerebbe – soprattutto in politica – sono virtù che vanno estirpate.
Sta di fatto, e non ho mai capito come e perché (anche se sospetto non possa essere estranea al suo cambiamento la concomitanza in Università a Genova di Enrico Fenzi – allora ancora “estremista” soltanto – e che so per certo fu “cattivo maestro” del mio povero amico Giovanni Francovich) Eugenio Luporini tornò a Pisa radicalizzato politicamente, cambiato nel carattere e – con nostra infinita tristezza – ostile a Ragghianti con tanta acrimonia, quella propria che in un fanatizzato religioso si scatena per cancellare i propri passati convincimenti e sentimenti, anche quelli etici e affettivi.
F.R.  (22.11.2017)

sabato 23 dicembre 2017

La Casa Italiana 2 - Appendici documentarie.


Dopo il primo post (vedi 21 novembre 2017) riguardante questa importante Mostra storica sull'arredamento artistico e le cosiddette “arti minori” o “decorative”, è opportuno fornire una documentazione essenziale di una manifestazione tanto importante per la ricostruzione postbellica di Firenze e impegnativa per l'attività professionale e la successiva curatela scientifica ed organizzativa dei coniugi Ragghianti.
Il progetto iniziale e la successiva curatela scientifica furono, infatti, totalmente affidati alla loro iniziativa e responsabilità. Va, comunque, riconosciuto all'allora sindaco Mario Fabiani e al suo assessore alla cultura Tocchini una grande e leale collaborazione ed un incondizionato sostegno; è anche da sottolineare il fattivo appoggio e la costruttiva collaborazione per Firenze – non consociativismo – di Attilio Piccioni, il leader democristiano più rispettato, apprezzato e ben conosciuto da Carlo L. Ragghianti, poi politicamente distrutto da una infame congiura e dallo sconsiderato ed irresponsabile comportamento di un figlio.
Da tener presente e considerare con attenzione il fatto metodologicamente essenziale, più volte sottolineato nei testi, che non “sarà ammessa nessuna ricostruzione, salvo l'accompagnamento architettonico-decorativo che si renda necessario in alcuni casi”. Quindi qualche “quinta” scenografica e di sostegno non invasiva ma niente rifacimenti o falsificazioni alla Viollet-Le-Duc o alla De Andrade, tanto meno nessuna concessione o interpretazioni come la successiva Disneyland, e nemmeno sopraffazioni allestitorie.
Originale, e in questo caso anche efficiente, la costituzione collaborativa di Comitati Regionali composti da specialisti come funzionari delle BB.-AA., studiosi, antiquari e collezionisti di notoria qualità. Nell'Archivio Ragghianti presso la Fondazione di Lucca si possono consultare le corrispondenze con queste personalità ed anche di quelle con i politici di governo. Tra loro ricordiamo: Giulio Andreotti, il min. Rebecchini, il sindaco Fabiani, Ennio Pacchioni, Sergio Ortolani, Alberto Gerardi, Valerio Mariani, il principe Urbano Barberini, Vittorio Moschini, Nino Barbantini, Rodolfo Pollucchini, Giovanni Mira.
Debbo dire, non per vanagloria familiare (anche perché non c'è nulla di più triste che rimpiangere antichi “splendori”) ma per evidenziare un fatto storico rilevane, che è piuttosto significativo il fatto che il sindaco comunista di Firenze – personaggio di per sé di grande levatura – chiedesse ad un privato cittadino di “caldeggiare” presso il Presidente della Repubblica una visita alla Mostra e alla città. Infatti ciò dimostra che Ragghianti (già dalla metà del 1946 autoesclusosi da incarichi e da significative attività politiche per dedicarsi agli studi e ai doveri familiari) godeva di un prestigio tale da essere comunemente considerato un protagonista anche sociale di levatura nazionale. A meno di quarant'anni.
Tante delle sue conoscenze ed amicizie erano solide, cementificate da ideali comuni e/o da anni di cospirazione prima, poi lotte antifasciste; erano disinteressate e spontanee con quella parte di “classe dirigente” fortunosamente – e certo meritatamente – (lo possiamo dire oggi?) succedute a una parte di quella fascista la quale in genere era rimasta tale con un semplice cambio di casacca (quante colpe hai sulla coscienza compagno Togliatti!). Un esempio per tutti: il caso e il cursus di Bianchi-Bandinelli che si è persino inventato (e tanti fanno finta di crederci) di aver pensato, progettato di attentare alla vita di Hitler mentre gli faceva – in stivaloni neri e gerarchica divisa fascista – da cicerone nel viaggio in Italia del già allora dittatore genocida. Volontario era, invece, giacché tutti gli altri funzionari delle Belle Arti e di Archeologia (cito tra i più illustri Brandi ed Argan e che allora conoscevano il tedesco per motivi di studio) si erano resi latitanti da quell'obbligo con questa o quella scusa.
Il fortunato recupero di fotografie relative alla visita del presidente Luigi Einaudi oltre che documento dello “stile” del tempo – si notino, ad es., la semplicità festiva un po' provinciale delle vesti, la mancanza di guardie del corpo e di altre manifestazioni di potere esercitato con alterigia, sicumera...e paura – mi consente di ricordare l'evento come testimone: infatti prima nel cortile, poi in mostra, poi da un finestrone del 2° piano di Palazzo Strozzi (qui assieme al segretario Righi e all'usciere Giunti che mi teneva per la cintura temendo che potessi perdere l'equilibrio e precipitare) assistei all'arrivo, alla permanenza, alla partenza del Presidente Einaudi, soprattutto perché felice di vedere i Carabinieri a cavallo e in alta uniforme, le chiarine del Comune, i pochi corazzieri (una novità). L'anno di poi (1949), in occasione della nuova visita presidenziale per l'inaugurazione della Mostra Lorenzo il Magnifico e le Arti, fui presentato “ufficialmente” a Luigi Einaudi. Ebbi poi durante un suo incontro con mia madre l'onore di un interessamento da parte di Donna Ida, la quale mi fece alcune domande e mi parlò di suoi nipoti.
L'incontro con Luigi Einaudi (il primo dei cinque Presidenti della Repubblica italiana che ho avuto occasione di conoscere) precedette di un anno quello con l'altro faro del liberalismo internazionale, il filosofo Benedetto Croce. Nella sua biblioteca studio di Palazzo Filomarino, quando dopo un lungo colloquio con mio padre (mentre io ero intrattenuto dottamente – bontà loro – dal divertito duo un sacerdote – padre Cilento? – e Fausto Nicolini) venni finalmente presentato al “minuscolo” ma imponente grande filosofo. Egli, dopo alcuni convenevoli, mi impose le mani sulla testa. Temo di dover dire che, tuttora, non sum dignus.
F.R.

lunedì 18 dicembre 2017

Giotto 2017, 6

Il sommario di questo sesto ed ultimo post della serie Giotto 2017 comincia riproponendo l'importante saggio Colui che tutto mosse: Giotto a Padova, 1303-1309 che viene riprodotto dal volume Stefano da Ferrara (Critica d'Arte Edizioni, Firenze 1972) nel quale esso fu riversato con varianti dall'elegante edizione di Gli Affreschi di Casa Minerbi (Istituto Casse di Risparmio Italiane, Roma 1970). Successivamente Ragghianti lo inglobò nel volume Arte a Ferrara tra Giotto e Pisanello (Corbo editore, Ferrara 1987) con l'aggiunta di un breve testo e quella di una nota, che qui riportiamo. Mi pare opportuno sottolineare che nello scritto introduttivo al libro (in entrambe le edizioni) titolato Recapitolazione (p.7-9) a seguito dei suoi precedenti studi su il Palazzo della Ragione (1964), su Brunelleschi e sul problema della prospettiva, la consapevolezza acquisita “spinse la mia indagine in due direzioni: verso Giotto, la sua attività padovana, l'espansione veneta, trentina e padana del suo linguaggio coi suoi sostrati intellettuali, pervenendo a una precisa e direi non revocabile datazione del suo tanto controverso lavoro padovano in relazione con quello precedente oggetto di altro organico saggio (Percorso di Giotto)...”.
Questa rassegna prosegue con il saggio Giotto neoplatonico da “Critica d'Arte” (n. 154/156, 1977, pp. 220-222), ripubblicato nel 1983 nel libro Santa Croce (pp. 235-240, Nardini editore per Banca Toscana, Firenze). Al testo, in “Critica d'Arte”, segue un Appunto per Ornella Casazza (pp. 222-224) di carattere metodologico circa il Polittico giottesco di Santa Croce. In questo denso saggio C.L.R. dimostra che per l'artista non c'è contraddizione tra autografia e convinzione mentale che il “valore dell'opera consiste nell'idea, non nel fare, nella concezione, e non nella fattura tecnica”.
Con un titolo roboante apposto dalla redazione del giornale, la serie di scritti giotteschi prosegue con Sono sicuro è un Giotto (“La Nazione”, Firenze, 28 settembre 1980, p.3). In questo articolo si analizza la Croce della Chiesa di S. Andrea a Spello, concludendo che “questa creazione di Spello si pone tra le storie cristologiche e il ciclo francescano, quindi agli esordi di Giotto” ed è illustrato da fotografie (mediocri) del 1970, cioè prima del restauro. Chiude questa vicenda giottesca una (pessima) fotocopia de “La Nazione” (25 ottobre 1980, p.3) che contiene la lettera di risposta che Ragghianti rivolge agli studiosi perugini e conclude l'argomento con “In parole più semplici ed accettabili, io riconosco come Giotto delle Storie di Isacco quest'opera, che gli studiosi umbri considerano come la più vicina, e unicamente vicina, al Maestro”.
A questo punto della sequenza giottesca, si sarebbe dovuto inserire l'intervista di specifico argomento che Enzo Fabiani fece a C.L.R. e pubblicò sul settimanale “Gente” del 7 maggio 1982, che purtroppo non sono riuscito a trovare completa né nel nostro Archivio né in quello della Fondazione di Lucca, dove è del tutto assente, come cortesemente mi informa la dr.ssa Francesca Pozzi. Qui in casa, in effetti, abbiamo la prima pagina di questa intervista che comunque riproduco come documento, che così parziale e avulso naturalmente non è molto significativo. Per precisione va detto che le interviste di Fabiani (critico d'arte del settimanale nel quale scriveva anche usando lo pseudonimo di Stefano Ghiberti) a Ragghianti furono tre. La prima del 18 dicembre 1981 fu curiosamente titolata Bastonato, tradito, arrestato//e poi mi hanno fatto capo del Governo; dato l'argomento sarà oggetto di un post a sé stante in questo blog.




Da notare che nella Bibliografia degli scritti, sciaguratamente redatta da un manipolo di sedicenti esperti cibernetici degli albori (1988-89) anche questo articolo è assente. Se continua così, un'eventuale 2a edizione sarà un grosso tomo, quasi doppio rispetto all'attuale! L'altra e seconda intervista, quella pubblicata senza indicazione della data (però 1982) nella suddetta Bibliografia, è intitolata Sdegnoso e sventurato Cimabue è comunque mancante della p. 173, e non contiene riferimenti giotteschi che valga la pena di riportare in questa sede. Casomai la prenderemo in considerazione in un eventuale post cimabuesco. Sembra incredibile ma di questi settimanali – spesso allora con tirature di centinaia di migliaia di esemplari – non è facile reperire i fascicoli, e quando sono individuati sono conservati soltanto in alcune biblioteche e in genere sono rilegati in grossi tomi, cosicché fotocopie e fotografie leggibili non sono ottenibili facilmente. D'altra parte non amo molto le biblioteche pubbliche e alla mia età non vado certo in giro per entrarvi. Non in sostituzione ma, dato l'argomento, completamento necessario è l'articolo che ho rinvenuto nel nostro Archivio (sorta di disordinata grotta di materiali eclettici però anche importanti e comunque documenti non spregevoli, destinati – temo – a dispersioni sciagurate e distruzioni irresponsabili). Giotto, Gesù e noi è il titolo (si ricordi che nei giornali lo affibbia la redazione) di un articolo nel quale Ragghianti recensisce la storia tramandata dai Vangeli della vita del Cristo scritta da Gina Lagorio e pubblicato ne “La Nazione” (11 maggio 1982) quattro giorni dopo l'uscita di “Gente”.  Questa nota scrittrice, donna colta, intelligente e bella, era divenuta una amica di famiglia in occasione delle ricerche per la monografia che C.L.R. dedicò all'arte di Renata Cuneo (Editoriale Baglioni e Berner, Firenze 1981). Purtroppo la qualità della fotocopia di cui dispongo è penosa ma leggibile e farlo – stanti i contenuti – è uno sforzo che vale la pena di affrontare. Non potendo documentare con estratti da questa Storia di Gesù (il libro è a Lucca), cito l'affermazione di R. che “la composizione a bandiera del testo...risponde a una prosa pausata”. Trovo altresì significativo che lo storico lucchese scriva che “la scelta di iconografia è sintomatica, perché Giotto non ha immesso nella serie delle sue scene nessun elemento allegorico, simbolico o mistico-teologico...ma...ha preferito una umanizzazione decisa e totale”.
Due documenti della costante attenzione di C.L.R. al “percorso” di Giotto sono la sua lettera al medievalista ungherese di orientamento longhiano Miklos Boskovits (1935-2011) nella quale chiede di indicargli gli studiosi che “hanno anticipato come me la data di nascita dell'artista fiorentino, volendo tornare sull'argomento” (10 febbraio 1984). Il professore dell'Università Cattolica milanese risponde (17 marzo 1984) fornendo i dati richiesti.
Chiude questa rassegna giottesca degli scritti e documenti relativi al Maestro di Vicchio – dove tre quarti della famiglia Ragghianti è attualmente domiciliata – un denso e breve saggio (Giotto compositore, “Critica d'Arte”, IV serie n.2, 1984, pp. 74-75) nel quale C.L.R. recensisce una ricerca dello storico dell'arte tedesco Max Imdahl (1925-1988) sul ciclo padovano e iconografia-iconologia. In un certo qual modo Carlo L. Ragghianti conclude così una sorta di esplorazione metodologica, sentimentalmente circolare sull'attività di Giotto nel particolare riguardo alla tettonica già indagata, come tramite il Pešina e recensita nel 1945. Nell'ultima frase del suo intervento R. sostiene che quella dello Imdahl è comunque “un'indagine stimolante e tale che si raccomanda all'esame e alla discussione”.



Mi sembra opportuno ricordare a chiusura di questo post che sicuramente tra i numerosi scritti dei coniugi Ragghianti ci sono altri accenni, rimandi, considerazioni, riflessioni ed ipotesi riguardanti Giotto, la sua scuola, l'importanza della sua opera nello sviluppo delle arti figurative a lui contemporanee e soprattutto a lui posteriori. Questi elementi, come già accennato nel post Giotto 2017,4 (15 ott. 2017), sono parzialmente recuperabili tramite gli Indici dei volumi che li contengono; mentre il rinvenimento di altri spunti richiede ricerche specifiche e una cerca conoscenza preventiva delle opere in esame. Assai verosimile è, anche, che dallo spoglio della corrispondenza emergano dati interessanti al riguardo. Infine probabilmente esistono anche scritti sull'argomento che non siamo riusciti a rivenire nella nostra faticosa e tardiva rivisitazione dell'opera dei genitori.
F.R. (8 novembre 2017)
P.S. - Più che per la complessità della materia, mi pare necessario riepilogare, con le relative date di postazione, i cinque post precedenti questa sesta ricostruzione. Sono:

1. GIOTTO 2017, 1 – Presentazione del volume di Licia Collobi Ragghianti e Appendice vicchiese.

2. GIOTTO di Licia Collobi Ragghianti, 2

3. GIOTTO 2017, 3 – Appendice vicchiese

4. GIOTTO 2017, 4 – Carlo L. Ragghianti (1937-1966) / Giotto Architetto

5. GIOTTO 2017, 5 – Carlo L. Ragghianti: “Percorso di Giotto”.


venerdì 15 dicembre 2017

Europa - Inghilterra 2017


Inghilterra cerca di occultare in Casa Europa la propria spazzatura
(da un murale di BANKSY)

mercoledì 13 dicembre 2017

domenica 10 dicembre 2017

Matteo Marangoni

Onoranze 1956-57 per gli ottant'anni del Maestro.


Il fascicolo n. 18 (nov.-dic. 1956) di “Critica d'Arte”, l'ultimo della prima serie edita da Vallecchi, fu interamente dedicato a Matteo Marangoni (1876, Firenze – 1958, Pisa) in occasione delle Onoranze per il suo ottantesimo anno d'età, conclusesi il 10 dicembre 1957 in Pisa con cerimonia ufficiale nell'Aula Magna dell'Università, con una visita al “nuovo” Istituto di Storia dell'Arte presso il Museo di S. Matteo, con un brindisi augurale nei locali della Scuola Normale Superiore in Piazza dei Cavalieri.
In un primo momento avevo pensato di utilizzare in qualche modo questo numero della rivista per ricordare il Maestro di Carlo L. Ragghianti, fine storico dell'arte e autore di un libro “divulgativo” di metodologia (il Saper vedere) per molti versi tuttora valido, checché ne dicano gente come lo Sgarbi (v. “La Stampa”, 25 ottobre 1986, nell'ambiguo ricordo di Claudio Savonuzzi Ha insegnato a vedere un quadro). Oltre che specialista esente dalla tabe delle expertises di troppi professori universitari, Marangoni fu un gentiluomo dotato di spirito graffiante ma non mordace, una persona simpatica, cosmopolita, che non metteva in soggezione gli altri con i propri talenti: laureato in scienze naturali, fu anche antropologo e musicista compositore.
Però il fascicolo della “Critica d'Arte” è essenzialmente una raccolta di disparati contributi in onore del Maestro e come tale, per di più, poi completamente confluita nel volume del 1957 Studi in onore di Matteo Marangoni pubblicato per iniziativa dell'Istituto di Storia dell'Arte dell'Università di Pisa diretto dal suo allievo e successore Carlo L. Ragghianti ed edito da Vallecchi, Firenze. Ed è da questo cospicuo libro di sessant'anni fa che traggo i materiali idonei a dare un primo ricordo di Matteo Marangoni.
Ha poi accelerato l'intenzione di procedere ad approntare il post relativo il leggere nel Catalogo n. 83 (sett. 2017) della Libreria Vecchi Libri di Firenze, uno dei pochi bollettini di volumi di seconda mano ma di buona qualità che ancora ricevo, elencato anche il volume Studi in onore di M.M. (70 euro). E qua mi si permetta una parentesi divagatoria ma pertinente. La scheda n. 215 definisce l'opera “rara”, il che è certamente esatto; vengono anche elencati alcuni autori degli scritti (V. Branca, G. Mila, E. Carli, R. Papini, F. Russoli, C. Brandi, L. Becherucci, F. Bellonzi, L. Vitali). Non sono citati gli allievi di Marangoni (salvo Russoli e forse Bellonzi) e nessuno di quelli legati accademicamente e culturalmente all'Istituto di Storia dell'Arte di Ragghianti (salvo il Carli), tanto meno viene citata l'affettuosa certo, però anche criticamente esauriente Introduzione (pp. XIX-XXVIII) di Carlo L. Ragghianti.



Più di una trascuratezza, data la città di provenienza del Catalogo, sospetto un ennesimo caso di sistematica rimozione, quella che i progenitori romani chiamavano damnatio memoriae. Quindi stavo per imbufalirmi con l'ignoto estensore di quella scheda commerciale; però riflettendo non mi pare che valga la pena di indignarmi ulteriormente e così “sclerare” (come dicono oggi i giovani) e sembrare un grosso Don Chichotte, con pancia ma senza Sancho Pansa. Poi specialmente perché questo in onore di Marangoni è tutto sommato un bel libro per i contenuti e la toccante occasione. Certo, essendo un volume Vallecchi di dopo la guerra risente del dilettantismo della gestione degli eredi di Attilio: mancano, infatti, gli Indici degli Artisti, dei Nomi e dei Luoghi (mentre è presente un superfluo Indice delle Tavole, le quali sono tutte provviste di didascalia nell'impaginato).
Siccome inoltre sono passati ben sessant'anni dall'evento e dall'edizione di questo libro, mi pare opportuno cominciare a ricordare Matteo Marangoni (persona che rammento squisita, affabile, dotta ed eclettica, gentile persino con i bambini, poi ragazzotti, poi adolescenti come lo scrivente) con riproporre la Introduzione di Carlo L. Ragghianti, la Bibliografia degli scritti e la Nota biografica di Marangoni dovuti alla penna di Maria Severini, sua allieva precocemente defunta; riporto anche l'Indice Generale per ricordare ed orizzontarsi tra i testi di ben 41 autori. A proposito dell'Introduzione al volume, ricordo che essa è stata pubblicata in una prima versione in “SeleArte” (n. 27, lug.-ago. 1956, p. 2-5), precedendo quella definitiva di quasi un anno, stanti i tempi editoriali necessari per completare una collezione di saggi scritti da decine di autori. Dato che si riscontrano alcune differenze, ma soprattutto ritocchi aggiuntivi nel libro – per la gioia di filologi e come esempio di un processo scrittorio di Ragghianti – ritengo opportuno riprodurre anche questo testo. Quindi, oltre naturalmente al suddetto Indice Generale, vogliamo documentare l'“evento” con la pagina di presentazione del fascicolo di “Critica d'Arte”, e con una pagina di informazione editoriale del libro diffusa dalla Vallecchi. Prima di concludere ricordo che nella IV serie di “SeleArte” (fascicolo n.21, pp. 3-9, del 1995 postato su questo blog in data 6 dicembre 2017, immediatamente precedente al presente post) è stato pubblicato lo scritto (del 1948) di Marangoni Indirizzi, metodi e problemi della critica d'arte. Infine, concludo questo post con alcune fotografie della cerimonia pisana del 10 dicembre 1957, le quali sono in parte probabilmente inedite e comunque poco conosciute. 
F.R.

venerdì 1 dicembre 2017

La fotografia è arte



Dopo più di cento anni dai primi dagherrotipi era ancora diffuso interrogarsi sul fatto che la fotografia fosse o no una forma di arte. Il dibattito riguardava gli scatti intenzionali, quelli costruiti in studio o dalla mente dell'operatore. Nel 1954 era possibile dubitare che la fotografia fosse un'espressione artistica originale e valida come lo erano le immagini o le strutture canoniche di pittura, scultura ed architettura.
E' opportuno ricordare che negli anni Cinquanta del Novecento buona parte della borghesia "colta" si indignava orripilata davanti alle opere di Picasso, negandone ottusamente e apoditticamente valori espressivi originali e quindi universali.
Nel 1952 l'editore Einaudi pubblicò Cinema arte figurativa di Carlo L. Ragghianti, un'opera rivoluzionaria, necessaria – e di notevolissimo successo – che non voleva essere "un'altra estetica del Cinema, ma una dimostrazione concreta dell'identità dell'arte figurativa e del cinema". Si veniva così a riconoscere in modo definitivo la dignità di arte al cinematografo, cosicché il libro "è un chiarimento vero e un'aggiunta concreta alla cultura moderna".
Il concetto di Design, poi, in quegli anni si stava faticosamente imponendo all'attenzione della critica e della comunicazione culturale costringendo i molti riluttanti a riconsiderare molte attività, reputate strumentali, non solo e non più identificabili col riduttivo termine di artigianato, che va inteso soltanto nelle applicazioni derivative di oggetti la cui forma espressiva è stata determinata da un prototipo nato da un artista (il designer).
Per inciso voglio ricordare due signore che alla fine degli anni Cinquanta 
furono importanti nella mia formazione: Maria Luigia Guaita (amica di famiglia) e Lara Vinca Masini, la quale supervisionò la mia preparazione per l'esame di terza media. Dal 1956, quando ella fu segretaria di redazione di "Criterio" e poi di "seleArte" – in Palazzo Bartolini Salimbeni e in Piazza Vittorio Veneto 4 -, sostenne e accompagnò la scoperta di tanti scrittori (mi fece scoprire la più che benemerita BUR ideata dal prof. Lecaldano). Probabilmente sono oggi in pochi a ricordare o sapere che queste due non comuni e volitive donne – tra loro diversissime – collaborarono alla stesura di una pagina sul design che compariva in un settimanale (di cui non ricordo il nome) giovanilistico che voleva competere con "L'Espresso", a cominciare dal sesquipedale formato.
Quindi alla domanda attuale se la fotografia fosse arte, rispondeva su "seleArte" (fasc. 15, nov.-dic. 1954, p.28) Carlo L. Ragghianti nella rubrica "corrispondenza", firmata con lo pseudonimo Camillo, che qui sopra riproduciamo.
Qui sotto, invece, riportiamo uno scritto del 1985 nel quale R. Nella rubrica "Domande e Riposte" di "Critica d'Arte" (IV serie, n.6, p.10), ribadendo quanto sostenuto nel 1954, ricorda sinteticamente quanto da lui trattato sull'argomento fotografia. Pagine che riproporremo successivamente anche in questo blog, anche se sono note e state già analizzate da studiosi, tra i quali citiamo Stefano Bulgarelli (Ragghianti e la fotografia, "Predella", 2, 2010, p. 161 ss.) e Tommaso Casini (Ragghianti: fotografia e cinematografia come esperienza della visione, pensiero e critica, ivi, p.277 ss.).

domenica 26 novembre 2017

Giotto 2017,5. Carlo L. Ragghianti: "Percorso di Giotto".

Questo studio sull'attività di Giotto dai primordi ad Assisi e all'anno 1300, demarcazione simbolica della sua prodigiosa attività, fu scritto in prima stesura nel 1967 e in seguito pubblicato su “Critica d'Arte” nel fascicolo monografico intitolato Percorso di Giotto (n. 101-102, Marzo-Aprile 1969). Prosegue così la nostra rievocazione dei ragguardevoli studi dei coniugi Ragghianti sull'artista di Vespignano di Vicchio, collegati alle celebrazioni del supposto settecentocinquantesimo dalla nascita. I precedenti interventi sono stati postati il 26, il 27 luglio (monografie di Licia Collobi), il 28 luglio e il 15 ottobre (Giotto Architetto) di quest'anno. Quindi, come avverte l'autore a p.79, questa per certi versi radicale sua ricostruzione fu pubblicata in Arte in Italia. Dal secolo XII al secolo XIII (Casini editore, Roma 1969, coll. 978-1036).



Nella lettera – riportata qui sopra – del 24 maggio 1969 a Millard Meiss (1904-1975), considerevole studioso di Giotto e dell'arte italiana dal XIV al XV secolo e professore nelle più prestigiose università statunitensi (Columbia, Harward, Princeton), Ragghianti – che lo conosceva abbastanza bene anche di persona – annuncia le sue conclusioni sottolineando che il collega sarà interessato “dalla mia ricostruzione e dall'indagine sui contenuti dell'artista finora poco accertati”; accenna poi anche “alle osservazioni analitiche, per altro inducibili”, cioè contrarie a deducibili, quindi che dal particolare muovono al generale, dai 




fatti ai principi. Mi permetto di sottolineare questo aspetto della ricerca di Carlo L. Ragghianti perché mi pare che essi non siano stati abbastanza considerati e sceverati dalla successiva e copiosa letteratura in materia. Anzi, per dirla fuori dai denti, le osservazioni “inducibili” sono state esplorate e assimilate più spesso di quel che non risulti dagli scritti; soltanto non sono state riconosciute pubblicamente al loro autore da parte di quegli addetti ai lavori perché presentate come proprie. 

F.R.

venerdì 24 novembre 2017

{glossario} Urbanistica

"Non è facile, come si sa, compiere un'indagine urbanistica: essa è infatti in stretta correlazione con una notevole quantità di fattori che tutti sono implicati dallo sviluppo di una città o di un centro urbano od abitato considerato nella sua realtà edilizia; ed è inoltre necessario considerare tutta l'attività non solo costruttiva ed edilizia, ma anche di modificazione della natura e del paesaggio, svolta dall'uomo per rendere possibile la sua vita e migliorarla mediante la tecnica e il suo sviluppo, sia nell'insediamento umano che nella campagna. Un aspetto integrale dell'indagine urbanistica è l'analisi delle forme edilizie ed architettoniche, e quindi non solo degli edifici funzionali, ma dei monumenti, in quanto essi sono stati concepiti e sono sorti in relazione alle esigenze della civiltà storica. L'indagine propriamente urbanistica sarabbe assai più facilitata nella sua specialità, se esistessero studi, ricerche, risultati storiografici in altri settori della vita storica. Se non difettano le trattazioni di storia politica e diplomatica, assai meno sviluppate sono in genere le ricerche sulla vita religiosa e civile, e così sulla vita economica, specialemente dei secoli più lontani; mancano per esempio, quasi del tutto, le rilevazioni statistiche, sia economiche che demografiche, sicché lo studioso che affronta un problema di ricostruzione urbanistica di una città o di un centro abitato viene a trovarsi nella necessità di non limitare il suo lavoro all'analisi dei fatti edilizi ed architettonici e comunque a quelli caratteristici dell'insediamento umano, ma di venire in possesso di dati e documentazioni storiche di varia natura, per l'accertamento dei quali non si può fare a meno di ricorrere direttamente ad archivi, qualche volta poco esplorati e poco ordinati..."                                   C.L.R.

Questo intervento definitorio circa la peculiarità della disciplina "Urbanistica" è tratto da una comunicazione pedagogica dell'11 novembre 1958 inviata alla Signorina Di Gaddo (di cui non ci risultano altre informazioni) da Carlo L. Ragghianti secondo il proprio consueto metodo di insegnamento consistente nel seguire passo passo lo svolgimento della tesi assegnata. Questa impostazione dialettica e rigorosa escludeva tesi raffazzonate e funzionali alla conclusione dell'iter scolastico del laureando e produceva generalmente ottimi studi, quasi tutti successivamente pubblicati in volume.Gli interventi più rilevanti di Ragghianti in questa materia (alcuni di rara reperibilità nelle 
biblioteche, come quelli immediatamente successivi alla guerra) sono stati ristampati con pertinenti ed esaurienti Note introduttive e Note al testo nella antologia Carlo L. Ragghianti. Il valore del patrimonio culturale/Scritti dal 1935 al 1987, curata esemplarmente da Monica Naldi e Emanuele Pellegrini (Felici Editore, Pisa 2010). Pertanto in un Post di prossima pubblicazione riprenderemo l'argomento "Urbanistica" riproponendo alcuni testi di Ragghianti con una sua bibliografia su questa fondamentale disciplina, che deve (se bene applicata) preservare e valorizzare il nostro "meraviglioso" Paese, già – e da troppi decenni – deturpato. 
F.R.

martedì 21 novembre 2017

Licia Collobi e l'arredamento storico - La Casa Italiana nei Secoli 1

A post già scannerizzato e impaginato negli altri testi e documenti, il fortuito ritrovamento nel nostro caos archiviale dell'articolo che Licia Collobi scrisse per la rivista “Firenze e il Mondo” ci induce iniziare con la riproduzione di questa rarità da stanare altrimenti in poche biblioteche. L'articolo – che segue immediatamente questo testo fu pubblicato a mostra iniziata e prossima alla chiusura. Esso si configura naturalmente come introduzione a questa documentazione sulla Mostra La Casa italiana nei secoli (aperta da Aprile a Novembre: otto mesi!) e al suo catalogo e, tra l'altro, in questo scritto – sempre con la consapevolezza di una meritata riuscita – si illustrano i criteri e si giustificano le carenze di un “organismo” originale e complesso, quindi non ripetibile facilmente né con adeguata rappresentatività.
Licia Collobi Ragghianti cominciò ad interessarsi criticamente e fare esperienza di arredamento e di mobilio storico soprattutto in occasione del Catalogo delle opere d'arte pubbliche in provincia di Piacenza (1938) quando dovette documentarsi per affrontare la congerie prevalentemente ecclesiastica di materiali altrimenti poco interessanti per chi non abbia una specifica vocazione e curiosità nei loro confronti. Conoscendo la puntigliosa caparbietà – gestita con tratto sereno e disteso – con cui affrontava ogni “sfida” intellettuale e professionale e coadiuvata da una straordinaria memoria (beata lei!) che gli consentiva rapidità di introitare e rammentare i dati, ella fu in grado di assorbirne una notevolissima quantità e di – e questo è puro merito – analizzarli e relazionarli tra loro con acume e pertinenza. Penso che anche gli studi per la preparazione della tesi di laurea (1935, pubblicata 1937) su Carlo di Castellamonte, primo ingegnere sabaudo, tramite le verifiche sul campo in ville e castelli, generalmente arredati, abbiamo contributo alle basi di una vera e propria specializzazione extra antiquaria. Nel 1936/7 fece anche una ricerca e studio sul Palazzo Farnese di Caprarola. Oltre a ciò la successiva reggenza (1942-43) della Pinacoteca Estense di Modena e connessi contribuì ad allargare i suoi orizzonti nelle materie collaterali alle canonihe pittura, scultura, architettura. Ho vivo il ricordo del racconto delle vicissitudini per proteggere e poi occultare – a causa del conflitto – anche la notevole collezione numismatica, di cui studiò, naturalmente, le peculiarità. Altra osservazione: tutti questi studi eterogenei costituirono certamente una base solida per la sua latitudinaria competenza nella redazione degli scritti di “SeleArte” (1953-66), poi rubrica di “Critica d'Arte” fino al 1989.
Quanto premesso spiega perché tra i vari e competenti funzionari della Soprintendenza di Firenze, nel 1947 fosse scelta proprio lei, ff. di direttore della Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti (moderna, si fa per dire, giacché a tutt'oggi di tutte le opere eseguite dal 1900 ne sono esposte pochissime, e male). Certo un po', ma non troppo e non scontato, pesò il fatto che fosse la moglie dell'ideatore e del Presidente dello Studio Italiano di Storia dell'Arte e Commissario per la liquidazione (poi non avvenuta) dell'Istituto di Studi sul Rinascimento, organizzatore della Mostra. Ricordo quel periodo piuttosto bene nonostante avessi tra i sette e gli otto anni d'età. In parte perché praticamente per alcuni mesi i nostri genitori non furono mai in casa e sovente rientravano 
dopo le 10 di sera, ragion per cui Rosetta (quattro-cinquenne) più che preoccupata in vero era perplessa; ed io invece preoccupato e talora spaventato perché spesso rimanevamo soli, col pupattolo di più o meno diciotto mesi terzogenito, dalle sette del pomeriggio, quando un'anzianotta e detestata Azelia da Lamporecchio (domestica di scarsa preparazione e competenza e d'animo pravo, nonché un po' ladra) se ne andava a raggiungere un becchino suo futuro consorte.
In parte i ricordi sono più presenti perché da sempre ho cercato di capire quel che e perché lo facevano gli adulti e di conseguenza li stavo ad ascoltare (gli insegnanti mediocri – i più – però meno, molto meno) con attenzione. Quindi sentivo la mamma relazionare il babbo, perché anche se e quando tornavano assieme tardi, quasi sempre il loro lavoro durante la giornata era differente e in lunghi tra loro distanti. Quel che più mi colpì fu come Licia Collobi riuscisse a coordinare e gestire in Palazzo Strozzi tutti, dal Comitato tecnico, agli artigiani (tappezzieri, falegnami, elettricisti ecc.) nonché il personale, compreso quello di guardianìa. Questa capacità di coordinamento e di gestione è una dimostrazione (aggiuntiva al valor militare quale partigiana combattente) del fatto – assai inconsueto, ma meritato – che a mia madre forse riconosciuto il grado di Maggiore dell'Esercito Italiano.
Di questa straordinaria mostra La Casa Italiana nei secoli, si è persa la memoria e dimenticato la notevolissima quantità degli oggetti esposti e la loro altrettanto notevole qualità, e poi anche la consapevolezza del rigore scientifico, passato al vaglio di competenti comitati regionali, che esplicitava l'importanza delle “arti decorative” dal Trecento all'Ottocento. Ciò forse anche per via della modestia della veste, ancor postbellica, del Catalogo (esteriormente così dissimile dai “mattoni”, spesso inconsistenti e fuorvianti, dell'oggi) ritengo culturalmente significativo riproporre i testi dei Ragghianti, mentre le poche (19) illustrazioni del Catalogo consentite dalle ristrettezze dell'epoca, sono riprodotte nell'articolo di Licia Ragghianti. In proposito è bene ricordare che fino al 1949 in Italia fu vigente il razionamento di molti generi alimentari e non (es. carta) e che in Gran Bretagna, vincitrice del conflitto mondiale, fu in vigore fino al 1954 un razionamento molto rigoroso.
La curatela di questo catalogo fu certamente il viatico per l'incarico a Licia Collobi della Mostra e del Catalogo La sedia italiana nei secoli (1951) per la allora ancora prestigiosa Triennale di Milano, che oltretutto era uno dei pochi Enti con consistenti mezzi economici. Di questo studio e altri scritti di Licia Collobi riguardanti mobilio e arredamento pubblicheremo altri post su questo nostro blog.
Per inciso, infine, non sembra incauto affermare che conseguenza abbastanza diretta di questa mostra fu l'istituzione – proprio a Firenze e proprio in Palazzo Strozzi – delle Biennali Internazionali di Antiquariato per volontà di Luigi Bellini (che abbiamo ricordato nel post Ponte a S. Trinita, 4 – Appendici, di prossima uscita e che ricorderemo anche con uno scritto commemorativo su di lui di C.L.Ragghianti, pubblicato sulla “Gazzetta Antiquaria, n. ¾, lug.-sett. 1981) nel 1959, dopo un primo tentativo nel 1953 di sola presenza antiquaria italiana.


lunedì 13 novembre 2017

Traversata di un trentennio, 1

Quarant'anni dopo: siamo sempre lì.

Perché ristampare Traversata di un trentennio. Testimonianza di un innocente? Rispondiamo con le parole (vedi “SeleArte”, IV serie, n. 17, 1° maggio 1993, p. 3) scritte or sono quasi venticinque anni, prima del nefasto Berlusconi, prima della dissoluzione delle “ideologie” tradite sistematicamente


dai propri portabandiera, prima dell'attuale scampato pericolo liberticida di tradimento costituzionale e in vista delle elezioni politiche – previste per la primavera 2018 – il cui esito si profila irrimediabilmente catastrofico. Citando Benedetto Croce, heri dicebamus
Pensiamo di riproporre l'intero testo diviso in cinque mensilità, in modo che per le cruciali e quasi sicuramente non risolutive elezioni del 2018 l'opera sia disponibile per una – di fatto assai contenuta – consultazione e possibilità di riflessione.
Quindi qui citiamo quanto d'altro in proposito del libro sia comparso in “SeleArte”, IV serie, e poi leggibile in questo blog. Inoltre contiamo di rendere pubblici i documenti e lettere di C.L.R., riguardanti il libro, postandoli come Appendici dopo il testo originale. Così nel fascicolo 17 sopra citato, oltre all'Editoriale (p.3) si leggono le recensioni di Raffaello Franchini, Traversata (p.6); di Manlio di Lalla La rinascita italiana non è impossibile (p.9); di Cosimo Ceccuti La Traversata ha vinto il Premio Internazionale Nuova Antologia (p.10). Invece nel fascicolo n. 6 di “SeleArte” (qui postato il 30.12.2016) a p. 19 riportiamo quanto C.L.R. scrisse in proposito a Pascale Budillon Puma: “Il mio libro del 1977 Traversata...è il resoconto del fallimento non tanto mio e della Resistenza, ma della democrazia organica nel nostro Paese (io mi sono anche speso per la riforma dell'amministrazione del Patrimonio artistico)...”. Nello stesso fascicolo n. 6 da p. 31 a p. 48 abbiamo: “Sul volume Traversata di un trentennio e sul 'compromesso' partitocratico. Lettere e documenti/Il compromesso (12/12/1978), p. 32; a Sandro Pertini 
(20/11/1978), p. 33; a Sergio Fenoaltea (25/11/1978), p. 34; a Giuseppe Are (20/11/1978), p. 35; da Carlo Cassola (27/11/1978), p. 36; a Carlo Cassola (3/12/1978), p. 37; a Ugo La Malfa (25/11/1978), p. 38; a Domenico Settembrini (3 e 21/12/1978), pp. 39,40; a Enzo Bettiza (21/12/1978), p. 41; a Elena Croce (21/12/1978), p. 42; a un'Amica (1/1/1979), p. 43; Sulla fine della prima repubblica (9/4/1979), p. 45; Recensione di Riccardo Bauer (4/1979), p. 46; a Riccardo Bauer (8/5/1979), p. 48. 
Sempre in “SeleArte”, poi, compaiono altre citazioni che saranno riscontrabili negli Indici di questa IV serie, al momento in avanzato stadio di preparazione. Contiamo, altresì, di completare entro breve tempo la postazione di tutti i fascicoli fino al n. 26 ed ultimo.
Vedendo il precedente riferimento a Sandro Pertini mi è d'obbligo, ancorché caro, ricordare ancora una volta la coerenza morale di Ragghianti, incurante di tatticismi e private convenienze, nonché il fatto notorio che la pubblicazione de la Traversata gli costò la nomina di senatore a vita, che il tronfio e “prudente” nonché sostanzialmente conformista Pertini gli aveva fatto intravedere.
A questo proposito è opportuno rendere nota la lettera indirizzata a Indro Montanelli, col quale Ragghianti dal 1974 aveva una libera e saltuaria collaborazione a “Il Giornale” e riconsiderati rapporti di stima personale.

lunedì 6 novembre 2017

Rolando Bellini su Guido Pinzani



Questo testo fa riferimento alle opere di Guido Pinzani che illustrarono il volume “La Torre pendente di Pisa” e quasi tutto il fascicolo n. 26 di “SeleArte”, IV serie, 1998 e doveva essere pubblicato nel n. 27 della rivista (parzialmente allestito) non stampato a causa della cessazione della Fanzine ragghiantiana dovuta essenzialmente a ristrettezze economiche. Rolando Bellini, brillante, fido e devoto assistente di Carlo L. Ragghianti per diversi anni all'Università Internazionale dell'Arte di Firenze, nel 1998/99 già da qualche tempo risiedeva a Varese dopo il suo matrimonio e insegnava all'Accademia di Belle Arti, prima di Torino poi di Milano, a suo tempo non ebbe riscontro di questa sua “recensione”. Data la mia situazione di allora (disoccupato, incazzato, con la famiglia orfana dei miei genitori in disfacimento) non pensai certo a giustificare la mancata pubblicazione di questo contributo.
Spero soltanto che Rolando Bellini non se ne sia rammaricato più di tanto: certamente avrà pensato ad una ritorsione per la mancanza di solidarietà espressami al momento dell'astuto siluramento sul lavoro. Certo ce l'avevo con lui (e forse è plausibile che gli avessi spedito per recensione un esemplare del libro sulla Torre di Pisa privo dell'incisione originale) ma molto, molto meno che con certe e certi altri tipi che, con varie sfumature miserabili e non giustificabili, se n'erano a dir poco lavate le mani. Includo alla fine del post la riproduzione di un disegno a china di Guido Pinzani, eseguito l'11 dicembre 1995 nella Biblioteca dell'Università dell'Arte durante uno dei consueti incontri che allora avevo con questo artista (sull'opera del quale mi riprometto di tornare) sottovalutato e sottostimato ingiustificatamente.
Francesco Ragghianti



giovedì 2 novembre 2017

Un libraccio su Arturo Checchi

Una doverosa premessa: non ce l'ho con Arturo Checchi, che anzi stimo come artista tant'è che intendo occuparmi della sua opera in un prossimo futuro e farlo in termini positivi. Sono più che indignato e reattivo (data la mia pregressa e principale attività lavorativa quale redattore e realizzatore di libri e riviste) con chi cinicamente ha danneggiato Checchi per fini speculativi, per di più mentre l'artista già a fine vita era appena deceduto. Sono risentito anche con Libro Co Italia che detiene e commercia la giacenza del volume anziché passarlo al macero. Mi sono procurato questo libro per poter verificare ed identificare con certezza titoli e date e dati di acquaforti e litografie del pittore di Fucecchio, comprandolo perché l'unico in commercio che vantava i requisiti che mi interessavano, assenti in altre opere dignitose che avevo riscontrato in precedenza. Per la precisione la vistosa monografia del 1962 che gli dedica Mino Rosi, che conobbi quale amico di mio padre, edita in un precoce offset da Amilcare Pizzi, e Arturo Checchi. Le carte, le opere, la vita, monografia di piccolo formato pubblicata nei "Quaderni della Fondazione Montanelli-Bassi" da Bibliografia e Informazione, 2013.
Il libro oggetto di questa stroncatura è Arturo Checchi. Incisioni e litografie e siccome l'ho acquistato pagandolo 64 euro (spese di spedizione comprese, bontà loro) mi sento autorizzato ad infierire sulle pecche riguardanti l'opera e il catalogo di un artista di per sè più che dignitoso.
Cominciamo dall'editore: Bruno Nardini, mugellano fiorentinizzato che ai suoi tempi contava (quindi probabilmente massone o clericale o entrambi con – perché no – qualche ammiccamento con i comunisti, cosa che non guastava mai i galantuomini). Dopo lunga dirigenza nella Mondadori di Verona, si fa editore in proprio: questo dovrebbe essere uno dei primi, se non addirittura in primo titolo edito con il suo marchio.
Il volume è ingombrante (cm. 24X32), pesante e, come detto, totalmente privo di apparati: manca l'Indice; le illustrazioni hanno titolo ed anno (perché forniti evidentemente da Checchi, che ho avuto modo di riscontrare era alquanto pignolo), però sono prive delle misure (e non credo che siano tutte riprodotte in scala 1:1; e, se così fosse, è necessario, nonché utile, dirlo in qualche luogo dell'opera!); sono anche prive dell'indicazione del colore, dell'inchiostro o degli inchiostri usati nella stampa degli originali al torchio. Quindi cosa si può dire ancora di non sgradevole quando una monografia e un catalogo non riportano nessun dato, nessuno ripeto, che specifichi la singola opera oltre – come sopra detto – al titolo e alla data? Tanto, purtroppo: non si indica che tipo di lastra si è usato, né la carta o le carte adoperate; tantomeno c'è l'indicazione della tiratura o delle tirature dei vari "stati". Sono cose che hanno molta importanza sul piano commerciale e che interessano ai collezionisti, i quali comprano questo tipo di libri proprio per avere le notizie qui mancanti. Infine le pagine non sono numerate, nemmeno quelle dei testi critici!
Per concludere questa parte, bisogna rilevare che manca una, sia pur breve, presentazione; mancano, sia pur minime, biografia e bibliografia dell'artista. E'assente persino (si tratta di un dato obbligatorio per legge) il "finito di stampare" con data e nome del tipografo! Roba da chiodi, mai vista. Se fosse un libro fresco di stampa ci sono gli estremi per chiedere il rimborso o chiederne il ritiro dal commercio.
Ben sei sono gli autori coinvolti, con interventi non corposi e difficili da trovare per l'assenza di indice e numero pagina; erano e sono piuttosto noti almeno cinque di essi. Il sesto, Ottorino Guerrieri, che mi giunge nuovo, è uno scrittore e critico locale. Naturalmente di nessuno di costoro nel libro c'è il pur minimo cenno biografico o almeno l'indicazione di a che titolo scrive in quella sede di Arturo Checchi.
Per una simile presa per i fondelli nei riguardi della decenza tipografica non può valere come attenuante il fatto che la monografia sia in realtà stata commissionata dall'Artista per "propagandare" la propria attività. In questo caso, anzi, direi che umanamente si configura una sorta di turlupinatura a danno di persona inesperta e non reattiva per momentanea incapacità, dati gli ottantasei anni e la valitudinarietà. Arturo Checchi, infatti, morì nel 1971, quindi non fu in grado di controllare o di reagire all'obbrobrio perpetrato a danno della sua immagine e della sua vedova ed erede.
Nella citata monografia del 2013 su Checchi questo pesante volumaccio nardiniano è citato spesso come "s.i.p." (per chi non lo sa vuol dire "senza indicazione pagina") e nella Bibliografia colà presente a p. 122 vengono indicate due voci edite da Nardini (1971,1972), però esse non hanno il titolo che compare in questo libro che stiamo esaminando e che – per altro – i rivenditori su Internet unanimemente datano 1971, edito quindi, come già rilevato, con Checchi morente o appena defunto. Anche nel caso del libro della Fondazione Montanelli-Bassi si è preferito da parte dei curatori un comportamento molto ambiguo: citare i testi là dove serviva, ignorare non solo le pecche ma l'esistenza "ufficiale" dell'opera.
Questa intemerata non è uno scatto umorale e quanto scritto su questo libro è soltanto la reazione sdegnata di una persona offesa nella dignità professionale. Per più di trent'anni, infatti mi sono occupato di realizzare libri, importanti e cestinabili, utili e superflui, belli e brutti, per altri editori ed in proprio, ma tutti corretti ed aderenti ai dettami della tipografia e dell'Editoria. Sono stati anni di esperienze le più varie, con una partecipazione latitudinaria: dalla correzione di bozze, all'impaginazione, dalla tecnologia alla stesura dei testi promozionali e/o complementari all'edizione, dalla dirigenza all'esercizio della proprietà editoriale.
Per concludere il discorso su questa, diciamo "anomala"?, monografia sulla grafica di Arturo Checci, spendiamo qualche parola sui testi che sono sparsi nel volume. Si tratta di brevi saggi di qualità ed impegno discontinui, che ci riserviamo di analizzare e citare soltanto se significativi e complementari al Post su Checchi che sto impostando. Il primo (Le acqueforti) è di Mary Pittaluga, amica di mia madre, insegnante e apprezzata studiosa di grafica; il secondo è Umberto Baldini (su due acqueforti), laconico come sempre; il terzo di Giuseppe Sprovieri (la xilografia); poi il quarto di Indro Montanelli col suo "pensiero" su Checchi, curiosamente inserito nella sezione litografie, è probabile riproposta di testo già edito; quindi è Enrico Sacchetti, penso in citazione stanti le diciassette righe su C. disegnatore; sesto ed ultimo Ottorino Guerrieri (Giardini di Perugia), città dove visse negli ultimi anni l'artista.
Concludono la parte scritta del libro tre pagine della vedova, Zena Fettucciari, in memoria del marito.


martedì 31 ottobre 2017

John Pope-Hennessy

Ogni volta che apro il nostro blog "Ragghianti&Collobi", atto che compio almeno una volta al giorno, subito guardo la fotografia di "copertina" con i miei genitori sul terrazzo di Villa La Costa, sorridenti e già maturi, proprio come li ricordo in quegli anni quando avevo iniziato a collaborare con loro, riordinando anche la Fototeca dopo la confusione lasciata dal precedente – e pagato – incaricato Raffaele Monti. Oggi, finalmente e fortuitamente, focalizzo l'attenzione sul libro che Carlo L. Ragghianti tiene sottobraccio e mi par di riconoscerlo per uno dei tre volumi del monumentale Catalogue of Italian Sculpture in the Victoria and Albert Museum: ingrandisco l'immagine e vedo che si tratta proprio del terzo volume dell'opera di John Pope-Hennessy, 1964. Ciò pone la fotografia in una data immediatamente posteriore, al 1965 come conferma il taglio di capelli della Mamma, siccome il parrucchiere Primo la acconciò in occasione della festa al Forte del Belvedere per il trentesimo anniversario di "Critica d'Arte".
Questa circostanza bibliografica mi ha fatto tornare in mente un breve testo che scrissi in corsia del Pronto Soccorso di Careggi durante la settimana di degenza che vi trascorsi nel 1994, in seguito ad una grave melena dovuta alla componente acetilsalicilica di un farmaco antinfluenzale. E' un testo che redassi per scacciare la noia e fu motivato dalla notizia, letta nella cronaca di Firenze, della morte di sir John della cui esistenza in verità mi ero scordato. Questa nota mi è anche cara perché divenne la prima di quella serie di "dramatis personae" che iniziai per fissare la memoria di circostanze interessanti o di una certa importanza. Proprio in quei giorni, in un non casuale riesame della propria esistenza, decisi che – una volta tornato a casa – avrei distrutto ogni traccia di tutto ciò che avevo prodotto come "negro" o comunque per conto terzi perché costretto dalle necessità derivate dalla disoccupazione e poi dal part-time. Si trattava di testi che in parte non avrei potuto divulgare per il contratto di riservatezza col committente, in parte, e soprattutto perché estranei ai miei interessi e convincimenti.Riporto nella sua integrità il suddetto contributo:

POPE HENNESSY, sir John
<<Anche sir John se n'è andato, in punta dei piedi come quel vero gentlemen inglese che era. Non so bene quali rapporti intellettuali avesse avuto col babbo, certo conosceva meglio di tanti altri longhiani il suo lavoro e le sue capacità di connoisseur, poco note perché esercitate en passant, ma penetranti. E lo stimava – anche questo tramite Berenson? – come d'altra parte il babbo apprezzava il suo lavoro filologico sulla scultura italiana. L'ho conosciuto proprio alle esequie del babbo, quando arrivammo a Trespiano al seguito immediato del carro funebre. Parcheggiai l'auto pochi metri oltre il furgone, per non intralciare la cerimonia del commiato dalla salma al cospetto del Gonfalone, insignito della medaglia d'oro che proprio Ragghianti, nel 1945 da Roma, gli fece attribuire per il valoroso comportamento della popolazione fiorentina, di cui lui stesso aveva coordinato e guidato la resistenza. 
Isolato, accanto ad una signora che mi pareva di conoscere – era Alessandra Pandolfini, ormai da molto vedova Marchi – , c'era un signore canuto, alto e 
dinoccolato. Mentre le sorelle procedevano verso Fanfani e Spini già accanto alla bara, la Marchi mi fermò dicendo: 'Questo è sir John. Vuole farvi le condoglianze.' Le fece in perfetto italiano; ci stringemmo la mano con un reciproco inchino molto "vieux-jeu". (3/11/1994, dall'ospedale)
Per completare questo Post mi sono un po' documentato, colmando le lacune del testo precedente, e ho riscontrato che Ragghianti su "Critica d'Arte", sett-dic. 1937, p. XLIV, dedica una nota di sedici righe a Predella da Giovanni di Paolo, pubblicato dal Pope-Hennessy; poi sul fascicolo XIV (Aprile 1938) della rivista a p. XI c'è la breve recensione dello studio sui pittori lucchesi Zacchia. Nel viaggio di studio e di cospirazione antifascista del 1939 in Gran Bretagna R. non conobbe P.-H. di persona, cosa che avvenne forse in precedenza a Roma, come si deduce da una lettera del critico inglese datata 20 agosto. Nel dopoguerra ci sono stati sicuramente contatti non frequenti, stanti le differenti frequentazioni sociali tra i due studiosi, come attesta la loro stringata corrispondenza, conseguenza anche del fatto che sir John abitò a lungo a Pisa (dove R. insegnava), poi a Firenze (dove R. abitava).
Nel penultimo fascicolo della prima serie di "seleArte" (n. 76, ott.-dic. 1965, pp 29-34) mio padre recensì l'opus da cui prende spunto questo Post, con queste positive considerazioni: "Più che un catalogo, e sia pure quanto mai approfondito nell'analisi storico-critica, e larghissimo di informazione, è una vera e propria storia della scultura italiana dal XI al XIX secolo. La raccolta del museo londinese, infatti, è per la scultura italiana la più grande del mondo, e quasi tutti i grandi e minori artisti vi sono rappresentati, spesso con opere fondamentali per la loro conoscenza. Particolarmente ampia è la documentazione delle "scuole" di Civitali, di Amadeo, dei Lombardi e numerosa la collezione degli scultori fiorentini del Cinquecento.
Poiché è impossibile dare qui una anche sommaria relazione sul vastissimo compito svolto dall'A., né sarebbe il luogo, questo, per discutere ed esaminare le tante attribuzioni, i molti riconoscimenti che gli si debbono, ci limitiamo ad illustrare, per i nostri lettori, pochi esempi delle opere da lui schedate...".
Dopo la pubblicazione di questo testo non risultano – salvo un invito, declinato per impegni, a tenere un corso di lezioni alla neonata Università Internazionale dell'Arte – particolari contiguità tra i due studiosi fino al 1986, quando l'antico amico e collega all'Università di Pisa Tristano Bolelli chiese a Ragghianti di presiedere la Giuria del Premio Galilei, del quale il glottologo insigne era il fondatore e promotore. Nella sua 25ma edizione il premio di questa prestigiosa manifestazione doveva essere attribuito a uno Storico dell'Arte. La Giuria attribuì l'ambito riconoscimento a Pope-Hennessy, con la motivazione finale che riprendiamo dal manoscritto del suo Presidente (e che comunque riproduciamo nelle sue due pagine) che si concludeva con questo giudizio di Ragghianti: "il contributo dato da John Pope-Hennessy allo studio e alla conoscenza dell'arte italiana fra i secoli XIV e XVII non ha confronti sul piano internazionale, e pochi riscontri nella stessa Italia, alla cui arte lo studioso ha dedicato un impegno di cinquant'anni, coronato da risultati che hanno agito in modo determinante e sempre significativo per ristabilirne le componenti e la storia".